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James Graham Ballard: una catastrofe che diventa, a poco a poco, «planetaria»

di Giuseppe Giaccio - 21/11/2012


 

 

L’Occidente visto come luogo della catastrofe e dell’orrore è la cifra ideologica e politica dell’opera di James Graham Ballard. Una catastrofe che diventa, a poco a poco, «planetaria» (La mostra delle atrocità, Feltrinelli), nella misura in cui l’Occidente tende ad estendersi all’intero pianeta. In questo senso, e benché sia ambientato in un contesto orientale, il suo romanzo più importante, quello che fornisce la chiave d’accesso privilegiata al suo mondo narrativo, in quanto ci fa capire che questa tematica era contenuta in nuce già nel piccolo James, è L’impero del sole (Feltrinelli), pubblicato nel 1984, quando lo scrittore britannico era ormai un autore internazionalmente affermato, e dal quale Steven Spielberg ricaverà, tre anni dopo, un film (un’altra pellicola tratta dai suoi romanzi è Crash, di David Cronenberg). Nato nel 1930 a Shanghai – città cosmopolita fortemente influenzata dallo stile di vita occidentale (americanizzata al cento per cento, osserva Ballard), dominata «da uno sfrenato capitalismo di ventura» e dall’«incessante fruscio dei soldi», come scriverà nella sua autobiografia (I miracoli della vita, Feltrinelli), e dove suo padre dirige un’industria tessile – Ballard viene internato, con i suoi genitori e una sorellina più piccola, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, nel 1943, in un campo di prigionia giapponese (Empire of the Sun racconta, appunto, in forma romanzata la sua esperienza di prigioniero). La metropoli asiatica e il periodo bellico gli faranno sperimentare qualcosa di simile a quello che gli etologi chiamano imprinting e che lo accompagnerà in tutta la sua successiva carriera di scrittore. A proposito di Shanghai, nell’autobiografia leggiamo: «Le immagini che avevo disseminato nella mie opere durante i trent’anni precedenti e che erano diventate un po’ il mio marchio di fabbrica – le piscine svuotate, gli alberghi e i nightclub abbandonati, i cavalcavia deserti e i fiumi che straripavano – adesso potevano essere fatte risalire alla Shanghai del tempo di guerra. Ho resistito a lungo a questa idea, ma adesso ammetto che essa è quasi certamente vera». Per quanto riguarda la guerra, essa ha avuto su Ballard – e non ci riferiamo solo al ragazzino, ma all’intellettuale che su questo tema ha riflettuto per tutta la vita – un impatto paragonabile a quello che la Grande Guerra ebbe su Sigmund Freud (autore le cui idee hanno profondamente agito in Ballard) e sulla cultura dell’epoca, impatto che si può cogliere in testi come Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (pubblicato nel 1915, quando la guerra era ancora in pieno svolgimento) e Il disagio nella civiltà del 1929, annus horribilis della grande depressione successiva al crollo della Borsa di New York che contribuì a spianare la strada al nazionalsocialismo: il conflitto fa venire impietosamente alla luce l’estrema fragilità delle basi di una civiltà come quella occidentale, convinta di rappresentare il punto più alto del cammino dell’uomo sulla Terra e che invece scopre inconsci e repressi legami con strati psichici arcaici e primitivi con i quali non abbiamo ancora imparato a fare i conti e che mettono seriamente a repentaglio un universo di valori e realizzazioni che appariva indistruttibile.

