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I nostri atti ci seguono: perciò dobbiamo armarci di prudenza, giustizia e temperanza

di Francesco Lamendola - 08/11/2012




 

Oggi è un po’ passato di moda, insieme a tante altre cose buone e utili che si insegnavano un tempo, parlare delle quattro virtù cardinali, che già il pensiero greco conosceva e che Platone raccomandava all’uomo di imparare a conoscere e a praticare, come necessarie compagne di vita: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.

In chiave cristiana, la prudenza è la capacità di discerne il bene dal male; giustizia è il dare a Dio, agli altri ed a se stessi quanto è loro dovuto; fortezza è il saper perseverare nel bene, dopo averlo riconosciuto; temperanza è saper moderare gli appetiti sensibili e non smarrire la Stella Polare del vero bene, che non sempre coincide con il piacere.

Sono, comunque, virtù umane, tali cioè da poter rischiarare il cammino a qualsiasi individuo di buona volontà: pertanto chiunque dovrebbe esserne provvisto, indipendentemente dal fatto di credere o non credere in una determinata religione; l’uomo o la donna che ne siano sprovvisti mancano di qualcosa di essenziale, sono menomati nella loro stessa umanità.

Al di sopra di esse, per il cristiano, vi sono le tre virtù teologali, che pongono l’anima a immediato contatto con il mistero del divino: la fede, ossia la piena fiducia nella Rivelazione; la speranza, cioè il desiderio e l’attesa del suo compimento; e la carità, vale a dire l’amore a Dio e al prossimo; virtù ricordate anche da San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (13,13): «Ora dunque ci sono tre cose che non svaniranno: fede, speranza, carità; ma la più grande di tutte è la carità».

Ora, tornando alle virtù cardinali, tre di esse, prudenza, giustizia e temperanza, riguardano particolarmente la risonanza che le nostre parole e i nostri atti possono avere sulla vita del prossimo, oltre che sulla nostra stessa vita; mentre la quarta, la fortezza, riguarda in primo luogo il nostro personale cammino spirituale e solo in seconda battuta il prossimo.

Ma proprio la nostra epoca, che pone continuamente l’accento sui diritti e sulla libertà - diritti senza corrispettivi doveri e libertà non di essere, ma di sottrarsi a qualcosa - sembra particolarmente sprovvista di quel senso di responsabilità che dovrebbe ricordarci come, per usare le parole del titolo di un romanzo di Paul Bourget, i nostri atti ci seguono («nos actes nous suivent»), anche più di quello che non avremmo pensato o immaginato.

Certo, è impossibile prevedere la risonanza di tutto quel che diciamo o che facciamo, per non parlare di quel che pensiamo; né potremmo onestamente incolparci, e meno ancora venire incolpati, per qualunque possibile reazione essi dovessero provocare nel prossimo, al di là delle nostre intenzioni e della nostra volontà. Per esempio, è evidente che nessuno ci potrebbe imputare la responsabilità di avere istigato qualcuno all’omicidio, solo perché un pazzo, udendo un nostro discorso, magari pronunciato in tono scherzoso, ha preso terribilmente sul serio le nostre parole e ha voluto mettere in pratica una nostra innocente fantasia.

Ma fino a che punto sono innocenti le nostre fantasie, allorché le manifestiamo al prossimo; fino a che punto sono innocenti un discorso, un libro, un’opera d’arte, destinati ad avere una risonanza più o meno grande su altre persone, comprese quelle che non conosciamo affatto e che, magari, ricevono la nostra suggestione a molti anni di distanza, o perfino dopo la nostra morte?

