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Cina, la metamorfosi del dragone

di Michele Paris - 15/11/2012

 
    


Il 18esimo congresso del Partito Comunista Cinese (PCC) si è chiuso con il passaggio di consegne tra il segretario generale uscente, Hu Jintao, e il nuovo leader designato, Xi Jinping. Quest’ultimo, già da tempo sicuro della successione, il prossimo mese di marzo prenderà il posto di Hu anche alla presidenza della Repubblica Popolare Cinese, mentre resta da verificare la data del suo insediamento alla guida della Commissione Militare Centrale. Per completare formalmente quello che è stato definito il secondo trasferimento di poteri senza scosse dalla rivoluzione del 1949, giovedì verranno nominati i componenti del Comitato Permanente del Politburo del Partito, l’organo che di fatto governa il paese, dove, oltre a Xi, troverà posto anche il nuovo primo ministro, Li Keqiang.

Il consesso del PCC a Pechino ha radunato circa 2.300 delegati provenienti da ogni parte del paese per approvare decisioni già prese dietro le quinte da una ristretta cerchia di influenti membri del partito. L’apparenza di unità che ha caratterizzato il congresso ha nascosto a malapena le profonde divisioni e le rivalità che attraversano le diverse fazioni dell’élite comunista in una fase di grandi cambiamenti economici e sociali e di tensioni internazionali che minacciano la stabilità della seconda potenza economica del pianeta.

Le difficoltà nel mandare in porto una transizione ordinata, sottolineata dall’insolito ritardo con cui è stato convocato il congresso, sono dovute anche all’esplosione di svariati scandali negli ultimi mesi che hanno coinvolto importanti personalità politiche, le cui disavventure hanno messo in luce la corruzione ampiamente diffusa ai vertici del partito e le enormi ricchezze accumulate dalle personalità che detengono il potere in Cina e dai loro familiari.

In particolare, la vigilia del congresso è stata segnata dalla purga dell’ex astro nascente del PCC, Bo Xilai, già potente leader della sezione del partito di Chongqing e caduto in disgrazia in seguito al suo coinvolgimento nell’omicidio di un discusso uomo d’affari britannico, per cui è già stata condannata all’ergastolo la moglie. Bo Xilai era considerato uno dei principali esponenti della corrente neo-maoista, la quale con la sua caduta ha visto restringersi drasticamente la propria influenza all’interno del partito nel pieno dello scontro per la scelta della nuova leadership.

Anche altre fazioni del partito non sono state però risparmiate dagli scandali, come quella di cui fa parte il presidente Hu Jintao. Uno stretto alleato di quest’ultimo è stato infatti anch’egli espulso dal partito recentemente,  dopo la morte del figlio in un incidente stradale mentre era alla guida di una Ferrari che ufficialmente non avrebbe potuto permettersi. Allo stesso modo, il neo-segretario del PCC, Xi Jinping, e il primo ministro uscente, Wen Jiabao, sono stati al centro di indagini giornalistiche - rispettivamente di Bloomberg News e New York Times - che hanno rivelato gli interessi economici multimilionari che fanno capo alle loro famiglie grazie appunto ai legami che possono vantare ai vertici dello stato.

La transizione decennale in corso ha segnato anche l’arrivo al potere per la prima volta di una classe dirigente in gran parte composta dai cosiddetti “princelings” (principini), come Xi Jinping, cioè una sorta di nuova aristocrazia composta dai discendenti di esponenti di spicco del partito e che traggono la loro legittimità dai rispettivi legami familiari, a differenza dei precedenti leader - come Jiang Zemin e Hu Jintao, entrambi designati da Deng Xiaoping come suoi successori - che si erano fatti strada invece tra le varie organizzazioni del partito, a cominciare dalla Lega della Gioventù Comunista.

In ogni caso, le questioni principali che hanno tenuto banco durante il congresso erano state annunciate nella giornata inaugurale dal discorso tenuto da Hu Jintao di fronte ai delegati. Al centro dell’attenzione del presidente c’era il tentativo, simboleggiato dal suo ingresso nella Grande Sala del Popolo assieme al rivale ex-presidente Jiang Zemin, di conciliare le diverse visioni che convivono all’interno del partito. Nel concreto, gli obiettivi posti per il prossimo futuro sono, tra gli altri, l’assegnazione al settore privato di un ruolo ancora più importante nell’economia e la continuità di una politica estera che eviti un conflitto con gli Stati Uniti nonostante le crescenti rivalità tra i due paesi.