A dire il vero, chi legge gli articoli di memorie pubblicati da Ballard su giornali e riviste (raccolti in Fine millennio: istruzioni per l’uso, Baldini & Castoldi), nonché l’autobiografia, ha l’impressione che il periodo trascorso dai prigionieri inglesi nei campi di internamento giapponesi sia stato quasi una manna dal cielo. Grazie ad esso, osserva Ballard con il suo consueto stile caustico, gli inglesi, che in precedenza si trovavano in un perenne stato di intossicazione da Martini dry, erano «sobri per la prima volta nella loro vita, perdevano peso e cominciavano a leggere, riprendevano vecchi interessi e organizzavano filodrammatiche e conferenze serali». Nemmeno il giovane, futuro romanziere, a quanto pare, se la passava poi così male, aveva la possibilità di studiare ed era letteralmente affascinato dai soldati nipponici, nei quali scorge una vena malinconica con cui confessa di sentirsi in sintonia, benché egli fosse, per carattere, ottimista e iperattivo. Anche nel romanzo ci imbattiamo in questi elementi autobiografici, ma a prevalere sono i toni drammatici, seppure filtrati dalla sensibilità di un ragazzino non sempre capace di distinguere tra i suoi sogni e la tragica realtà che stava vivendo e che comunque avrebbe lasciato un segno indelebile nel suo animo: la fame, la sporcizia, i cadaveri, la sofferenza, il sangue, le torture, l’onnipresenza delle mosche, che come una fastidiosa cappa nera coprivano ogni cosa, i vivi e i morti, con una evidente predilezione per questi ultimi. Il sole del titolo è, ovviamente, quello che campeggia nella bandiera del Giappone – un Giappone apertosi all’Occidente a partire dall’epoca Meji e dal quale trasse subito gli elementi peggiori: industrializzazione spinta, centralizzazione e guerre di conquista – ma è anche la luce abbagliante e sinistra dei funghi atomici di Hiroshima e Nagasaki, il pezzo di sole che lo zio Sam scagliò su quelle città, provocando due immani ecatombi (che peraltro Ballard giustifica, aderendo alla tesi, discutibile ed almeno in questo caso per nulla controcorrente, di quanti sostengono che servirono ad accorciare i tempi del conflitto e quindi a ridurre il numero delle vittime). Approdato in Gran Bretagna nel dopoguerra, scopre, al liceo, Sigmund Freud e i surrealisti, due incontri che lo segneranno profondamente, introducendolo in una realtà, quella della psiche, i cui moti gli appaiono molto più significativi degli accadimenti che si verificano nella sfera sociale. Nella psicanalisi e nel surrealismo egli vede «una chiave per la verità sull’esistenza e la personalità umana, e anche una chiave per me stesso». In particolare, ad affascinarlo è la «tranquilla affermazione», che fa risalire a Freud, secondo la quale «la psicanalisi poteva rivelare tutta la verità sull’uomo moderno e sulla sua insoddisfazione», mentre ad attrarlo, nei surrealisti, è il loro rifiuto «della ragione e della razionalità, la loro fede nel potere che l’immaginazione ha di rifare il mondo» (I miracoli della vita). Terminato il liceo, si iscrive all’università di Cambridge, alla facoltà di medicina, col proposito di diventare psichiatra, ma non termina gli studi. Per mantenersi, lavora nel campo della pubblicità come copywriter e vende enciclopedie porta a porta; poi si arruola nella Raf. Nella biblioteca della base di addestramento di Moose Jaw, nel Saskatchewan, in Canada, si imbatte per la prima volta nella narrativa di fantascienza e comprende subito che è quella la strada in cui dovrà incanalare la sua incipiente vocazione di scrittore. Il genere di science fiction che lo interessa non è, però, quello tradizionale che va per la maggiore e nel quale Ballard vede solo un modo per glorificare un impero americano «che colonizzava l’universo intero e lo trasformava in un inferno allegro e ottimistico, una periferia americana lastricata di buone intenzioni e popolata da Avon ladies in tuta spaziale», ma piuttosto quello che si trova su riviste come “Galaxy” o “Fantasy & Science Fiction”, ossia un tipo di narrativa che «descriveva un mondo dominato dalla pubblicità di massa, in cui il governo democratico diventava un affare