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Oltre il liberismo, alla riscoperta delle radici…

di Umberto Bianchi - 07/11/2012


Un anno strano, questo, in cui scandali, ruberie e malversazioni d’ogni genere e tipo, sembrano venir fuori tutti assieme, d’improvviso, in una serie di colpi mediatici che non sembrano risparmiare nessuno, destra, sinistra, centro. Tutti colti lì, con le mani nel sacco o, come talvolta si suol dire, con il classico “sorcio in bocca”, che però, permetteteci, sembra esser stato messo lì apposta, per far cadere in trappola uno per uno, gli uomini del sistema.

Questo strano gioco si sta intensificando ora, in periodo pre elettorale, sotto l’improvvido regno di Mario Monti, il cui nome, guarda un po’, ricorre sempre più frequentemente quale candidato ad una seconda “nomination” al governatorato d’Italia, per conto dei poteri forti della finanza mondiale. L’aplomb, il distacco, l’ironia, con cui il Presidente-governatore risponde alle paventate minacce di far cadere il suo “maledetto governo”, sono sin troppo sospette, ed in effetti, tradiscono la sicumera di chi sa di poter contare su robusti appoggi, situati ben oltre gli angusti confini della politichetta italiana.

L’arroganza e la faccia di bronzo di certa gente, d’altronde, sembra non conoscere più limiti né pudori di sorta. E’ recente la notizia dell’arrivo in mezza Europa di nuove capitalizzazioni di istituti di credito in forte crisi di liquidità, da realizzarsi naturalmente senza alcuna contropartita perché, come qualcuno in un  recente passato ha affermato “l’economia si regola da sola”.

Questo mentre borse, mercati, ma specialmente crescita e posti di lavoro, subiscono un’ulteriore flessione in tutta l’eurozona. Con le loro belle faccette compassate e seriose certi signori ci dicono che il nostro paese va meglio, sta superando la crisi, a patto però di “fare sacrifici”, tagliare l’odiosa spesa pubblica, a costo di svendere il patrimonio immobiliare dello Stato a prezzi di saldo.

Tutto questo mentre in Afghanistan, si continua a mandare a morire dei poveri giovani, spendendo ogni anno delle cifrette che pensiamo non siano certo d’aiuto al tanto declamato problema della spesa pubblica, anzi. Certo, meglio tagliare pensioni, sanità, cultura, posti di lavoro. Meglio chiudere acciaierie, tutto all’improvviso riscoperte quali inquinanti aggeggi da rottamare, lavoratori inclusi. Tanto la Fornero ha detto che non esiste alcun diritto al lavoro, ed anzi, meglio non fare gli schizzinosi, ragazzi, o le raccomandazioni di turno, o giù a fare gli schiavi in qualche oscuro “call center” di periferia.

“Così van le cose”, canta un antico adagio… Ma quello che ancor più stupisce in questo strano paese è di trovare gente che si diletta a festeggiare strani anniversari di ancor più strane “marce” mentre, a parere di chi scrive, da parte di certi ambienti non ci sarebbe proprio un bel niente da festeggiare, anzi. Qui nessuno vuole negare l’epocale importanza di quanto accadde in Roma quel lontano 28 Ottobre di novant’anni fa. Figlio di una particolare alchimia politica, un manipolo di intrepidi rivoluzionari seppe interpretare gli stati d’animo e le esigenze di un paese appena uscito dal trauma di una guerra mondiale e, coagulando attorno a sé tutti i settori della società del tempo, dette luogo ad un’esperienza sino a quel momento mai vissuta da nessuno stato del mondo occidentale, ovverosia quella del moderno stato totalitario. Un’esperienza non dissimile da quella che dal ’17 stava vivendo la Russia con la nascita dello stato totalitario dell’Unione Sovietica, ad opera dell’elite bolscevica.

Ambedue le esperienze sono tributarie dell’ispirazione soreliana, coniugata alle diverse interpretazioni date da ognuno al socialismo ed al problema dell’irruzione della tecno-economia sul proscenio del mondo. Al di là delle singole valutazioni, delle simpatie o delle antipatie, sta il fatto che le due Rivoluzioni di Ottobre furono il frutto di contingenze e di uomini difficilmente ripetibili. Tant’è che le turbolenze e le instabilità che negli anni che vanno dal secondo dopoguerra ad oggi travaglieranno le società occidentali, non porteranno ad alcuna nuova rivoluzione “totalitaria”, rimarcando in tal modo la propria natura di movimenti di riassestamento dei vari contesti socio politici. Le stesse vicende dei vari movimenti antagonisti, stanno lì a ricordarcelo. Da movimenti d’opposizione pura e dura, troppo spesso si è disinvoltamente passati a gattopardesche trasformazioni in senso di assoluta e totale quiescenza ai “desiderata” dei poteri forti.

