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Mali, nuova frontiera della santa guerra

di Michele Paris - 01/11/2012



La comunità internazionale guidata dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea sta preparando in queste settimane l’ennesimo intervento militare in nome della salvaguardia dei diritti umani e della lotta all’estremismo di matrice islamica. Il nuovo fronte di guerra é situato questa volta in Africa occidentale, dove gruppi terroristici legati ad Al Qaeda hanno da qualche tempo preso il controllo del nord del Mali, un paese già considerato un modello di nascente democrazia nel continente e finito invece nel caos in seguito alla campagna della NATO in Libia e ad un colpo di stato messo in atto lo scorso mese di marzo.

Il 12 ottobre scorso, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità una risoluzione con la quale sollecita i governi che fanno parte della Comunità Economica dei Paesi dell’Africa Occidentale (ECOWAS) ad organizzare una forza di invasione per liberare il Mali con un contingente di soldati di altri paesi africani e di ciò che resta dell’esercito locale. Alcuni governi ECOWAS, tra cui la Nigeria, si sono impegnati a fornire circa 3.000 uomini, mentre altri, come Ciad e Sud Africa, hanno per ora offerto solo vaghe promesse di aiuti militari.

La risoluzione è stata presentata dalla Francia e stabilisce la data del 26 novembre prossimo come termine ultimo per la presentazione da parte dell’ECOWAS di un adeguato piano di intervento militare in Mali.

Vista la loro impopolarità nella regione, i rischi connessi ad un intervento diretto e i problemi di budget, Stati Uniti e Francia, vale a dire i paesi con i maggiori interessi in questa parte del continente africano, intendono fornire solo un supporto logistico e di intelligence alla coalizione militare che si sta preparando. Per molti osservatori, tuttavia, il numero di truppe finora promesse dai vari paesi sarebbe troppo esiguo per intervenire efficacemente in un’area delle dimensioni della Francia.

In ogni caso, la riuscita dell’operazione sembra dipendere anche dal coinvolgimento del paese considerato di gran lunga con le maggiori capacità militari nella regione, l’Algeria, sulla quale si stanno perciò concentrando gli sforzi diplomatici occidentali. A testimonianza dell’importanza di questo paese per la risoluzione della crisi in Mali, lunedì il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, è approdata ad Algeri dove ha incontrato sia il ministro degli Esteri, Mourad Medelci, sia il presidente, Abdelaziz Bouteflika, chiedendo a entrambi di appoggiare una forza regionale destinata a “stabilizzare” il vicino meridionale.

Al termine della visita, gli USA e l’Algeria non sono stati in grado di annunciare alcun accordo sull’intervento in Mali, ma hanno affermato di volere continuare a dialogare sulla questione, mentre Washington ha promesso di tenere in considerazione tutte le preoccupazioni di Algeri in relazione ad un possibile coinvolgimento nell’operazione. La visita della Clinton è stata la sua seconda nel paese nord-africano in veste di Segretario di Stato ed ha preceduto una serie di incontri avvenuti la settimana scorsa a Washington tra esponenti dell’amministrazione Obama e del governo algerino.

A conferma della vera e propria offensiva diplomatica in corso per convincere Algeri, anche la Francia ha intensificato i contatti con la ex colonia negli ultimi mesi. Così, il ministro degli Esteri di Parigi, Laurent Fabius, si era recato in Algeria in visita ufficiale lo scorso mese di luglio, mentre il presidente Hollande dovrebbe essere ricevuto da Bouteflika il prossimo dicembre.

L’Algeria condivide con il nord del Mali una linea di confine lunga quasi 1.400 chilometri e continua ad essere molto cauta verso un intervento militare esterno in questo paese, anche se membri del regime hanno mostrato più di un’apertura nelle ultime settimane.

Il governo di Algeri teme infatti le ripercussioni che sarebbe costretto a subire in seguito al più che probabile passaggio entro i propri confini dei fondamentalisti islamici presenti in Mali in caso di un intervento militare. Inoltre, il regime si troverebbe a fare i conti con una possibile radicalizzazione delle popolazioni Tuareg che ospita e che sono presenti in maniera significativa anche oltre il confine meridionale. Infine, tra la popolazione algerina è ancora molto vivo il ricordo del sanguinoso conflitto interno che dall’inizio degli anni Novanta fino a un decennio fa ha messo di fronte forze governative e militanti islamici, facendo decine di migliaia di vittime.