di pubbliche relazioni. Era un mondo di automobili, uffici, autostrade, linee aeree e supermercati, il mondo in cui vivevamo effettivamente, ma che era quasi completamente assente dalla narrativa seria. […] Questo regno abbastanza sinistro, questa società dei consumi che poteva decidere da un momento all’altro di fare un’altra Auschwitz o un’altra Hiroshima era il mondo che la fantascienza stava esplorando». Comincia, così, a scrivere e a pubblicare i primi racconti di science fiction, nella quale eserciterà un profondo influsso innovativo, teorizzando la necessità di produrre storie centrate sullo spazio interiore (inner-space), psichico, piuttosto che su quello esteriore (alieni, astronavi, guerre tra mondi, raggi laser). Il fascino che questo genere narrativo esercita su di lui è riconducibile alla sua relazione col catastrofico. Per Ballard, i racconti di fantascienza sono, direttamente o indirettamente, racconti di catastrofi, il che, a suo parere, apparenta questa forma letteraria, per un verso, ai miti del diluvio presenti in molte tradizioni religiose (Gilgamesh, Noè) e, per un altro verso, alle fantasie distruttive frequenti nell’inconscio dei bambini e dei folli, al quale lo scrittore di fantascienza è in qualche modo legato (uno dei suoi testi più inquietanti, Un gioco da bambini, peraltro non ascrivibile al genere fantascientifico, descrive un massacro perpetrato da una banda di ragazzini ai danni delle rispettive famiglie. All’epoca, Erika de Nardo e il suo fidanzatino Omar avevano, rispettivamente, quattro e cinque anni). L’espressione più compiuta di questa concezione, già presente nei suoi numerosi racconti, è la tetralogia dedicata a quattro diverse catastrofi che si abbattono sulla Terra, costituita dai romanzi Vento dal nulla, dove a scatenare l’evento catastrofico è l’aria, Terra bruciata, dove l’elemento distruttivo è il fuoco, Il mondo sommerso, in cui è l’acqua a inondare il pianeta, ed infine Foresta di cristallo, nel quale una misteriosa proliferazione di cristalli pietrifica ogni cosa. In queste opere, l’uomo non ha alcuna centralità e il mondo continua, dopo la catastrofe, il suo corso, incurante del destino della specie umana, sulla quale uno dei personaggi di “Le voci del tempo” esprime un giudizio impietoso e senza appello: «Il mio completo fallimento, la mia assoluta mancanza di qualsivoglia diritto morale o biologico a esistere, sono impliciti in ogni cellula del mio corpo». Il mondo appare all’“uomo sovraccarico” dell’omonimo racconto – che sembra quasi un quadro di Salvador Dalì trasposto in prosa – una zavorra che gli provoca disgusto e rispetto alla quale la sua massima aspirazione «era sublimarsi alla pura funzione ideativa, attingere l’indisturbata sensazione dell’esistenza psichica svincolata da qualsivoglia tramite fisico». L’attrazione per la catastrofe non ha, tuttavia, almeno nelle intenzioni di Ballard, niente di morboso, dato che il racconto catastrofico presenta anche un lato positivo, che si configura come possibilità, da parte dell’autore, «di confrontarsi con un universo palesemente insensato sfidandolo al suo stesso gioco». Egli non accetta la realtà in cui vive e si ribella ad essa, «usando la propria immaginazione per descrivere le infinite alternative alla realtà che la natura stessa si è rivelata incapace di inventare». Le fantasie del narratore di fantascienza costituiscono «un atto d’accusa contro il finito, un tentativo di smantellare la struttura formale dello spazio e del tempo che l’universo ci avvolge addosso nel momento in cui per la prima volta raggiungiamo la coscienza» (Fine millennio: istruzioni per l’uso). Siamo, come si vede, in piena poetica surrealistica, che nei racconti (pubblicati in tre volumi da Fanucci) si manifesta in trame e situazioni che spiazzano continuamente il lettore, ponendolo a contatto con una realtà sconcertante, «mostruosamente surrealista»: piante che cantano o «vedono» il tempo, sculture canore, case che cambiano forme e dimensioni a seconda dell’umore del proprietario, flussi temporali che interrompono il normale andamento lineare per quello circolare. Lo stesso effetto