Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / «Origini del totalitarismo» di H. Arendt, rilettura di un’opera decisamente sopravvalutata

«Origini del totalitarismo» di H. Arendt, rilettura di un’opera decisamente sopravvalutata

di Francesco Lamendola - 12/11/2012



 

 

«Le origini del totalitarismo», pubblicato nel 1951 da Hannah Arendt (ma scritto, in realtà, in collaborazione col marito, Heinrich Blücher, intellettuale ebreo emigrato dalla Germania negli Stati Uniti insieme a lei e alla madre di lei) è stato accolto fin dal suo apparire come un classico del pensiero contemporaneo e addirittura, da parte di alcuni, come la parola definitiva sulla interpretazione dei due grandi totalitarismi del XX secolo, il nazismo e lo stalinismo.

Difficile dire quanto, su tali lusinghieri giudizi, abbia influito la simpatia, se non proprio la venerazione, che quasi unanimemente la cultura contemporanea ha riservato alla figura dell’autrice; basti citare Piero Citati che, in un alato articolo apparso su «La Repubblica» il 15-16 luglio 2003, ha descritto la Arendt come «la fanciulla con gli occhi brillanti che cercava la verità del mondo»; e ancor più difficile dire quanto possa aver giocato la solidarietà con una donna che apparteneva a un popolo perseguitato a morte negli anni cupi del nazismo.

Tuttavia, partendo proprio da questo aspetto, anche per sgombrare subito il campo da possibili malintesi, diremo che, a nostro giudizio, infinitamente superiore alla Arendt come pensatrice, ma anche come figura di donna intrepida e di ebrea perseguitata, ci sembra essere stata Edith Stein: e non per la sua conversione al cattolicesimo e per la sua decisione di farsi suora carmelitana, ma proprio per il suo aver affrontato la morte in solidarietà con il proprio popolo perseguitato, e più ancora per aver concepito la morte stessa non come una incompressibile ingiustizia della storia, ma come una offerta di amore verso il prossimo e verso Dio.

La Arendt, personalmente, non subì alcun persecuzione, tranne la rinuncia alla carriera universitaria in Germania dopo il 1933; anche se una volta, sentendo lo scrittore Hermann Broch dire che provava compassione per il sogno assurdo di Hitler, di essere amato dalle sue vittime, fece una tremenda sfuriata dicendo di non tollerare simili discorsi, lei che era stato una di quelle vittime e che era stata in campo di concentramento; e ci sarebbero voluti anni perché ammettesse di non essere mai stata in campo di concentramento, ma solo in un campo di internamento nella democratica Francia (non come ebrea, ma come cittadina tedesca).

Quanto alla coerenza politica e morale della Arendt, il fatto che a vent’anni la ragazza dagli occhi brillanti non si sia fatta scrupolo di diventare l’amante del suo professore di filosofia, Martin  Heidegger, sposato e con due figli (a meno che si sentisse giustificata dal fatto che sua moglie era una nazista), e di condurre con lui una lunga relazione clandestina, avvantaggiandosene anche sul piano della carriera universitaria, non le impedì, poi, dopo l’emigrazione in America, di scrivere appunto «Le origini del totalitarismo» tutto in chiave di polemica anti-heideggeriana, accusando i filosofi tedeschi e la borghesia tedesca di connivenza col nazismo; e ciò, a sua volta, non le impedì di buttare le braccia al collo del suo ex maestro ed ex amante, non appena lui le propose un incontro: lui, il sinistro figuro che aveva tenuto quell’imperdonabile discorso filo-nazista, il 27 maggio 1933, all’università di Friburgo.

Ma veniamo al suo cosiddetto capolavoro, «Le origini del totalitarismo». Tutta l’opera si regge su una supposta connessione fra l’antisemitismo europeo del XIX secolo, l’imperialismo coloniale delle potenze europee dal 1884 dal 1914 e la realizzazione dei due grandi totalitarismi, quello nazista e quello staliniano (staliniano e non sovietico: il nazismo è condannato in blocco ma non così il comunismo, di cui lo stalinismo sarebbe solo la degenerazione; dal che  si vedono subito i limiti ideologici e intellettuali dell’opera).

