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Solo riconciliandoci con il passato ritroveremo la serenità del presente

di Francesco Lamendola - 15/11/2012


macicchini eva La facciata buona del comunismo

 

 

C’è una ferita, nel cuore della coscienza nazionale degli Italiani, che continua a sanguinare e che non si rimargina mai, perché è stata troppo a lungo ignorata, negata o perfino insultata: quella dei morti della nostra guerra civile, dei morti d’entrambe le parti; dei torturati, degli impiccati, dei fucilati, degli infoibati.

Finché non avremo il coraggio di guardare in faccia quel nostro passato recente, ogni sforzo di normalità è destinato a rimanere vano; un popolo sano non può costruire il proprio presente sulla base di menzogne, reticenze e mezze verità. Non può costruirlo nemmeno sulla base dell’odio, dello spirito di vendetta, della crudeltà impunita, perché non riconosciuta come tale o perché giustificata in base a inumani dogmi ideologici.

Questo bisogna avere il coraggio di riconoscere: che nel 1943-45 vi fu una tremenda, spietata guerra civile, come sono crudeli e spietate tutte le guerre e specialmente le guerre civili; che Italiani presero le armi contro altri Italiani, in parte per nobili ideali, nell’uno e dall’altro campo, e in parte per cieca violenza, per inconfessabili animosità personali, talvolta per puro e semplice banditismo, anche se quasi sempre mascherato con solenni parole e grandi ideali, quali giustizia, libertà, amor di patria; che alle violenze della guerra si aggiunsero le rappresaglie e le carneficine a guerra finita, per mesi, per anni, almeno fino alle elezioni politiche del 1948; che i torturatori e i carnefici godettero troppo spesso dell’impunità; che tutto questo è stato rimosso e negato, per decenni, da una vulgata storiografica faziosa e bugiarda, da un ricatto ideologico e morale in base al quale chiedere ragione del crimine delle foibe, per esempio, veniva immediatamente guardato con sospetto e ostilità, come fosse stato parte di un disegno volto a infangare la nobiltà e la purezza della guerra di Liberazione, come allora si diceva, con la “l” maiuscola.

Per decenni ci è stato raccontato, fin da studenti sui banchi di scuola, che nel 1943-45 vi fu soltanto una guerra di liberazione contro lo straniero; che c’erano, sì, anche altri eserciti stranieri che occupavano l’Italia, la bombardavano, la straziavano: ma, quelli, a fin di bene, dunque con una enorme differenza morale rispetto ai “cattivi”, quegli altri stranieri, che erano però, guarda caso, gli alleati del giorno prima; in tutti i casi, che non si era combattuto fra Italiani, o, se pure ciò era avvenuto, si era trattato di casi piuttosto rari e isolati e, ad ogni buon conto, di casi eticamente più che giustificati, perché coloro i quali militavano a fianco dello straniero invasore non meritavano più, propriamente parlando, la qualifica di “Italiani”, ma soltanto quella di scherani e manutengoli del nemico, di spregevoli traditori della Patria.

Ci è stato anche raccontato che, nell’aprile del 1945, quel capitolo di storia si è concluso in un tripudio di bandiere rosse e di bandiere tricolori, tutte ugualmente meritorie, tutte ugualmente impegnate nell’ultimo sforzo per ridare indipendenza e dignità al Paese; che vi era stata quasi una festa generale, la festa della libertà, in cui il Tedesco invasore era stato scacciato e pochi franchi tiratori fascisti avevano pagato il fio dei loro crimini; che la grande massa del popolo, entusiasta e quasi ebbra per la riconquistata libertà, aveva partecipato a tale festa con piena adesione alla parte “giusta” e riservando tutto il suo disprezzo a quell’altra, la parte dei malvagi, che era anche, guarda caso, la parte sconfitta.

Poco si diceva del ruolo svolto dagli eserciti angloamericani: essi erano stati, sì, i “liberatori”; tuttavia, al momento della insurrezione finale, gli Italiani si erano liberati da soli e avevano riscattato, con il loro eroismo, vent’anni di asservimento ad una dittatura stupida e corrotta, tanto feroce a parole quanto si era dimostrata imbelle e velleitaria nei fatti. Certo, era una felice coincidenza che gli Alleati fossero entrati nelle città del Nord quasi contemporaneamente ai partigiani; ma questi ultimi avevano vinto la generosa gara di velocità ed erano arrivati primi, com’era giusto, per far vedere a tutto il mondo che gli Italiani sanno liberarsi da soli e ringraziano per l’aiuto ricevuto, ma non ne sopravvalutano i meriti.