straniante lo si prova leggendo i suoi testi non narrativi (articoli, saggi), scritti all’insegna della più totale libertà di giudizio e di uno spiccato anticonformismo: anche quando non li si condivide, se ne riceve comunque un nutrimento, si è costretti a confrontarsi con un punto di vista inatteso e urticante. Quando decide di abbandonare il genere fantascientifico, che reputa esaurito dopo l’allunaggio di Armstrong nel 1969, Ballard continua ad essere interessato al catastrofico, ma appare decisamente meno ottimista circa le sue potenzialità positive. L’oggetto della catastrofe non cambia, l’Occidente sviluppato e supertecnologico – che, simile a una piovra, estende i suoi tentacoli sull’intero pianeta – descritto, senza più ricorrere allo schermo della sua originale versione della fiction fantascientifica o dei comportamenti psicotici dei personaggi de La mostra delle atrocità, come il regno della decrepitezza senile e della noia, in cui non accade più niente di significativo; a cambiare, o meglio a tramontare, è la fiducia nella capacità della nostra immaginazione, della nostra psiche, di creare delle accettabili, decenti alternative. Egli non sconfessa formalmente la sua dichiarazione di fede nella potenza immaginativa, il suo “credo” surrealista nella nostra capacità di «liberare la verità dentro di noi» (Re/search, J.G. Ballard. Visioni, Shake), ma la sensazione che, complessivamente, si ricava da questa fase della produzione narrativa ballardiana sembra comunque andare in un senso opposto. È significativo, a questo proposito, che i romanzi del periodo post-fantascientifico nascano da una fusione tra il noir e l’horror, ossia tra due generi letterari inclini più al disincanto che all’ottimismo. Il noir non va confuso col giallo; infatti, mentre quest’ultimo tende a ripristinare, con la scoperta dell’assassino, l’ordine turbato, nel romanzo “nero” il lieto fine non è per niente scontato e i confini tra il bene e il male sono molto sfumati, se non addirittura indistinguibili. Quanto all’horror, Michel Houellebecq, nel saggio su Lovecraft (H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, Bompiani), ne classifica due diverse tecniche espressive: quella «a progressione lenta» e quella dell’«attacco in forze». Come ben sanno gli estimatori del “recluso di Providence”, Lovecraft predilige la seconda tecnica, che consiste, in pratica, nel mettere di primo acchito le (orrorifiche) carte in tavola, nel chiarire subito di cosa si tratta, che cosa il lettore deve aspettarsi, mentre nella prima, privilegiata da Ballard, si arriva gradualmente, partendo da un contesto del tutto banale, ad un epilogo sconvolgente (Houellebecq cita l’opera di Richard Matheson, l’autore del celebre Io sono leggenda, come esempio classico di questa modalità espressiva. E lo stesso Ballard dichiara di apprezzarla molto). I romanzi di questa fase della sua attività letteraria hanno tutti la stessa struttura. Ci viene presentato un luogo familiare al nostro paesaggio mentale di occidentali progrediti: un grattacielo (Il condominio), un’autostrada (Crash, L’isola di cemento), un centro sportivo (Cocaine nights), o residenziale (Un gioco da bambini), o tecnologico (Super-Cannes), o commerciale (Regno a venire), un intero quartiere della classe media o medio-alta (Millennium people). Tutti luoghi-simbolo dell’Occidente attraversati da una profonda ambiguità: da un lato, sono schegge di futuro (un futuro molto vicino, tanto da sembrare quasi presente), prefigurazioni di un possibile avvenire che viene proposto o imposto all’intera umanità; dall’altro, sono il brodo di coltura di derive autoritarie, di forme di primitivismo e tribalismo che la nostra sicumera di occidentali illuminati e colti pensava di aver seppellito per sempre. Scenari che sono una bizzarra miscela di ordine e di follia e che configurano una «geografia di deprivazione sensoriale» (Regno a venire, ma il concetto ritorna anche in Cocaine nights), in cui tutti i posti si somigliano, essendo tutti ugualmente insignificanti; architetture che sembrano fatte per la guerra, «non per l’uomo, ma per l’assenza dell’uomo» (Il condominio), che