I problemi che affliggono la realtà cinese in questo passaggio di consegne tra Hu e Xi, e che hanno spinto la classe dirigente ad adottare il programma presentato durante il congresso, sono soprattutto il rallentamento di una crescita economica che nell’ultimo decennio ha fatto segnare un ritmo impetuoso, le conseguenti tensioni che attraversano la vastissima classe lavoratrice, il divario crescente tra ricchi e poveri e gli scontri con i paesi vicini (Filippine, Giappone, Vietnam) a causa di alcune dispute territoriali riemerse in seguito alla svolta asiatica degli Stati Uniti durante i primi quattro anni dell’amministrazione Obama.

L’affanno dell’economia cinese è in buona parte dovuto al rallentamento delle esportazioni, soprattutto verso l’UE, gli USA e il Giappone, che hanno finora alimentato la locomotiva di Pechino grazie alla vasta disponibilità di manodopera a basso costo. Uno degli obiettivi del regime, come affermato da Hu settimana scorsa, sarebbe perciò l’impulso da dare al sistema per passare ad un’economia basata in primo luogo sui consumi interni. Da qui la promessa di raddoppiare il reddito pro-capite entro il 2020.

Per raggiungere questo obiettivo, la dirigenza cinese intende intraprendere una serie di “riforme” che, lasciando intatto il monopolio del PCC, ristrutturino l’economia ancor più in senso liberista, sulla linea di quanto richiesto dagli ambienti economici e finanziari internazionali tramite il rapporto intitolato “Cina 2030” pubblicato dalla Banca Mondiale lo scorso mese di febbraio. A questo scopo, Hu Jintao ha spiegato che sarà necessario fare in modo che “il settore privato possa competere in maniera equa con quello statale”, così come ha prospettato la prossima svendita della maggior parte delle circa 100 mila aziende ancora pubbliche. A trarne beneficio saranno in gran parte imprenditori privati, grandi aziende straniere e membri del partito pronti ad approfittare della svolta per arricchirsi enormemente.

Le caratteristiche di un modello che negli ultimi tre decenni ha riportato il capitalismo in Cina, fondato sulla compressione delle retribuzioni di una manodopera più che abbondante, sembra però scontrarsi inesorabilmente con la prospettiva avanzata da Hu Jintao e che con ogni probabilità occuperà l’agenda dei nuovi leader di Pechino nel prossimo futuro. Per questo, è estremamente probabile che le “riforme” che si profilano per trasformare l’economia cinese non comporteranno alcun miglioramento significativo delle condizioni di vita di centinaia di milioni di lavoratori, bensì faranno aumentare ulteriormente le disuguaglianze nel paese, beneficiando soltanto coloro che sono diventati milionari in questi anni e, tutt’al più, l’emergente borghesia urbana.

Questo percorso “riformista” non è tuttavia condiviso in pieno da tutte le fazioni del partito, alcune delle quali intendono mantenere intatti i privilegi garantiti alle grandi aziende di proprietà dello stato. Per rassicurare queste sezioni dell’élite comunista, Hu ha perciò annunciato che le compagnie pubbliche operanti in settori strategici, come la difesa e l’energia, continueranno a rimanere tali.

La maggior parte di esse, però, finirà in mano privata, come conferma anche la campagna da qualche tempo avviata sugli organi di stampa ufficiali contro le aziende statali, accusate sempre più frequentemente di generare corruzione e di essere la causa del divario colossale tra ricchi e poveri.

Anche se le aziende pubbliche, ben lontane dall’essere sotto il controllo democratico della popolazione, servono ad arricchire una ristretta oligarchia con legami ai vertici del partito e a garantire il controllo statale di settori nevralgici, esse non sono la principale causa dei mali della società cinese, a cominciare dalle enormi disuguaglianze economiche e sociali. Piuttosto, ciò è dovuto più in generale alla restaurazione del capitalismo perseguita in questi decenni da Deng e dai suoi successori.

Una strada, quest’ultima, che il 18esimo congresso del PCC, pur tra incertezze e divisioni interne, sembra avere nuovamente indicato ai nuovi leader e che, però, invece di risolvere le contraddizioni del peculiare sistema cinese, rischia di aggravarle sensibilmente, facendo aumentare ancor più le tensioni sociali tra una sterminata popolazione la cui crescente insofferenza terrorizza indistintamente tutta la classe dirigente di un partito che, a dir poco impropriamente, a 91 anni dalla sua nascita continua a definirsi comunista.