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Morte e resurrezione del maschio

di Claudio Risé - 21/11/2012


E’ davvero la fine del maschio? Probabilmente no, ma ci sono segni di cambiamento importanti. Per esempio nelle cliniche in giro per il mondo che applicano metodi per selezionare tra spermatozoi “maschili” e “femminili”, i genitori chiedono ormai in prevalenza femmine (negli USA nel 75% dei casi).
Sempre negli USA i tre quarti dei posti persi dall’inizio della crisi erano di uomini, e riguardavano settori “pesanti”, maschili. E le donne sono in testa ai diplomi universitari meglio pagati.
Inutile dire che le femmine, all’università (ma anche molto prima) hanno voti migliori dei maschi. In molte professioni, dalla ricerca alla finanza, le donne si fanno strada con più forza, e nei Paesi più industrializzati ormai il livello di occupazione è uguale per maschi e femmine.
Certo, il cambiamento è più impressionante negli Stati Uniti dove l’immagine del pioniere-cowboy, che letteralmente “apriva la strada” alla famiglia, appartiene all’inconscio collettivo. Però il fenomeno è visibile dovunque, anche nei paesi del centro-nord Europa o di nuova industrializzazione, come la Corea.
Le donne lavorano, si occupano della casa, continuano la loro formazione universitaria e professionale. Gli uomini, spesso, prendono gli assegni dello Stato e seguono i bambini.
Aumentano i matrimoni “elastici” dove in certi periodi è lei che sta più in azienda e lui in casa coi bambini, e in altri le parti si rovesciano. Come Pensieri e passioni ha segnalato, alcuni paesi, come l’Inghilterra, aiutano queste trasformazioni con apposite leggi, ispirate a grande flessibilità.
In questa fase i maschi fanno più fatica a trovare il proprio ruolo.
Il valore della forza e resistenza fisica, prima premiate nelle professioni militari, nell’agricoltura tradizionale e nell’industria pesante, è oggi discusso un po’ ovunque.
Il maschio è attentamente misurato nei test scolastici o aziendali, e valutato senza particolari sconti anche nei rapporti familiari, dove in molte situazioni (soprattutto dopo lo scoppio della crisi), quando perde il lavoro è semplicemente visto come una bocca da sfamare in più.
Su questo argomento proprio una donna, Hanna Rosin, (nata in Israele, cresciuta nel popoloso quartiere dei Queens dove suo padre era tassista, poi diplomata al College e all’Università di Standford), ha scritto un libro documentato e di successo: La fine degli uomini (The end of men).
Siamo lontani dalla retorica anti maschile, tuttavia la realtà è quella dei dati e delle notizie, assai dure per gli uomini. Che non sembrano però vivere quanto sta accadendo con troppo stupore o spavento, o almeno non sempre.
Forse perché, al di fuori dalla retorica anti patriarcale, la vita del maschio non è mai stata una passeggiata, anche quando lui stesso credeva di essere in vetta. Che voleva dire – tra l’altro – partire per la guerra (ce n’era una in ogni generazione), lavorare duramente per tutta la famiglia, morire prima della compagna.
Verso la fine del 900, con gli ultimi colpi dello sviluppo economico, questo modello maschile duro ed “eroico” aveva lasciato spazio a ciò che la femminista Faludi chiamò: la maschilità ornamentale, accessoriata. Ma era già crisi, e poco piacevole.
Ora, mentre gli uomini scoprono che stare coi bambini è emozionante, e cucinare non è male (i cuochi migliori sono spesso uomini, ovunque), si aprono ai maschi nuove carriere: infermieri, maestri, padri a pieno servizio.
Alcune (il maestro) le hanno già frequentate in passato, le altre le stanno scoprendo. Intanto le donne sperimentano la durezza dell’azienda.
Forse ci sarà un giro di posti attorno alla tavola.