Violenze ce n’erano state poche, quelle inevitabili: sì, Mussolini era stato fucilato senza alcun processo e l’oltraggio al suo cadavere e a quelli dei suoi ultimi fedelissimi non era stato una bella cosa; ma che volete fare, son cose inevitabili quando un popolo ha dovuto sopportare tanto, ha dovuto partire in silenzio sotto il tallone di ferro di una dittatura; e chi voleva ricordarsi che quella dittatura aveva goduto di un consenso quale mai aveva avuto alcun governo liberale dall’Unità in poi, compreso quello della vittoria nel 1918?

Un quadro assai rassicurante, dunque: il popolo italiano era già maturo per la democrazia, era maturato appunto durante le sofferenze della guerra e aveva compreso il valore della libertà proprio quando gemeva sotto il giogo di Mussolini; dunque, a partire dal 1945, era pronto e maturo per essere accolto, a pieno titolo, nel concerto delle nazioni democratiche e per occupare il posto che gli spettava nel mondo civile, sia pure pagando lo scotto di un trattato di pace che ne mutilava il territorio e costringeva all’esodo le popolazioni giuliane, ne spogliava l’impero coloniale, ne smembrava la marina, ne umiliava la fierezza e la dignità, fra l’altro imponendo l’impunità per coloro i quali avevano sabotato lo sforzo bellico e agito contro la patria in guerra fin dal 10 giugno del 1940. Ma insomma, che farci, c’erano dei conti in sospeso da pagare alla comunità internazionale; era il debito che andava saldato per poter ritrovare stima e simpatia nel cosiddetto “mondo libero”.

Eppure, i mitra non erano tornati in soffitta, le bombe non erano state riconsegnate nei depositi militari. Per tutto il 1945, il 1946 e il 1947 si continuò a terrorizzare, a infierire, a uccidere; centinaia di persone caddero sotto il fuoco di terroristi che si autodefinivano partigiani della libertà, di fanatici assassini che sognavano l’imminente rivoluzione proletaria e intanto spadroneggiavano e decidevano della vita e della morte di operai, contadini, professionisti, imprenditori, preti, maestre elementari, di tutte le persone che, per un motivo o per l’altro, a torto o a ragione, erano finite sulla loro lista nera, vuoi come ex fascisti, vuoi come simpatizzanti dell’estrema destra che, purtroppo, come una mala pianta, non era stata interamente sradicata alla fine della guerra.

C’è una immagine, fra le tante, fra le troppe, che non se ne vuole andare dal ricordo di quanti l’hanno vista: la fotografia di una giovane donna massacrata e gettata in un prato fangoso, nel cuore del’inverno: le braccia e le gambe divaricate, sembra in croce, povero fagotto straziato e scaricato come un sacco d’immondizia. È una certa Eva Macciacchini, uccisa dalla Volante Rossa e ritrovata a Milano Lambrate il 17 gennaio 1947. Il suo crimine: essere stata vicina alle S.A.M, aver manifestato simpatie per la destra neofascista. Nell’Italia di allora si poteva morire anche così: a due anni dal termine ufficiale della seconda guerra mondiale.

Nell’aprile e nel maggio del 1945 erano state uccise decine e decine di ausiliarie, di crocerossine, di volontarie della Repubblica Sociale; centinaia e migliaia di allievi ufficiali, di privati cittadini, perfino di partigiani non comunisti e sospettati di essere ostili all’instaurazione di un regime comunista, oppure - nelle regioni nord-orientali -, di volersi opporre all’annessione forzata di quelle zone alla Jugoslavia del maresciallo Tito.

Centinaia di persone erano state prelevate nelle loro case, a Gorizia e a Trieste, durante il periodo di occupazione jugoslava di quelle due città, e molte di esse non avevano mai più fatto ritorno; ma invano si cercherebbe, nei numerosi libri di ricordi dei protagonisti della lotta partigiana, qualche ammissione, qualche parola di verità su quelle vicende, sulla tragedia delle foibe. No, vi si parla solo di “fratellanza d’armi” fra partigiani italiani e jugoslavi, come nelle memorie del partigiano Giovanni Padoan: «Abbiamo combattuto insieme», come dire: andavano perfettamente d’accordo, il vero ed unico nemico erano i nazifascisti. E silenzio su tutto il resto, silenzio sull’eccidio della malga di Porzûs, silenzio sui massacri e sulle deportazioni del IX Korpus sloveno.