infatti, in tali contesti, perde a poco a poco, impercettibilmente, la sua umanità, finendo col cadere nell’animalità, come capita ne Il condominio, dove i personaggi cominciano a comportarsi come animali o ad assumere atteggiamenti che rinviano all’uomo del paleolitico: emettono suoni gutturali, segnano il territorio con la propria urina, si spartiscono le donne, mangiano cibo per cani, si dipingono il corpo e formano bande di cacciatori e predatori che tentano di conquistare i piani inferiori o superiori dell’edificio. L’obiettivo è «la costituzione di un regno in cui i loro impulsi più devianti fossero finalmente liberi di manifestarsi, in qualsiasi modo». In termini freudiani, si tratta di una rinuncia alla civiltà, la quale comporta necessariamente un certo controllo delle proprie pulsioni – un controllo che, tuttavia, è sempre esposto al rischio del fallimento e della regressione, dal momento che, come scrive Freud nelle sue Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, «quanto di primitivo vi è nella nostra vita psichica è imperituro». Basta poco, un’auto che finisce fuori strada, una bottiglia di spumante che vola dal trentesimo piano di un alveare umano, finendo su uno dei pianerottoli sottostanti, un cane che muore annegato in una piscina, per innescare una micidiale reazione a catena che fa precipitare i personaggi in un clima di barbarie e violenza, dove il normale quadro all’interno del quale si svolge la vita di un essere umano civilizzato (gli impegni di lavoro, l’ufficio, la famiglia, le relazioni sociali, gli appuntamenti) perde senso e consistenza, apparendo come qualcosa di abissalmente, sideralmente remoto. È sufficiente scalfire un po’ la superficie sfavillante di luci, colori, merci, di quel Primo Mondo di cui andiamo tanto fieri, convinti come siamo che segni la fine della storia, per scoprirne l’impressionante volto, che Ballard riassume in una parola: Zombiland. Siamo diventati una terra di zombi, di morti viventi, anzitutto per ragioni anagrafiche: l’età media continua a salire, gli occidentali invecchiano sempre di più, ci stiamo trasformando in popoli di pensionati che, per usare una frase fatta, ma vera, fanno fatica ad arrivare alla fine del mese, la fatidica quarta settimana, trascinano la vita in cubicoli che sono un monumento «all’abolizione del tempo, come si conviene alla popolazione anziana di questi rifugi, ma anche a un mondo più vasto che attende la sua vecchiaia» (Cocaine nights), caracollando tra il televisore e l’ipermercato, i cui livelli di socializzazione sono ridotti ai minimi termini e che vivono «in un eterno presente fatto di compere, e le cui decisioni morali più profonde riguardavano l’acquisto di un frigorifero o di una lavatrice» (Regno a venire). Questo è l’inglorioso epilogo dell’Illuminismo, il cui grande sogno, «cioè che la ragione e l’egoismo razionale un giorno avrebbero trionfato, ha portato direttamente al consumismo dei nostri giorni». «La razza umana», continua Ballard, «come un esercito di sonnambuli, camminava verso la totale perdita di memoria, con il pensiero rivolto unicamente al logo che ci sarebbe stato sul proprio lenzuolo funebre». Ci si può anche consolare, come fa inizialmente il protagonista di Regno a venire, un pubblicitario disoccupato, pensando che questo tipo umano “addomesticato”, che ricorda molto da vicino l’ultimo uomo dello Zarathustra di Nietzsche, «non avrebbe mai dichiarato guerra a nessuno», ma ben presto si scoprirà che questa è solo un’illusione – una vecchia illusione, quella secondo la quale l’economia sarebbe un terreno naturalmente pacifico.