Più si riflette sulla questione e più ci si rende conto che, oltre ad essere delicata, essa è anche terribilmente complessa. Ivan Karamazov, a tavola, dopo aver pranzato con il padre, col fratello Alioscia e con qualche ospite occasionale, butta là qualche frase sul fatto che Dio non esiste e che, di conseguenza, all’uomo tutto è permesso. In realtà il suo pensiero è molto più complesso, le sue idee morali sono molto più articolate, come si vedrà quando, da solo a solo con Alioscia, gli racconterà la “leggenda del Grande Inquisitore”; ma intanto lì, nella casa di Fëdor Pavlovic Karamazov, interpellato da quest’ultimo, egli risponde con voluta negligenza e quasi spazientito, in tono semiserio, mostrandosi peraltro assai sicuro di quel che dice.

Le sue parole vengono raccolte come oro colato e prese alla lettera dal servo Smerdjakov, che è anche suo fratellastro (illegittimo), il quale, sentendole pronunciare da un giovane colto e intelligente, non dubita nemmeno per un attimo che siano state dette in perfetta serietà; e costui, andando oltre le intenzioni di Ivan, finirà per commettere un crimine odioso, il parricidio, non tanto per derubare il vecchio, quanto per dimostrare a se stesso, proprio come il giovane Raskolnikov di «Delitto e castigo», d’essere un uomo superiore, che non ha paura di nulla e che non conosce né rimorsi né pietà nei confronti di una vita considerata inutile.

Non parliamo, poi, dei nostri atti: più ancora delle parole, essi operano direttamente su quanti ci stanno intorno e agiscono in profondità sulla loro sfera interiore, oltre che su quella materiale. Uno schiaffo, magari sacrosanto, dato da un padre al proprio figlio, ecco che può, in circostanze sfortunate, essere seguito da una reazione sproporzionata e, talvolta, irreparabile, come il suicidio del ragazzo; lo stesso può accadere per una bocciatura o un brutto voto che degli insegnanti, in perfetta coscienza, hanno sentito il dovere di assegnare a un loro studente.

Gli atti sessuali rientrano, ovviamente, nella categoria di quegli atti che sono suscettibili di provocare le più profonde conseguenze; e, a maggior ragione, vi rientrano quegli atti sessuali che vengono compiuti su dei soggetti più deboli ed esposti, o perché molto giovani e inesperti, o perché fragili psicologicamente e spiritualmente, oppure, ancora, perché si fidano dell’adulto e non sospettano di poter essere manipolati senza scrupoli.

La violenza sessuale può segnare gravemente la vita di una persona, a maggior ragione se si tratta di un bambino o di un adolescente. D’altra parte, non sempre è possibile tracciare una netta linea di separazione, in questo ambito, fra ciò che è violenza e ciò che non lo è, pur se vi assomiglia esteriormente: certe cose che si fanno o che si dicono, nel trasporto della passione, non possono essere prese alla lettera, trovano il loro vero significato solo in quel preciso contesto e, di solito, rientrano in un codice di comportamento che l’altro può facilmente comprendere e accettare. Però non sempre ciò avviene, e possono darsi delle situazioni nelle quali il margine di ambiguità si presta a gravi fraintendimenti, forieri di pesanti conseguenze.

Anche stabilire che cosa sia “amore” è tutt’altro che facile, quando si entra nella casistica concreta e si lascia il terreno delle definizioni astratte. Possiamo definire l’amore, infatti, come il sentimento che ci spinge a desiderare il bene dell’altro: ma sappiamo perfettamente che, almeno nell’amore sessuale, vi è anche la ricerca del proprio piacere, se non del proprio bene; senza contare che non è affatto agevole dire o riconoscere quale sia il bene dell’altro.

Certo è che “amore” è una parola abusata, che serve a giustificare praticamente tutto, anche la violenza: quante volte si pretende che esso valga a scusare comportamenti aberranti, aggressivi, persecutorî, che recano oggettivamente del male alla persona “amata”? Eppure, non sempre le cose stanno così come appaiono: accade  non di rado, infatti, che, sempre in nome dell’amore, la persona maltrattata non gradisca affatto di essere “liberata” dal proprio tormentatore, si rivolti anzi contro colui che cercasse di aiutarla, ergendosi fieramente a difesa del “povero” innamorato che, per troppo amore, l’aveva maltrattata, insultata, picchiata.

