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Confessione o psicanalisi? Il superuomo depresso in cerca d’una guida

di Francesco Lamendola - 23/11/2012


È meglio il confessore o lo psicanalista?

Detta così, potrebbe sembrare semplicemente una battuta; invece noi crediamo che una domanda del genere racchiuda un nocciolo di profonda importanza e che ponga, anzi, una questione fondamentale per l’uomo post-moderno, lacerato da dubbi, incertezze, angosce d’ogni genere, che sono poi l’inevitabile contraccolpo dell’improvvido ottimismo e della smisurata fiducia in sé, ingenuamente coltivati a partire dalla Rivoluzione scientifica e, poi, dall’Illuminismo, almeno fino al Positivismo e alla vigilia della prima guerra mondiale.

L’uomo post-moderno, pur circondato da oggetti e da macchine che, teoricamente, dovrebbero rendergli la vita più facile e comoda (quando non sono essi a complicargliela), si sente e, di fatto, è terribilmente solo: così solo come mai, forse, lo sono stati suoi predecessori, compresi quelli più vicini nel tempo: i suoi genitori e i suoi nonni. Solo e depresso, solo e confuso, solo e smarrito: e, dunque, bisognoso di chiarezza, di conforto, di direzione spirituale.

D’altra parte, è impossibile offrirgli un rimedio alla propria angoscia e alla propria solitudine, se non si è in grado di risalire alle radici del suo malessere e della sua infelicità; e, ancora più a monte, senza aver chiaro che cosa l’uomo realmente sia, quale sia la sua natura di creatura vivente, quale il suo orizzonte esistenziale più autentico. Finché la scienza moderna si ostinerà a considerarlo solo dal punto di vista biologico e neurologico, come un corpo con un cervello e un sistema nervoso, e nient’altro, nessuno che fondi il suo sapere su una tale scienza sarà mai capace di curarlo, di aiutarlo, di instradarlo; e questa è, appunto, la contraddizione in cui ci stiamo dibattendo: che la cura è inefficace, o addirittura dannosa, perché formulata sulla base di una diagnosi totalmente sbagliata, che si fonda su pregiudizi scientisti vecchi di almeno un secolo e mezzo.

Non diciamo questo sulla base di una astrazione teorica, ma sulla base della attenta osservazione dell’uomo concreto, dell’uomo che è in noi e che vive accanto a noi, dell’uomo che soffre, spera, teme, si innalza e si abbassa rispetto alle sue immense potenzialità, alle sue aspirazioni, al suo ultimo destino, a seconda che si lasci sopraffare dagli istinti inferiori o che si lasci guidare dalla sua parte più nobile ed evoluta, quella spirituale.

L’uomo non è soltanto quello che di lui si vede; non è soltanto il suo corpo; non è soltanto ciò che mangia, non è soltanto il frutto del proprio patrimonio genetico, o dell’ambiente o della educazione ricevuta, sebbene tutte queste cose operino profondamente sulla sua dimensione psichica. Ma l’uomo è anche altro: è anche inquietudine che esprime il suo bisogno di assoluto, la sua sete di giustizia, di verità, di bellezza; il suo anelito a trascendersi, non ergendosi a super-uomo, ma trasformandosi in un uomo spirituale, che ha oltrepassato i propri istinti inferiori, pur senza averli rinnegati, e che ha saputo riconoscere la voce della chiamata dell’Essere, che lo attira a sé, indicandogli il suo eterno destino.

Un sacerdote, che è stato anche psicoterapeuta, Giambattista Torello, fin dagli anni del “boom” economico si poneva con molta serietà la domanda se l’uomo d’oggi abbia bisogno soltanto di uno psicanalista per medicare le proprie ferite e per riprendere in mano il proprio destino, o non gli sia necessario qualche cosa di più, un vero direttore spirituale, ossia, per dirla con Paracelso, un medico capace di curare le anime e non solamente i corpi (ammesso che la psiche sia solo “corpo”, come la psicanalisi freudiana esplicitamente afferma, seguita tuttora con cieca osservanza da una legione di piccoli epigoni, petulanti e conformisti.