E già questa impostazione è discutibile: vorrebbe essere oggettiva e imparziale, ma risente del punto di vista ebraico e progressista dell’autrice, che vede il nazismo come l’esito fatale sia dell’antisemitismo europeo, sia dell’imperialismo, insomma una malattia tipica dell’Europa centro-orientale, di cui pangermanismo e panslavismo sono state le tipiche espressioni negli ultimi decenni dell’Ottocento.

È una prospettiva che dà per scontato proprio ciò che si vorrebbe dimostrare, ossia la connessione, logica e storica, fra l’antisemitismo anteriore al XX secolo e la politica hitleriana; che non mette nel giusto ordine di causa ed effetto la posizione reciproca del nazismo e dello stalinismo (cosa che ha poi fatto, incontrando infinite resistenze e incomprensioni, a dispetto della sua evidenza anche cronologica, Ernst Nolte); e, soprattutto, che “assolve” da ogni minima ombra di totalitarismo le democrazie liberali, dando per scontato, anche qui, che il tratto distintivo del totalitarismo sia la coercizione violenta, mentre oggi vediamo con tutta evidenza (ma già all’epoca un buon osservatore se ne sarebbe potuto accorgere) che una democrazia può essere altrettanto totalitaria di una dittatura, anche senza ricorrere alla repressione fisica delle opposizioni, semplicemente manipolando nella maniera più indolore e sofisticata l’opinione pubblica e ottenendo un consenso di massa che conferisce al governo carta bianca praticamente illimitata.

Per la Arendt, non solo la violenza, ma l’uso sistematico del terrore è lo strumento necessario e indispensabile del moderno totalitarismo: non aveva capito nulla; non aveva capito che non il terrore, ma semmai la minacci del terrore è necessaria, e non da parte del potere, ma presentandola come l’arma del “nemico”, magari delle dittature nemiche della democrazia: tanto è vero che il terrorismo, se non ci fosse, il moderno imperialismo americano dovrebbe inventarselo, e di fatto se lo è inventato più volte, non solo in termini di terrorismo “classico”, ma anche nelle forme inedite e un po’ naif delle lettere all’antrace (qualcuno se ne ricorda ancora?, era l’ormai lontanissimo 2001, ma la sconvolgente velocità dell’oblio è proprio uno degli aspetti di questa manipolazione mentale, di questo rimbecillimento collettivo raggiunto in maniera estremamente soft).

Una devota biografa di Hanna Arendt, già sua allieva alla New School for Social Research di New York, Elisabeth Young-Bruhel, così riassume l’impostazione generale dell’opera (E. Young-Bruhel, «Hanna Arendt, 1906-1975 - Per amore del mondo»; titolo originale: «Hanna Arendt: For Love of the World», Yale University Press, New Haven-London, 1982; traduzione italiana di Davide Mezzacapa, Torino, Bollati Boringhieri, pp. 258-59):

 