In secondo luogo, siamo degli zombi per motivi che hanno a che fare con la psichiatria e la psicologia: ci viene chiesto sempre il massimo, le nostre prestazioni debbono sempre essere al top, altrimenti non si riesce a battere la concorrenza e si finisce “fuori mercato”, l’avvenimento più temuto e catastrofico della globalizzazione, la malattia mortale contro la quale non c’è rimedio che tenga. E quelli che non riescono a stare al passo, vengono messi da parte senza pietà, «scaricati, come un sacco di software scaduto» (Millennium People). Ne deriva uno stress, per sopportare il quale si ricorre a dosi “terapeutiche” di violenza. Quest’ultima può essere, per contro, scatenata anche dalla routine, simboleggiata dalla triade casa-ufficio (o fabbrica)-trasporto (métro-dodo-boulot, come dicono i francesi), dall’inattività, spesso forzata per coloro che rimangono disoccupati (evento ai giorni nostri non infrequente) e dall’ozio. La trasgressione più o meno violenta non è, quindi, una patologia contro la quale combattere, nonostante i rituali appelli che si ascoltano dopo il verificarsi di fatti particolarmente efferati, ma un dato fisiologico (un bene pubblico, nota paradossalmente Ballard), la cura, il collante sociale che consente agli individui e alle società sviluppate di scaricare periodicamente le tensioni accumulate, per poi tornare alle loro “normali” occupazioni. Dopodichè, si ricomincia. In Ballard, la presenza di telecamere, della video-sorveglianza, di corpi di polizia privata a difesa di ville e centri residenziali, è un elemento costante, incombente, ossessivo, ma anche qualcosa di perfettamente inutile, perché il vero rimedio è un altro, la violenza usata come farmaco: «Dovunque giri lo sguardo, in Inghilterra, negli Stati Uniti, nell’Europa occidentale, la gente si chiude dentro delle enclave a prova di crimine. È un errore: un certo grado di criminalità fa parte della necessaria durezza della vita. La sicurezza totale è una malattia» (Cocaine nights). Non manca mai, nei romanzi ballardiani, un personaggio cui è affidato il compito di spiegare questo meccanismo di compensazione basato su una follia scelta, volontaria, usata a scopo officinale. In Regno a venire, l’incombenza spetta a uno psichiatra, che si esprime con grande chiarezza: «Pensi per esempio a un gruppo di scimpanzè. Si annoiano a star lì a mordicchiare ramoscelli e a spulciarsi a vicenda sotto le ascelle. Vogliono carne, meglio se al sangue, vogliono assaggiare la paura dei loro nemici nel corpo che masticano. E allora cominciano a battersi sul petto e urlare al cielo. Fanno così fino a esaltarsi e poi vanno a caccia. Incontrano una tribù di colobi e li dilaniano. È una cosa orribile, ma la follia volontaria ha reso i pasti degli scimpanzè molto più saporiti. Ci dormono sopra e poi tornano a mordicchiare i ramoscelli e a spulciarsi». Dietro un buonismo di facciata, è questa logica animalesca a guidarci; il mondo che abbiamo costruito valorizza la parte animale che c’è in noi, dimenticando, nel suo riduzionismo, che, se tutto l’animale è nell’uomo, non tutto l’uomo è nell’animale. L’inoculazione periodica di appropriate dosi di violenza è, dunque, nel contesto sociale ed umano che abbiamo creato in Occidente, uno strumento cui il potere fa ricorso per esercitare un certo controllo sociale, fornendo una valvola di sfogo, in una realtà che, diventata insensibile ad altri richiami di ordine spirituale o religioso (peraltro, guardati comunque da Ballard, che anche in questo segue Freud, con un certo sospetto), può solo far emergere la parte più belluina di sé, l’homo homini lupus e la guerra di tutti contro tutti. In alcuni casi, la somministrazione della violenza avviene a livello individuale – si tratta, cioè, di far “guarire” (ma il termine è inesatto, perché ciò a cui si punta non è la guarigione, bensì l’accorta gestione del male) singole persone dalle tensioni accumulate; in altri casi, la violenza assume un volto collettivo e para-politico. In Regno a venire si ha a che fare con bande di tifosi organizzati, alienati e manipolati, le cui esistenze ruotano intorno a un immaginario (ma fino a un certo punto) mega-centro commerciale, il Metro-Center, in un’altrettanto immaginaria (ma non troppo) città della cintura londinese, Brooklands; in Super-Cannes, Cocaine nights, Il condominio, queste bande sono formate, invece, prevalentemente, da insospettabili professionisti e imprenditori, i quali si danno a reati contro il patrimonio o la persona che «soddisfano il nostro bisogno di emozioni forti, ci scuotono il sistema nervoso e fanno saltare le sinapsi indebolite dall’ozio e dall’inattività» (Cocaine nights).