Scriveva, dunque, il Torello, mezzo secolo fa (da: G. Torello, «È meglio il confessore o lo psicanalista?» (Milano, Nuova Accademia Editrice, 1961, pp. 199-206; 218-31):

 

«Il fatto che tutte le psicoterapie riconoscano uno stretto rapporto tra le nevrosi e la vita morale di chi la pratica, acanto al fallimento della fede di molti uomini del nostro tempo, ha giovato all’insorgere di una concezione dello psicoterapeuta quale sostituto del sacerdote, e della psicoterapia quale surrogato della confessione sacramentale. Da molti lati si alzano voci auspicando il ritorno di tempi in cui il sacerdote e il medico erano una sola figura sanante la totalità dell’uomo, o almeno si è vista la necessità dell’incontro di due funzioni che troppo a lungo sono state separate. Si è parlato di una nuova “cura di anime”, di una “ärztliche Seelsorge”, di una liberazione psicologica del sentimento di colpa, delle dimensioni morali della malattia, della conversione di cui ha bisogno il nevrotico per guarire, della moralità conculcata e della religiosità repressa che la nevrosi esprime, e della “trascuratezza negli atti di fede, di speranza e di amore” che “portano alla demolizione del livello della personalità” e così causano “una latente e tuttavia spesso manifesta, dolorosa angoscia, sintomo fondamentale della nevrosi (V. E. Von Gesbattel, “Anthropologie der Angst”). […] Il celebre Jung è arrivato persino a scrivere che “la psicanalisi è uno sviluppo logico della confessione…Il mio metodo, come quello di Freud, è costruito sulla pratica della confessione” (Jung, “Le Yoga et l’Occident”). Questo asserto dimostra […] una grave misconoscenza di ciò che è essenziale nella confessione, che non è il fatto psicologico, ma il suo essere sacramentale. […]

Le nostre purificazioni sono sempre insufficienti. Nella Penitenza  il sangue del Redentore stesso che viene sparso sacramentalmente sull’anima del peccatore nel momento della assoluzione. È un “opus divinum”, e perciò si capisce che “la Confessione rende l’uomo infinitamente più degno di onore, di quanto il peccato lo abbia reso biasimevole” (San Francesco di Sales). […] E in questa sua essenza religiosa, sacramentale, consiste la differenza radicale, che la stacca da qualsiasi psicoterapia, che nulla può nell’ordine della Grazia, che non può produrre una reale azione divina in noi, che non rappresenta né realmente consiste in un rapporto tra il soggetto e la persona di Cristo, tramite un segno sensibile nel seno della Chiesa.[…]

La psicoterapia sa di dover superare la prassi meccanicistica del puro “rimettere in ordine una psiche squilibrata”, sa che è rinata nella mente dei professionisti l’idea di Paracelso cioè che “un medico per essere veramente tale dev’essere anche un filosofo”, e che oltre a rendere il malato libero dai suoi impacci deve “renderlo libero in un senso più vasto… onde farlo capace di assumere in pieno le proprie responsabilità” La psicoterapia “si muove quindi non solo al di là del confine che separa il somatico dallo psichico, ma ai limiti tra lo psichico e lo spirituale” (Victor E. Frankl). La psicoterapia tenta di “liberare l’uomo dalla nevrosi per condurlo verso un impegno della sua esistenza secondo valori autentici”; essa dovrebbe quindi essere la preparazione di una METANOIA, di un ritorno alla “ortodossia vitale”, una specie di assistenza medica al direttore di coscienza (Niedermeyer), e pertanto “lo scopo della psicoterapia non è soltanto di ANALIZZARE, di dissociare, bensì e tenendo conto del rispetto dovuto alle particolarità personali ed alle leggi individuali, soprattutto quello di TRASCENDERE »ciò che vi è di oscuro e di istintivo nell’organismo psichico per raggiungere il valore e il numinoso” (Igor Caruso). Certo, però, che a parte le controindicazioni non rare per la psicoterapia, bisogna anzitutto premunirsi contro un certo ottimismo circa le “tecniche della liberazione spirituale”, perché il concetto e la realtà stessa di tecnica sono già quasi in contraddizione cin quelli di libertà - che è gratuita -, e cercare di stabilire con chiarezza la distinzione tra psicoterapia e direzione spirituale. […] Non si può perdere di vista l’unità profonda dell’uom: non si può pretendere di occuparsi della sola “vetta dello spirito”, e ignorare la base temperamentale della personalità… cioè il materiale che viene offerto al carattere. Al carattere, che è ciò che uno fa del proprio temperamento, appartiene tutta una serie di “abitudini” tra loro strettamente e armonicamente connesse, che comunemente chiamiamo virtù. […] Tutto ciò vuol diore che ogni seria direzione spirituale contiene un lavoro psicologico di prim’ordine, e non raramente una prassi psicoterapeutica vera e propria. […] la vera direzione spirituale stronca il volontarismo semipelagiano degli adoratori kantiani dello sforzo, che affrontano le vie dello spirito  da grandi cavalli e da grandi bovi (Tauler), facile preda della nevrosi, proprio come impedisce la passività quietista dei pigri e accidiosi che “tutto attendono da Dio e dal direttore” e non sanno prendersi la responsabilità della propria anima.»