Certo, passare dal superuomo nicciano e dannunziano, dalla solitaria figura dell’aristocrate evoliano, alla sua più attuale e casareccia versione nel “Superuomo de’ noantri”, rappresentato dal “camerata” Batman e dalle sue eroiche gesta, è davvero penoso. Altrettanto penoso il passare dalla fascinazione per la tragica figura mussoliniana, alla militanza all’insegna dei canali Mediaset e di quella figura da commedia all’italiana che è il Cavaliere, con tutto il suo contorno di nani e veline. Altrettanto tristi e sfigati gli epigoni dell’idea del Sol dell’Avvenire, passati in un battibaleno dalle mitiche glorie di Lenin, Stalin e Che Guevara, dall’antimperialismo duro e puro, ai bombardamenti sulla Serbia socialista, al buonismo ed al politically correct  agli ordini del globalismo economico di “Repubblica” e della “gioiosa macchina da guerra” PDs-DS-PDina, sino al vergognoso epilogo dei Penati e dei Tedesco vari.

Il problema qui non sta tanto nell’attaccamento a modelli ad oggi non riproponibili in toto, quanto nel non aver saputo attualizzare e coniugare al presente quelli che, delle esperienze totalitarie del passato, rappresentano i lati tuttora attuali e validi, senza dover per forza ricadere nel ghetto della criminalizzazione e dell’ostracismo. Nel proprio tentativo di offrire un’alternativa al problema ingenerato dall’irruzione dell’economia capitalista nella vita delle società occidentali, le due Rivoluzioni d’Ottobre (e tutte le loro filiazioni dirette ed indirette) finirono con l’omologare e con il soffocare tutte quelle istanze individuali e collettive, che invece quelle esperienze avrebbero potuto contribuire ad arricchire e migliorare.

In Italia, gli Alceste De Ambris, i D’Annunzio e tanti altri, in Germania gli Otto Strasser, gli Ernst Niekisch, i Karl Paetel ed altri ancora, in Spagna Josè Primo De Rivera, in Unione Sovietica i vari Trotzskji, Bucharin , Kamenev e via dicendo, furono eliminati o, nel migliore dei casi, messi a tacere, determinando così un avvitamento in senso burocratico dei vari regimi, che andarono via via perdendo quelle spinte innovative e rivoluzionarie che ne avevano caratterizzato la prima fase, con l’eccezione della vicenda del Fascismo italiano e del comunismo cinese. Il primo, per ritornare alle proprie istanze originarie, avrebbe dovuto auto elidersi con le note vicende del luglio 1943 e con la fondazione della RSI. Il secondo con la Rivoluzione Culturale del ’66, perseguì l’obiettivo del rinnovamento interno, tentando di decapitare l’intera classe dirigente cinese.

D’altro canto, però, le esperienze dei totalitarismi ci offrono il risvolto positivo di uno stato che, incentrato sulla pratica dell’intervento attivo nei fondamentali aspetti della vita di una comunità, (dall’economia alla sanità, all’educazione delle masse in genere, (sic!) si investe di una superiore dimensione etica. Nei totalitarismi questo si verifica grazie alla momentanea coincidenza tra stato e movimento politico, determinata dalla natura onnicomprensiva  e perciò stesso “totale” di quest’ultimo. Quello che dovrebbe rappresentare un fattore di continuità ed anzi, fare dello stato il perfetto incubatore atto a sviluppare e potenziare quelle individualità più spiccate e creative, finisce invece con l’acquisire con il tempo una natura transitoria, tutta a favore di quel già citato aspetto meramente “burocratico” ed omologante.

Ripartire quindi dall’idea di una radicale rifondazione delle categorie del politico, cominciando proprio dal rapporto tra quelle che, in questo ambito, rivestono una primaria importanza, ovverosia stato e movimenti politici. Qualcuno afferma che tra stato e movimenti politici esista una sorta di incompatibilità ontologica, che addirittura si ritroverebbe nella distinzione tra stato e nazione, laddove quest’ultima rappresenta un’insieme di individui riuniti in una comunità che condividono lingua, appartenenza etnica, e via discorrendo, mentre lo stato ne rappresenterebbe il lato meramente organizzativo.

Diversa è invece la natura del movimento politico, che dovrebbe rappresentare la precisa istanza di un’aggregato di individui che di quella nazione può rappresentare una parte o la totalità, a seconda dei casi. Istituzioni perenni le prime due, prodotti delle contingenze epocali, e perciò stesso transitorie, le seconde. Questa tripartizione così netta è stata adoperata dal pensiero sociologico “liberal”, che ha voluto fare dello stato un qualcosa di totalmente avulso da una comunità nazionale, facendo del momento economico il “medium”, la funzione portante, in grado di dare corpo alla convivenza tra “cives” e stato, che diviene un semplice tributario della funzione economica. In una dimensione “totalitaria” dello stato, a fare da “medium” è la nazione, di cui il movimento politico costituisce una espressione primaria, mentre l’economia finisce con l’essere uno dei momenti della vita comunitaria e lo stato, sociologicamente parlando, assume la valenza di coerente espressione organizzativa della sinergia movimento politico-nazione, imperniata sul momento educativo delle masse.