Fatta la tara alle esigenze letterarie, agli eccessi, alle esasperazioni che sono, peraltro, ineliminabili in un autore così influenzato dal surrealismo, l’affresco narrativo dipinto da Ballard presenta notevoli analogie (insieme a non poche differenze) con le analisi sviluppate da filosofi della politica di impronta realistica (realismo e surrealismo che si intersecano: situazione bizzarra e surrealistica al massimo grado) come Danilo Zolo (Sulla paura, Feltrinelli) ed Eric Werner (L’anteguerra civile, Settimo Sigillo). Questi descrive il nostro tempo, attingendo al lessico giusnaturalistico, come una fase di “anteguerra civile”, concetto che non va confuso con l’interregno, il quale reca in sé un’idea di futuro – l’interregno come progresso, tappa verso il regno, cammino in direzione di un altrove che si trova davanti a noi. Viceversa, l’anteguerra civile è uno status che nasce da un regresso (che si riscontra anche nei romanzi di Ballard) rispetto allo stato civile; non è più stato civile, ma non è nemmeno stato di natura; è uno strano impasto – una no man’s land, come scrive il filosofo svizzero nella prefazione all’edizione italiana del suo saggio – che contiene elementi di entrambe le condizioni e nel quale il Principe scherza col fuoco, nel senso che utilizza la violenza e il disordine per legittimarsi quale unico bastione contro la disgregazione sociale – e non scherzano forse col fuoco anche i personaggi di Ballard (uno dei cui romanzi, Cocaine nights, prende le mosse proprio da un incendio), pienamente consapevoli, peraltro, che il gioco è una cosa molto seria? La violenza è, perciò, il male, ma anche il rimedio, come suggerisce René Girard: «Si può ingannare la violenza soltanto nella misura in cui non la si privi di ogni sfogo, e le si procuri qualcosa da mettere sotto i denti» (La violenza e il sacro, Adelphi). Da sempre, la presenza di una minaccia, reale o inventata, è un elemento costitutivo del politico. La comunità politica rafforza le ragioni dello stare insieme quando si sente messa in pericolo da un nemico che tenta di infiltrarsi tra le sue fila. Il nemico, esterno o interno, diventa allora il capro espiatorio sul quale proiettare i mali della comunità, consentendole così di riacquistare temporaneamente la salute. Orbene, nell’anteguerra civile si è prodotta una mostruosa mutazione, che fa pensare agli scenari ballardiani, in virtù della quale l’obiettivo cui punta il potere non è quello di sconfiggere le violenze e i conflitti, bensì di amministrarli, strumentalizzandoli per i suoi fini. «Si tratta», scrive Danilo Zolo, «di una vera e propria “macchina della paura” subliminale, che punta ad assecondare le pulsioni repressive presenti nella società». La modalità normale di funzionamento del consorzio civile e politico consiste, allora, nel moltiplicare o tollerare, fino ad un certo livello, i disordini e le violenze, con la conseguenza che si neutralizzano a vicenda, consentendo al potere di uscirne sempre vincente. Ad esempio, nota Werner, il conflitto tra governanti e governati è indubbiamente un male, che però viene neutralizzato da quello tra autoctoni e immigrati, che così diventa un farmaco, in quanto chi governa può atteggiarsi a difensore degli autoctoni, che coincidono con i governati (o degli immigrati, a seconda della sua convenienza del momento), favorendo mobilitazioni sociali ad hoc, dando maggiore o minore risonanza a certi fatti piuttosto che ad altri, ricorrendo alle infinite possibilità che la propaganda gli mette a disposizione, soprattutto in un’epoca di grande penetrazione dei mass-media, per demoralizzare eventuali resistenti, convincendoli che non ha senso opporsi al senso della storia. «In questa prospettiva», scrive il filosofo svizzero, «sarebbe il caso di chiedersi se la società civile non sia oggi piena di guerre civili larvate che si neutralizzano reciprocamente e la cui funzione stessa sarebbe di neutralizzarsi reciprocamente». Interrogativo che, per Zolo, è una certezza: «[…] i potenti si servono della paura per realizzare i loro scopi e imporre la loro volontà». Anche Werner rileva, come Ballard, il legame tra insicurezza, disordini e crescita dell’intrusione del potere nella vita delle persone (video-sorveglianza, intercettazioni, schedature). Il Principe «lascia sviluppare l’insicurezza, ma ne trae motivo per ottenere che i membri della società si rassegnino all’abbandono di certi loro diritti». Quella della sicurezza è diventata una vera e propria industria che conosce «una crescita spettacolare in tutto il mondo», con il settore della sicurezza privata che cresce «due volte più velocemente dell’insieme dell’economia mondiale» (Danilo Zolo). Non che il tema della sicurezza non sia importante nella vita di una nazione. Tutt’altro. Il problema, continua Zolo, è che siamo passati da una concezione positiva della sicurezza intesa «come una garanzia che assicuri a tutti i cittadini la possibilità di organizzare liberamente la propria vita, di trascorrerla al riparo dall’indigenza, dallo sfruttamento, dalle malattie e dallo spettro di una vecchiaia invalidante e miserabile […], come riconoscimento dell’identità delle persone e del loro diritto di partecipare alla vita sociale», a una concezione puramente negativa e poliziesca intesa «come incolumità individuale e come repressione penale e severa punizione dei comportamenti devianti». Sembra una situazione senza vie d’uscita. Qualunque cosa si faccia, il potere si mostra in grado di trovare la contromossa adeguata, sicché l’anteguerra civile potrebbe durare molto a lungo. Eppure, Werner individua un possibile spiraglio. Quando, come fa il Principe, si scherza con il fuoco, quando, cioè, si “gioca” con i diversi pezzi di una società frammentata per avvantaggiarsene, ci si può anche scottare: «Il minimo errore da parte sua e l’incendio sarebbe immediato». Nell’attesa che ciò accada, Werner elargisce a coloro che non si lasciano sedurre dal Principe e, perciò, rifiutano di partecipare al suo gioco, un consiglio di nicciana inattualità: darsi alla filosofia, intesa nel senso aristotelico di scienza dell’Essere, ossia «delle cose così come sono». Il filosofo incarna un salutare principio di realtà che, opponendosi alla imperante follia ideologica (non è, infatti, per niente vero che la nostra epoca è quella della fine delle ideologie), aiuta a situarsi nell’ottica del dopo-anteguerra civile.