Bisognerà aspettare i libri di Marco Pirina e di Antonio Serena per alzare il velo, per contare quei morti dimenticati, per ricostruire quelle tragedie oscurate, per ridare un nome e un volto a quelle persone scomparse; libri che, sul principio, sono stati accolti con malumore, con fastidio, con aperta ostilità, perché venivano a guastare le uova nel paniere della Vulgata democratico-resistenziale, perché offuscavano la bella immagine di una guerra giusta e pura, con tutte le luci da una sola parte e tutte le ombre dell’altra, dove il bene aveva trionfato insieme alla verità e alla giustizia e il male aveva ricevuto il meritatissimo castigo.

Ora, quel che vorremmo non è di rovesciare il paradigma, non è di ribaltare il quadretto e di sostenere una verità opposta e speculare a quella fino ad ora raccontata dalla cultura ufficiale dell’Italia repubblicana. Sì, è vero: i Tedeschi commisero delle atrocità; sì, è vero, anche molti fascisti ne commisero. Anche gli Anglo-americani ne commisero, e  molto più massicce (ma meno evidenti: perché un bombardamento aereo è più tecnologico e, dunque assai più “pulito” di un rastrellamento casa per casa o di una fucilazione in massa di civili, anche se fa cento o mille vittime in più di quelli); e ne commisero anche molti gruppi partigiani.

Le atrocità ci furono da entrambe le parti; le violenze, le ruberie, le ingiustizie, i ricatti, le torture, vi furono da entrambe le parti; la degradazione dell’uomo, gli stupri, il sadismo si scatenarono da una parte e dall’altra. Non si tratta, però, di questo; e nemmeno di equiparare il significato morale e politico di quelle morti e di quegli orrori. Moralmente e politicamente ciascuno è libero di dare il suo giudizio, sempre tenendo presente il quadro reale creatosi in Italia con l’8 settembre del 1943: quello di un Paese sconfitto e invaso da due opposto eserciti, e di un popolo lasciato allo sbando, senza ordini, senza direttive, da una classe dirigente fuggiasca e senza onore, che nel momento del pericolo pensò unicamente alla propria salvezza.

In quel delirio, in quella confusione, in quello sfaldamento delle strutture statali, molti agirono come agirono per un senso della patria e del dovere che poteva essere interpretato in maniere diverse e perfino opposte; e tutti coloro che agirono per motivi ideali meritano onore e rispetto, non solo perché accettarono di pagare il prezzo delle loro scelte, ma perché la loro buona fede era al di sopra di ogni meschino interesse. Altri non furono così nobili e disinteressati, e furono molti. Quanto alla maggioranza del popolo, non è vero che si schierò istintivamente con i partigiani: vedeva gli uni e gli altri come un male inevitabile, ma transitorio: pregava e sperava perché la guerra finisse quanto prima e perché se ne andassero via tutti, i rossi e i neri, gli amici e i nemici, gli occupanti e i liberatori.

Sarebbe ora che gli Italiani guardassero onestamente a quel loro passato e che si riconciliassero con i loro morti, con i morti di entrambe le parti: perché, come scriveva Cesare Pavese in una pagina memorabile, il sangue del fratello ucciso chiede ragione, chiede conto di non essere loro, i vivi, al posto dei caduti; chiede di essere placato da un risveglio della coscienza, da un soprassalto della profonda umanità di quanti sono sopravvissuti.

Dovremmo smetterla di vedere il 25 aprile come il giorno in  cui si ricorda la vittoria di una parte sull’altra, e viverlo piuttosto come il giorno in cui ci si chiede perdono a vicenda; come il giorno in cui gli Italiani si domandano perdono l’un l’altro per il sangue versato dei propri fratelli, per la mano levata contro i propri compatrioti.

Il giudizio storico, ripetiamo, è un’altra cosa: è affare della coscienza individuale; la cultura ufficiale, lo Stato, non dovrebbero mai abbracciare una verità storica che sia scritta una volta per tutte in caratteri indelebili, perché nulla, nella storia degli uomini, è oggetto di verità definitiva, tutto è soggetto a continuo e doveroso ripensamento. È tanto difficile ammettere che la storia la scrivono, sempre e comunque, i vincitori; e che non ci si può fidare ciecamente delle loro “verità”, fintanto che scaturiscono da una semplificazione e da una forzatura dei fatti, mirante a porre ogni merito da una parte della barricata, e ogni colpa e ignominia, dall’altra?

Riconciliazione, dunque; perdono reciproco: ma sulla base del franco riconoscimento che tutti hanno delle colpe da farsi perdonare e nessuno ha solo dei crediti morali da riscuotere.

Senza di questo, non saremo mai un popolo “normale”; e ogni discorso sulla libertà e sulla democrazia non sarà che una trista menzogna, tanto più deplorevole in quanto cosciente d’esser tale.