La situazione in Mali era precipitata il 22 marzo scorso, quando un gruppo di soldati ribelli, guidati da un capitano addestrato negli Stati Uniti, Amadou Sanogo, aveva deposto il presidente eletto, Amadou Toumani Touré. L’instabilità creatasi nella capitale, Bamako, aveva permesso alla persistente ribellione Tuareg nel nord del paese di conquistare il controllo di un ampio territorio sfuggito dalle mani del governo centrale.

Nel condurre questa offensiva, i Tuareg del Movimento di Liberazione Nazionale Azawad (MNLA) avevano unito le loro forze con quelle di svariati gruppi estremisti islamici operanti nella regione del Sahel, alcuni dei quali legati ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) e con ogni probabilità già impegnati nel conflitto in Libia a fianco dei “ribelli” sostenuti dalla NATO. I fondamentalisti, tuttavia, hanno ben presto preso il sopravvento sui Tuareg, impadronendosi del controllo della regione, dove hanno imposto la legge islamica, distruggendo importanti edifici storici, in particolare nelle città di Gao e Timbuktu, considerati offensivi della loro interpretazione arcaica dell’Islam.

Le responsabilità principali della crisi in Mali sono però da attribuire a quegli stessi governi che sostengono ora la necessità di un intervento militare per ristabilire l’ordine nel paese africano. La destabilizzazione del Mali è infatti la diretta conseguenza, oltre che di problemi e contraddizioni di lunga data, dell’intervento NATO in Libia e della caduta del regime di Gheddafi.

Tripoli aveva investito massicciamente in questo poverissimo paese, così come aveva svolto un ruolo di mediazione nelle rivendicazioni dei Tuareg. Allo stesso tempo, numerosi Tuareg avevano trovato rifugio e impiego in Libia, nelle forze di sicurezza del regime e non solo. Alla caduta di Gheddafi in seguito all’aggressione della NATO, molti Tuareg sono tornati in Mali, spesso con armi pesanti a loro disposizione, e hanno finito per sfruttare l’instabilità del governo centrale per assumere il controllo del nord del paese una volta cacciato l’esercito regolare.

Anche se le previsioni dei governi impegnati nei preparativi per l’intervento prospettano un’operazione che dovrebbe durare solo alcuni mesi, in Mali sembrano esserci in realtà tutte le condizioni per un conflitto prolungato e sanguinoso, tanto che vari analisti hanno messo in guardia apertamente dalla creazione di un possibile nuovo Afghanistan nel cuore dell’Africa.

La conformazione del territorio, con ampi spazi desertici, rappresenta il primo ostacolo e, in secondo luogo, secondo alcuni resoconti giornalistici sembra che nel nord del Mali stiano convergendo consistenti e agguerriti gruppi di jihadisti provenienti da varie parti dell’Africa e del Medio Oriente per prepararsi ad affrontare un intervento esterno.

Nella crisi in Mali sono in gioco diversi interessi che riguardano le potenze occidentali, preoccupate per la creazione di una base logistica dell’integralismo islamico da cui lanciare offensive contro l’Occidente. Per gli Stati Uniti e, soprattutto, per la Francia, c’è da considerare ancor più la volontà di ampliare la loro influenza in un’area del continente dove sono presenti importanti risorse del sottosuolo e dove la Cina ha stabilito forti legami commerciali negli ultimi anni.

Parigi, infatti, ha già mostrato lo scorso anno di volere perseguire una politica aggressiva in questa regione con l’intervento nella vicina Costa d’Avorio, ex colonia francese come il Mali, per imporre il presidente filo-occidentale Alassane Ouattara ai danni di quello uscente, Laurent Gbagbo, dopo che quest’ultimo era stato dichiarato sconfitto nelle elezioni del dicembre 2010.

Il sempre più probabile intervento militare in Mali rischia anche di creare una nuova emergenza umanitaria, dopo che in seguito ai disordini di questi mesi più di 300 mila civili sono già stati costretti ad abbandonare le proprie abitazione e oltre mezzo milione continua a fare i conti con la fame e la siccità in uno dei paesi più poveri dell’intero pianeta.