Danilo Zolo punta, dal canto suo, sul pessimismo attivo, ossia su un pessimismo che non si rassegna e che, pur consapevole di dover scontare una condizione di estrema solitudine, rimane aperto alla solidarietà con l’altro, quella di «un cristiano senza dio», consapevole che un granello di sabbia potrebbe comunque bloccare l’infernale macchina occidentale che «produce terremoti, uragani, guerre, terrorismo, stragi di innocenti, malattie letali, la morte per fame, la discriminazione spietata fra ricchi e poveri, fra potenti e deboli, fra noi e gli “altri”».

Nei romanzi di Ballard, le alternative esaminate si risolvono, invece, in uno scacco. Di spiragli, nemmeno l’ombra. Sebbene abbia sempre dichiarato di credere nel potere dell’immaginazione di plasmare il mondo e favorire il cambiamento e si sia sempre professato ottimista circa il futuro, si fa fatica a scorgere motivi di speranza e fiducia nell’ultimo Ballard. In Millennium People, del 2003, ambientato in Inghilterra, vengono messe in scena una rivolta dei ceti medi e medio-alti che ricorda molto il fenomeno degli indignados partito dalla Spagna otto anni dopo, nel 2011, e una forma di protesta più radicale e di sinistra, a suon di bombe e attentati. Entrambe falliscono, così come falliscono le ribellioni di segno destro-radicale e tradizionalista (in Regno a venire) ed ecologista (ne Il paradiso del diavolo). La prospettiva che si impone è tutt’altro che esaltante: «Una noia perniciosa governava il mondo, per la prima volta nella storia dell’umanità, interrotta da insensati atti di violenza» (Millennium People). La parabola di scrittore e intellettuale di Ballard si conclude su questo deprimente e al tempo stesso inquietante panorama, perfettamente in linea con gli scenari emergenti dalle analisi dell’ammirato Freud. Il padre della psicanalisi, infatti, individua nel senso di colpa, nella coscienza morale e nell’interiorizzazione dell’autorità gli strumenti grazie ai quali possiamo riuscire a tenere a bada la pulsione aggressiva e distruttiva, il “disagio nella civiltà” su cui si sofferma nell’omonimo saggio, ma niente ci garantisce che ciò accadrà, ed infatti la pagina finale de Il disagio nella civiltà, citata anche ne La mostra delle atrocità, si chiude con un punto interrogativo. In Ballard, l’anteguerra civile tende a scivolare implacabilmente verso un’aperta, insanabile conflittualità (ne La mostra delle atrocità si accenna più volte a una terza guerra mondiale, concepita come  evento che coinvolge sia la nostra psiche che l’intero pianeta), verso l’hobbesiano homo homini lupus che, come scrive Freud, «dopo tutte le esperienze della vita e della storia», nessuno «può avere il coraggio di contestare».

Michel Houellebecq, nel saggio prima citato, ha scritto: «Checché se ne dica, l’accesso all’universo artistico è riservato quasi esclusivamente a chi ne abbia un po’ le palle piene». Se si accetta questo metro di giudizio, James Graham Ballard è certamente, in quanto narratore, un grande artista.