«Quando Hannah Arendt riversò nelle sue “Origini del totalitarismo” il suo impegno per una filosofia non egotistica dell’esistenza, quel che ne uscì era una descrizione di intellettuali come Martin Heidegger, ma meno ironica e più impersonale, poiché essi erano visti come pare di un vasto processo storico. Questi e altri segmenti storici nell’opera panoramica della Arendt erano tenuti uniti da un’immagine centrale, che viene colta bene dal termine “superfluo”. Nelle parti del libro dedicate all’antisemitismo e all’imperialismo la Arendt traccia un modello in cui, una dopo l’altra, le classi sociali crollano su se stesse, e trasformano le loro relazioni con la emergente borghesia e con i governi delle nazioni-Stato del secolo XIX. Nel tentativo di conservare il predominio sociale, l‘aristocrazia si opponeva a quei governi che concedevano l’eguaglianza giuridica ai loro inferiori; mentre la piccola borghesia si risentiva per la perdita delle sue magre fortune nella disastrosa partecipazione, favorita dallo Stato, alle speculazioni internazionali degli anni sessanta e settanta dell’Ottocento. Il risentimento di queste classi contro lo Stato si estendeva anche  a quel gruppo che secondo loro aveva il controllo segreto del potere statale: gli ebrei, collettivamente visti come “la cospirazione internazionale delle banche ebraiche”. Al volgere del secolo a questo risentimento si associa il razzismo, ed è un’ironia, giacché proprio allora gli ebrei avevano perduto gran parte del loro potere finanziario. Il razzismo dei colonialisti europei rimbalzò sull’Europa.  Le classi sociali tradizionali andavano sempre più perdendo i loro specifici interessi di classe attraverso il coinvolgimento nelle speculazioni capitalistiche  della borghesia - l’espansione fine a se stessa, il profitto per il profitto, il potere per il potere -, e finirono per sgretolarsi. Nacque la figura del “declassé”, che inevitabilmente entrò in contatto col residuo superfluo di tutte le classi: la massa di coloro che Marx aveva chiamato “Lumpenproletariat”, già caduta nel fango col trionfo della borghesia. Dall’incontro con le élite intellettuali declassate, aristocratiche e borghesi con il sottoproletariato risultò la scoperta di ciò che essi avevano in comune: un odio feroce per l’ipocrisia e l’arroganza borghese. Il legane che unisce la plebe al’élite è descritto da Hanna Arendt in una delle pagine più potenti del libro:

“Amaramente delusi e poco familiari» con le decisive esperienze della nostra epoca, gli alfieri dell’umanesimo e del liberalismo non si rendevano conto di solito che atmosfera in cui erano scomparsi i concetti e i valori tradizionali (…) rendeva più facile accettare le affermazioni palesemente assurde che le vecchie verità, ormai ridotte al rango di pie banalità, proprio perché quelle a differenza di queste non dovevano esser prese sul serio. La volgarità, col suo cinico ripudio di ogni principio universalmente accettato, implicava una franca ammissione del peggio e un disprezzo di qualsiasi pretesa che erano facilmente scambiati per un segno di coraggio e un nuovo stile di vita (…). Chi tradizionalmente odiava la borghesia, e aveva volontariamente abbandonato la società rispettabile vedeva soltanto [negli assurdi atteggiamenti della plebe] la mancanza di ipocrisia e di rispettabilità, non il contenuto vero e proprio”.

In questo brano è da leggere la presa di posizione di Hannah Arendt sulle tentazioni offerte a tutti i politicamente ingenui come Heidegger da idee assurde quali quelle della semplicità preindustriale, della tenacia teutonica e della purezza tribale.»

 

Ci sarebbero molte cose da dire a proposito di questa impostazione della genesi del totalitarismo. Ci limiteremo a mettere in evidenza le obiezioni principali:

1) Qualunque discorso in proposito è destituito di fondamenta logiche, se non è preceduto da una definizione del fenomeno in questione; se non si spiega cosa è il totalitarismo o, quanto meno, che cosa s’intende per totalitarismo. La Arendt parla del nazismo e dello stalinismo: ma questi sono esempi, non rappresentano una definizione. Il caso particolare è l’effetto, l‘effetto che va spiegato individuandone le cause. E non c’è alcuna evidenza che il nazismo o lo stalinismo derivino, anche solo indirettamente, dall’antisemitismo o dall’imperialismo.

2) Le classi sociali non si disintegrano, si trasformano; e non divengono “superflue”, acquistano un nuovo significato (magari di segno negativo). È vero che la mancata integrazione delle masse nella vita dello Stato rappresenta la condizione sufficiente per la nascita del totalitarismo, non però la condizione necessaria. E quanto alla disgregazione della plebe nelle “masse”, va osservato che queste ultime non sono formate solo da ciò che prima si chiamava “plebe”, ma da tutte le classi sociali, anzi, rappresentano il superamento del concetto tradizionale di classe, perché le masse non sono soggetti sociali, ma sociologici, nel senso che non possiedono una struttura e una identità sociale, ma solo un coacervo magmatico di atteggiamenti, di umori, di velleità e di frustrazioni e una quasi illimitata disponibilità al condizionamento ideologico.