Sarebbe necessario, a questo punto,  operare un chiarimento del termine “nazione”, per evitare di ricadere in quanto mai inutili e vuote enfasi patriottarde, ponendo invece in evidenza il senso di “nazione”, nel ruolo di minimo comun denominatore archetipico, inteso come luogo di un plurimillenario sentire comune. Per questo, parlare oggi di una rifondazione del pensiero antagonista, non può non passare attraverso una completa rivisitazione di tutte le categorie del politico, a partire da quelle più attinenti alla sfera ideologica, partendo proprio da quel mare magnum costituito dal socialismo e dalle sue innumerevoli filiazioni, passando attraverso l’analisi di categorie socio economiche come “classe” e “capitale”, da rivedersi in un senso più attinente alle tematiche del 21° secolo e perciò stesso slegate dalle passate rigidità interpretative.

I limiti del concetto di classe, viene già alla ribalta, all’interno dello stesso marxismo, con la prassi politica leninista, che coniuga le istanze di classe con una prassi politica ristretta ad una elite di natura interclassista (una minoranza di proletari, piccolo borghesi, ufficiali dell’esercito, etc.), conferendo sempre più a quello stesso concetto di classe, una valenza di metafora, afferente ad un particolare stato d’animo, determinato da una trasversale condizione di malessere che, oggidì partendo da evidenti considerazioni socio economiche, si fa sempre più sentire comune.

Stesso discorso vale per il concetto di “capitale”, oggi etereizzato da una tale fluidità nelle transazioni e nei movimenti finanziari, da finire con il rendere problematiche molte di quelle intuizioni marxiane incentrate sull’idea del suo accumulo. Limiti ideologici e rigidità interpretative non possono però invalidare l’idea di “spinta in avanti” che attraversa l’intera narrazione del socialismo marxista, nel ruolo di vera e propria pulsione inconscia, nel nome di una affannosa ricerca di quella felicità negata  proprio da quel capitalismo che, nel nome di un forsennato accumulo di denaro, aliena l’uomo da se stesso e dalle proprie radici.

Radici, senza le quali l’individuo diviene un anodino tubo digerente privo di dignità, in quanto archetipi fondanti dell’esistenza e della dignità di un individuo e di una comunità, in quel ruolo di “tradere/portare appresso” nei secoli, proprio appunto delle varie “tradizioni” che dei popoli della terra costituiscono anima ed identità. Allo stesso modo, l’idea di democrazia,andrebbe necessariamente  riconiugata in favore di una sua prassi politica “diretta”, volta, attraverso il controllo diretto dei meccanismi istituzionali da parte delle masse, a costituire il naturale controbilanciamento a qualsiasi tentazione oligarchica o dittatoriale, ridonando però smalto ad un’idea etica, ovverosia “totale” dello stato, in grado di contrapporsi decisamente alla capitalistica mercificazione dell’uomo.

E, per tornare ad Hegel, ecco dunque realizzarsi la Sintesi attraverso l’incontro tra due istanze apparentemente opposte, ma complementari: la spinta in avanti, l’ansia di mutamento e la conservazione delle radici, nel ruolo di identità inconscie che danno senso alla vita. Una Sintesi che all’alienante “unicum” del modello liberal capitalista occidentale, dovrà invece saper contemperare una molteplicità di diverse esperienze ed ispirazioni, dando luogo ad uno scontro senza quartiere, mettendo in atto quanto lo stesso Trotzskji aveva preconizzato, a proposito dell’idea di una Rivoluzione mondiale.

Follia? Utopia da due soldi? No. Figlia di un’assoluta necessità politica, l’idea di un Fronte Comune delle forze antagoniste rappresenta un’ineluttabile tappa di passaggio, se si vuole in qualche modo fermare e ridimensionare il degrado umano, politico, economico ed ambientale a cui sta conducendo il Nuovo Ordine Mondiale. Un Fronte che, alle passate rigidità dottrinarie ed ideologiche, dovrà preferire la più pratica e remunerativa via del populismo, per non ricadere nella marginalizzazione settaria, a cui sono oggidì ridotte le forze antagoniste occidentali, nel loro insieme. Senza soffermarci oltre, la vicenda del venezuelano Chavez, dovrebbe offrirci un concreto esempio di quello che potrebbe essere un “populismo del 21° secolo”. Ecco perché l’unica, vera “marcia” da celebrare, è quella che inizierà con la presa di coscienza di un lungo e difficile percorso verso la Liberazione dell’Uomo, da perseguire al di inattuali schemi e rigidità dottrinarie, attraverso quella “Widerstand/Resistenza” già tanti anni fa preconizzzata ed auspicata da coraggiosi personaggi come l’anticonformista e nazional bolscevico Ernst Niekisch, relegato invece al ruolo di inascoltato profeta di sventura.