Allo stesso modo, non è sempre facile decidere quale sia il confine tra un rapporto sessuale rispettoso dell’altro, basato sul libero consenso di due persone responsabili e mature, ed uno che non possiede tali requisiti. Di sicuro il criterio non può essere solamente quello dell’età (una persona può essere immatura anche se adulta, mentre una persona molto giovane potrebbe essere matura a sufficienza), né quello della violenza astrattamente considerata (in un rapporto di tipo sado-masochista la violenza c’è, ma può essere accettata da entrambi e, comunque, può essere relativamente innocua, specie se ritualizzata).

Ci sono dei casi nei quali un adulto seduce un bambino e nei quali, nondimeno, è difficile vedere solo l’aspetto negativo, per esempio se il minorenne mostra un così profondo e sincero attaccamento al partner, da volerlo “aspettare” per sposarlo, o se l’adulto è disposto ad affrontare il carcere, pur di non separarsi dal giovane: ne abbiamo discusso, a suo tempo, trattando il caso di una insegnante americana che aveva un marito e quattro figli, allorché s’innamorò di un suo alunno tredicenne e ne rimase incinta (vedi l’articolo «Può una madre trentaseienne perdere la testa per un dodicenne? Il caso di Mary Kay Letourneau», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 09/09/2008).

Anche qui, bisogna evitare di giudicare le cose unicamente da quel che appaiono. Non è detto che il minorenne sia sempre così indifeso come potrebbe sembrare; talvolta, paradossalmente, può esserlo di più l’adulto; inoltre, non si può escludere che vi sia una volontà di seduzione da parte del minorenne, anche se nessun giudice sarebbe disposto a prendere in considerazione una tale eventualità, per la nostra ben nota tendenza a semplificare tutto e ad assegnare dei ruoli prestabiliti in base a quel che sembra e a quel che meglio si accorda con le nostre idee e con i nostri pregiudizi. Beninteso, quest’ultimo è un caso raro, nel quale - magari - più che di volontà del minore, si tratta di comportamenti inconsci, e che non aboliscono la responsabilità dell’adulto, proprio perché lui, e lui solo, può rendersi conto cosa vi sia da prendere sul serio nelle profferte di un soggetto minorenne, e cosa sia da attribuire ad una sorta di gioco inconsapevole.

La violenza fisica di un adulto su un minore delinea una situazione definita, nella quale non vi sono margini di dubbio; ma, anche qui, bisogna aver chiaro cosa sia violenza e cosa no: un confine che, nella pratica, è molto, molto labile. Fra adulti consenzienti, per esempio, una certa resistenza iniziale, e perfino un rifiuto, può non corrispondere alle reali intenzioni del soggetto; può configurarsi come una schermaglia amorosa, come un rito destinato a superare le propri inibizioni, che non significa un vero rifiuto, ma anzi un preambolo all’abbandono, purché, beninteso, il partner non si arrenda e non si scoraggi davanti a quell’apparente diniego. In tal caso, colui che oppone resistenza spera ardentemente, in cuor suo, che tale resistenza venga vinta dalla forza passionale dell’altro; ma che accade se, nel corso del rapporto, tale rifiuto apparente e simbolico si dovesse trasformare in un rifiuto reale, provocato a un improvviso ripensamento?

A maggior ragione le cose si fanno spinose quando è in questione un rapporto fra un adulto e un giovanissimo. Le conseguenze di un rapporto sessuale non voluto da quest’ultimo, anche se, alla fine, accettato e perfino vissuto con trasporto (sì che la violenza, se pure vi è stata, si è configurata come psicologia più che fisica, essendo stato teoricamente possibile, per la “vittima”, sottrarsi e reagire, se lo avesse davvero voluto), possono essere gravi, specialmente se il trauma si trascina nel segreto della coscienza e il soggetto non trova il modo di confidarsi ad alcuno per ricevere sollievo, consolazione e consiglio.