3) Per la Arendt, la disgregazione sociale va di pari passo con l’ostilità contro lo Stato; resta però da spiegare come la Germania nazista e l’Unione Sovietica staliniana si siano configurate come due super-Stati, due Stati-Leviatano onnipotenti e infallibili, proprio con l‘entusiastico consenso delle masse. Delle due, l’una: o lo Stato minacciato, con diabolica astuzia, è riuscito a neutralizzare e trasformare in elementi di rafforzamento proprio quei sentimenti di disaffezione e di disprezzo che, nelle masse, rischiavano di determinarne il collasso; oppure il nazismo e lo stalinismo sono stati due casi unici e irripetibili di follia collettiva, totalmente irrazionali e, quindi, storicamente inspiegabili.

4) Per la Arendt, il totalitarismo nasce dagli “imperialismi continentali” (pangermanismo e panslavismo) e dai “nazionalismi tribali”. Non le viene in mente, non la sfiora nemmeno l’idea che il più sviluppato imperialismo mondiale, fra il 1884 e il 1914, sia stato quello britannico, privo di radici e di ambizioni continentali, privo di retorica sul sangue e suolo, privo di connotati “tribali” e ”razzisti” (almeno in Europa). Né le viene in mente, a lei che vive negli Stati Uniti mentre lavora al suo libro, che gli Stati Uniti abbiano ereditato quel modello imperialistico dall’antica madrepatria; e che gli Ebrei americani, lungi dall’aver perso «gran parte del loro potere finanziario», si erano enormemente rafforzati sul piano della finanza e sarebbero stati in grado non solo di favorire la fondazione di uno Stato sulla carne viva di un altro popolo (quello palestinese), ma di inaugurare un nuovo tipo di imperialismo “difensivo” e  quindi “legittimo”: quello mirante alla destabilizzazione sistematica del mondo islamico e alla conflittualità permanente di esso con l’Occidente, in funzione degli obiettivi propri del sionismo (come nel caso odierno della ventilata guerra contro l’Iran, per prevenire la costruzione dell’atomica da parte di quel Paese).

5) Lei, che giustamente si indigna per la persecuzione antisemita dell’hitlerismo, non spende una parola sui genocidi perpetrati dalle democrazie liberali ai quattro angoli del globo: quello dei Pellerossa da parte degli Statunitensi, quello degli aborigeni australiani da parte dei Britannici, quello degli Indios amazzonici o pampeani da parte dei governi brasiliano e argentino. I “cattivi” sono Tedeschi e Sovietici, mai gli Anglosassoni. Non pensa che un imperialismo sazio dopo il pantagruelico banchetto, come quello britannico fino al 1939 (con un quarto delle terre emerse sottoposte al suo dominio e sfruttate per il suo vantaggio) può permettersi, una volta raggiunti i propri obiettivi, di essere “per la pace”; mentre gli imperialismi “giovani” delle nazioni arrivate in ritardo sulla scena della rapina mondiale (Germania, Italia e Giappone) possono fare la figura dei perturbatori dell’ordine internazionale, senza avere responsabilità maggiori.

6) La Arendt interpreta come “egotistico” e “megalomane” tutto ciò che, nella filosofia di Heidegger, l’aveva affascinata ai tempi del loro amore; e va bene, a ciascuno è lecito cambiare opinione. Ma se l’uomo, per Heidegger, è soltanto un conglomerato di modi dell’essere, senza calore, senza umanità, senza compassione, davvero questi ideali si trovano in Kant e nella Rivoluzione francese, che ella considera i momenti più alti di consapevolezza civile e spirituale dell’Europa moderna? E davvero può negare il filo rosso che lega la “massificazione” delle plebi durante la Rivoluzione francese, con tutta la loro propensione all’indottrinamento ideologico e la loro carica di cieca violenza, e similari comportamenti da parte delle masse naziste e staliniane? Davvero il nazismo, in particolare, è figlio solo del Romanticismo e non anche dell’Illuminismo, del suo astratto e velleitario populismo; davvero il mito del “buon selvaggio” di Rousseau non ha niente a che fare con il mito dell’ariano “puro” , tenace e laborioso, legato alla propria terra?