 

L’uomo, dunque, è la creatura che deve diventare capace di assumersi la responsabilità della propria vita; che non può vivere in un perenne stato di minorità, di latitanza, di fuga da se stesso; che deve essere umile quanto basta per riconoscere di non potersi redimere da sé solo, e coraggioso quanto basta per sentire l’esigenza di adoperarsi per concorrere alla realizzazione di sé e alla trasformazione della propria opacità in luce, calore e pienezza vitali.

Ora, se il buon medico deve essere anche un filosofo, in un certo senso ciascun essere umano dovrebbe diventare, nel proprio piccolo, un po’ filosofo:perché filosofia è saper vedere l’intero e non solo le singole parti, saper vedere la connessione esistente fra tutte le cose, le vicine e le lontane, le materiali e le spirituali, le visibili e le invisibili.

Se egli riesce a realizzare almeno in pare questo obiettivo, può sperare di conquistare la propria pace, dopo aver combattuto la buona battaglia; diversamente, dovrà sempre dipendere dal sostegno altrui, e sperare d’imbattersi in medici, guaritori o guide spirituali che siano veramente tali, e non dei vanitosi ciarlatani interessati solo a riempirsi il portafoglio. E, così come dovrà fidarsi ciecamente delle medicine che io sui medico gli prescriverà, magari senza spiegargliene la necessità e le caratteristiche, così dovrà accettare ciecamente anche le verità che il suo “guru”, il suo maestro, il suo sedicente direttore spirituale gli presenteranno già belle e pronte, da assumere senza critica e cui attenersi strettamente e rigidamente.

Dei veri direttori spirituali, oggi, ce ne sono assai pochi; e questo perché non si può dirigere spiritualmente nessuno, se si ignora quel che ogni anima, nella sua essenza, è: un progetti luminoso che attende di essere portato a compimento, non seguendo generiche raccomandazioni o, peggio, sdolcinate parole d’ordine da ripetere come dei “mantra”, insomma non per mezzo di tecniche, ma piuttosto mediante il riconoscimento del proprio legame, inscindibile e necessario, con l’Essere, senza il quale l’uomo è niente, è una scheggia impazzita ed anarchica, un guscio vuoto che si gonfia di vento, una povera cosa priva di senso; mentre col ritorno all’Essere egli rientra in possesso della sua regale eredità, realizzando pienamente il senso del proprio destino.

Torniamo, ancora e sempre, al socratico “conosci te stesso”; torniamo, inevitabilmente, all’idea precisa di uomo che muove la nostra vita, che dà impulso al nostro agire, che alimenta il nostro sentire e il nostro pensare; avendo sempre ben chiaro che nessun uomo è un’isola, che la nostra umanità si esplica in mezzo ad altre creature viventi, in un cosmo anch’esso vivente, non già in un cieco meccanismo naturale senz’anima, senza una origine e senza un perché.

La mentalità liberale, divenuta ormai una seconda natura, ci spinge a ricercare la soddisfazione personale e, più in generale, a considerare la nostra vita come slegata da quella degli altri, al punto da poterla realizzare anche contro gli altri e a danno degli altri; ci siamo dimenticati, così, la saggezza istintiva dei nostri nonni, secondo i quali l’uomo ha dei doveri verso i propri simili e verso il creato; che non può disertare da essi e che solo nell’adempimento della propria responsabilità egli diviene realmente se stesso.

Se l’uomo soffre, se è smarrito, se è confuso, le conseguenze della sua sofferenza, del suo smarrimento e della sua confusione non solo solamente un suo problema strettamente personale: sono anche un problema sociale; sono un problema per la sua famiglia, per i suoi amici, per i suoi concittadini; egli deve guarire e ritrovare il proprio equilibrio non solo per se stesso, ma anche per tutti gli altri, per poter dare il proprio contributo al bene di tutti, così come dal bene di ciascuno dipende anche il suo stesso bene.

Abbiamo bisogno di una guida spirituale, di uno psicoterapeuta nel senso più alto del termine, di un medico dell’anima che sia anche filosofo; e, al di sopra di tutto questo, abbiamo bisogno di ritrovare il legame con l’Essere, di udire la voce dell’Essere, facendo silenzio in noi stessi e imponendo silenzio a mille rumori inutili. Per i cristiani, una tale figura è quella del confessore: che è, sì, un uomo, peraltro ricco di saggezza ed esperienza; ma è soprattutto il tramite con Dio, con l’Assoluto.