Possono venire così incubati dei disturbi psichici più o meno gravi, forse anche durevoli; disturbi che, non lo si dimentichi mai, sono la spia di una sofferenza dell’anima e non, come vorrebbe una concezione dell’uomo di tipo puramente materialista, un semplice scompenso chimico nelle circonvoluzioni cerebrali.

Un tipico esempio è quello riportato a suo tempo dal dottor Frank Caprio nel suo celebre studio «Variazioni nell’amore», e che ricorda la scabrosa situazione raffigurata nel dipinto di Balthus «La lezione di chitarra» (titolo originale: «Variations in Sexual Behavior», 1955; traduzione dall’americano di Gianluigi Bemporad, Milano, Longanesi, 1971, pp. 265-67):

 

«Una ragazza giovane nel fiore dei suoi vent’anni mi fu mandata dal suo medico che diagnosticò il suo caso come un disturbo digestivo di origine nervosa. I suoi disturbi principali erano la nausea e il vomito. Niente sembrava lenire i suoi sintomi. Quando cominciò progressivamente a peggiorare il medico arrivò alla conclusione che il vomito doveva in qualche modo essere in relazione con qualche profondo conflitto emotivo non risolto.

Infatti il medico non sbagliava, perché la ragazza era stata sedotta da una lesbica abituale e questo aveva portato a un grave caso di nevrosi ansiosa quale risultato del suo forte senso di colpa.  Essa era molto religiosa e si rimproverava per aver permesso che un episodio del genere fosse accaduto. La nausea e il vomito naturalmente erano simboli del modo in cui lei giudicava la propria esperienza. I sintomi le servivano come reazione di difesa inconscia contro le sue latenti tendenze omosessuali. Sappiamo ad esempio che accentuate reazioni di disgusto possono essere il sintomo  di una segreta attrazione interiore per quello contro cui il nostro io conscio si ribella. È questo il caso di Alice.

Alice fu invitata a passare il weekend con un’amica sposata il cui marito era assente per affari. Accettò, non sospettando che qualcosa di natura sessuale sarebbe accaduto. Le due donne si prepararono una buona cena e Alice fu indotta dalla padrona di casa a bere più vino di quanto potesse sopportare, cosa questa che la mise in uno stato di giovialità e di spensieratezza. Divennero scherzose, e a letto coninciarono a farsi il solletico in modo innocente. Durante la notte, la padrona di casa mise il suo cuscino ai piedi del letto. Alice non sospettò niente e si addormentò di nuovo. Poco dopo l’amica cominciò a baciare i piedi, le ginocchia e le cosce di Alice e gradualmente alzò la camicia da notte sopra la vita. Poi allargò le cosce di Alice e cominciò a baciarle gli organi sessuali.

Alice era sveglia e disse alla sua amica che la doveva smettere, o sarebbe scesa dal letto. La padrona di casa si rotolò sopra Alice e cominciò un “cunnilingus” e contemporaneamente si mise nella posizione del “sessantanove” portando i suoi organi sessuali contro il viso di Alice. A questo punto, Alice afferma, anch’essa si appassionò in tal modo da non poter resistere e si trovò afferrata da una forza così irresistibile da fare un “cunnilingus” alla sua ospite. Arrivarono all’orgasmo simultaneamente.

La mattina Alice provò una palpitazione al cuore, divenne conscia del’accaduto e dopo la colazione dovette andare in bagno a vomitare. Il pensiero di ciò che aveva fatto la notte la nauseava. <Era incapace di guardare la sua amica negli occhi e le disse che era molto dispiaciuta per quanto era successo. Le due donne non si videro mai più.