7) La Arendt tende a una filosofia non egotistica, a una filosofia aperta alla comprensione vera dei problemi umani; eppure non vede che il suo modo di giudicare tanto la classe intellettuale, quanto le masse amorfe del XX secolo, trasuda sufficienza e disprezzo. Nella sua analisi non c’è alcuno sforzo di comprendere il dramma della borghesia declassata e rovinata dai meccanismi economici della modernità; alcuno sforzo di comprendere la paura del terrore bolscevico da parte della Germania sconfitta e umiliata dalla pace di Versailles; nessun tentativo di giudicare equamente quel malessere e il fatto che le classi dirigenti non abbiano saputo o voluto rispondervi positivamente, ma solo strumentalizzandolo (come in Germania e in Unione Sovietica) o mascherando il tenace perseguimento dei loro egoistici interessi e convogliando le frustrazioni sociali contro il nemico esterno (come nel caso delle democrazie liberali contro il Tripartito).

Sorge, infine, la domanda: ma la Arendt ha mai letto Tucidide, ha mai riflettuto sulla «Guerra del Peloponneso»? Ha mai pensato che Atene, la splendida, democratica Atene di Pericle, è stata la superpotenza imperiale dell’antiva Grecia e che il suo imperialismo, marittimo e non continentale, è stato certo più raffinato (fino a un certo punto: si pensi alla strage degli abitanti dell’isola di Melo), ma non meno totalitario, appunto, di quello spartano, così ingenuamente ed esplicitamente basato sui miti aristocratici della forza, del coraggio e dell’onore? Si dirà (storia ateniese a parte): ma la Arendt, ai suoi tempi, non poteva immaginare o prevedere gli sviluppi e gli esiti del totalitarismo mediatico e, quindi, la versione “liberale” e “democratica” del totalitarismo stesso.

Ora, a parte il fatto che uno scrittore come George Orwell, che non era né storico né filosofo, lo aveva compreso perfettamente e già da qualche anno («1984», come è noto, è del 1948 e precede, dunque, il libro della Arendt), le “conversazioni al caminetto” del presidente Roosevelt non le avevano suggerito niente, quanto all’efficacia della propaganda radiofonica sulle masse (e dalla fine degli anni quaranta si stava ormai diffondendo anche la televisione)? Più in generale: davvero le “masse” anglosassoni le sembravano immuni dal totalitarismo, quasi si fosse trattato di una malattia esclusiva, fatale ed ereditaria, una sorta di morbo congenito  della sola Europa continentale?

 

Ma soprattutto: se i totalitarismi del XX secolo (o almeno quelli individuati dalla Arendt) sono stati una protesta - delirante - contro la modernità, davvero quella protesta era solo il frutto di un delirio, di una paranoia? Davvero non nasceva da preoccupazioni reali e, dunque, legittime? Davvero, per esempio, la concentrazione del capitale finanziario e le sue manovre sempre più ciniche spregiudicate (specialmente a partire dalla grande crisi del 1929) non rappresentava una minaccia gravissima alla vita delle società e alla pace internazionale?

Non aver saputo, non diciamo rispondere, ma nemmeno formulare questi interrogativi, in un’opera che pretende di spiegare la genesi del totalitarismo, ci sembra  un po’ troppo, perché se ne possa parlare come di un capolavoro del pensiero.

Forse, anche questo è uno dei tanti miti da rivedere, uno dei tanti feticci da far scendere giù dal piedistallo…