Questa fu l’unica esperienza omosessuale che ebbe Alice. Non la confessò mai a nessuno e cercò di dimenticarla, ma il suo vomito peggiorò e non poté più continuare il suo lavoro. Guarì completamente dopo la psicoterapia. L’analisi psicoterapica le permise di scaricarsi la coscienza e riuscì a capire quali fattori psicologici erano responsabili della sua nevrosi. Era completamente innocente e non sapeva che un fenomeno come il lesbismo esistesse.  A ogni modo dichiarò che era diventata più prudente e assennata dopo quell’avventura e sviluppò un sano atteggiamento nei riguardi dell’amore, del sesso e del matrimonio.»

 

Non discutiamo qui l’affermazione dell’autore che la sua psicoterapia ebbe l’effetto di riequilibrare completamente la sua giovane paziente e di riconciliarla con se stessa e con la sfera sessuale; così come a lui lasciamo tutta intera la responsabilità di quella osservazione, tipicamente freudiana, che una forte reazione emotiva tradisce spesso una segreta attrazione verso ciò che si detesta: cosa che può essere vera, ma anche totalmente priva di fondamento.

Il punto è che un adulto, o, comunque, una persona sessualmente esperta, dovrebbe avere la massima delicatezza nei confronti di un adolescente o di un ragazzo: non solo dovrebbe astenersi da tentativi di seduzione, ma anche da qualsiasi comportamento che lo possa turbare, anche solo con parole; e questo proprio perché non è possibile sapere quanto male potrebbe fargli e fin dove possa arrivare una sua eventuale reazione. Chi ci assicura che Alice, la protagonista del caso clinico sopra ricordato, non avrebbe potuto decider di farla finita, assumendo forti dosi di sedativi o gettandosi da un ponte, non sopportando più la vergogna e il rimorso per quanto aveva fatto? Infatti, ed è qui il suo vero dramma, ella non si era limitata a subire l’azione altrui, ma aveva attivamente e spontaneamente partecipato a quel rapporto sessuale, cosa che poi le aveva reso impossibile calarsi, ai propri stessi occhi, nel ruolo della vittima innocente, anche se è innegabile che lo sia stata davvero, in larga misura se non proprio del tutto.

La responsabilità della donna che l’aveva sedotta, comunque, rimane, ed è grave: tutto sta a indicare che si trattava di una persona abile ed esperta, non nuova a simili imprese e astuta, ad esempio, nel far bere del vino ala sua “vittima”, così da abbassarne le difese e da poterla rendere più docile e malleabile al proprio volere. Può darsi che ella abbia colto, sia prima che dopo aver fatto ubriacare la sua giovane amica, dei taciti segnali di disponibilità omosessuale da parte di questa; ma è impossibile che non si sia resa conto della sua inesperienza e ingenuità, e l’averne approfittato senza alcuno scrupolo rende la sua colpa decisamente grave. Qualcuno disse che, a quanti danno scandalo ad un piccolo, sarebbe meglio se venisse legata al collo una macina da mulino e fossero gettati in mare; e, anche se non si riferiva a scandali di tipo sessuale, il concetto ci sembra valido pure nel caso di questi ultimi.

Prudenza, dunque, giustizia e temperanza, devono essere l’abito che abitualmente indossiamo nei rapporti con noi stessi e con gli altri, fino a diventare quasi una seconda natura: prudenza, per evitare le situazioni ambigue e pericolose, che potrebbero sfuggirci di mano; giustizia, per non venir meno alla carità dovuta al nostro prossimo, la stessa che vorremmo fosse riservata a noi; temperanza, per non lasciarci sopraffare dalle nostre pulsioni inferiori, degradandoci e abbassandoci ad un livello sub-umano.

Neanche così potremo evitare del tutto l’imprevisto, perché le situazioni della vita sono talvolta complicate e sfuggenti, tali da mettere a dura prova anche la coscienza più salda e la volontà più esercitata.

Ma, almeno, non dovremo poi rimproverarci la nostra imprudenza, la nostra ingiustizia, la nostra intemperanza.