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Il rancore può trasformarsi in un elemento positivo di crescita e maturazione?

di Francesco Lamendola - 03/12/2012




 

Accade, talvolta, che tra un professore e uno studente si instauri una invincibile antipatia, una reciproca e acuta insofferenza; non è una bella cosa e non dovrebbe accadere, perché vanifica completamente il processo educativo, tuttavia sappiamo che accade.

Molti di noi hanno fatto una esperienza del genere, da ragazzi. Un professore prende in odio un alunno: non si sa perché, ma tutta la classe se ne accorge, solo i colleghi di lui ed il preside paiono non avvedersene affatto o, se pure se ne accorgono, non muovono un dito e non fanno assolutamente nulla per intervenire. Era una situazione abbastanza frequente nella scuola di una volta, rigida e selettiva; più rara oggi, dove non di rado si verifica la situazione opposta: di uno studente, o di un gruppo di studenti, che si accaniscono contro un professore o contro una professoressa, magari giovani e inesperti, oppure non più giovani, ma notoriamente deboli e tali da prestare il fianco a più d’una critica, perciò difficilmente difendibili da parte dell’istituzione, che forse non vede l’ora di liberarsene.

Certo, fra il professore e lo studente, fra l’adulto e il ragazzo, dovrebbe essere il primo a ritrovare il senso delle proporzioni, a tendere una mano all’antagonista, a rasserenare il clima, facendo sì che ciascuno rientri senza traumi nel proprio ruolo: quello dell’educatore il primo, quello del discente il secondo. Ma non sempre è così, anzi talvolta l’adulto si mostra più permaloso e più vendicativo del giovane; e, sfruttando la posizione gerarchica di cui gode, giunge magari a delle forme di vera e propria persecuzione, sfruttando ogni occasione possibile e immaginabile per cogliere il ragazzo in fallo, per mettergli un brutto voto, per infiggergli una nota disciplinare.

Certo, può essere che il ragazzo abbia assunto degli atteggiamenti di tipo provocatorio; che eserciti, in maniera palese, un influsso negativo sul resto della classe; che, viziato e spalleggiato dai genitori, magari di alta estrazione sociale, voglia mostrare al professore, e a tutti i compagni, che lui è il vero leader, mentre l’altro, l’adulto, è solo un poveraccio senz’arte né parte, che un sistema anacronistico ha messo artificialmente in posizione di vantaggio, ma che è legittimo ridimensionare, punzecchiare e perfino ridicolizzare, per ristabilire un principio di “giustizia”.

Comunque, l’antipatia può essere cordialmente ricambiata e il professore, che dovrebbe mostrare una certa superiorità rispetto a un simile atteggiamento psicologico, forse si mette invece allo stesso livello, forse si mette a un livello ancora più basso, sfruttando il registro per eseguire interrogazioni a sorpresa, con l’unico scopo di far cadere il ragazzo, di potergli affibbiare un voto negativo: insomma per sminuirlo, per ostacolarlo, per farlo bocciare.

Sono cose che succedono.

Non ci interessa, qui, andare a esplorare le diverse possibilità da cui può scaturire un simile astio da parte del professore: invidia per la giovinezza un po’ sfrontata; gelosia sociale; desiderio di rivalsa a buon mercato rispetto a una vita grigia, in cui non sono stati riconosciuti adeguatamente i suoi supposti meriti; perfino una segreta attrazione sessuale (potrebbe essere una studentessa; oppure potrebbe trattarsi di una attrazione omosessuale), negata a se stesso e trasformata in un odio che è, in effetti, odio per la propria tentazione.

Non ci interessa, ripetiamo: è affare dello psicologo; ci interessa, invece, vedere quali effetti può produrre nel ragazzo una simile persecuzione, non solo nell’immediato, ma anche sul lungo periodo; non solo durante l’anno scolastico o in quel determinato corso di studi, ma anche in seguito, per gli anni a venire della sua vita adulta.

Nella ormai datata biografia dell’alpinista Messner «Le quattro vite di Reinhold Messner», il giornalista Emanuele Cassarà ricordava uno di questi sgradevoli, ma non infrequenti episodi (Milano, Dall’Oglio Editore, 1981, pp.  81-82):

 

Un professore, a Bolzano, disprezzava l’attività alpinistica di Messner e lo perseguitava  ad ogni occasione, con tutti i pretesti, specialmente quand’egli, il lunedì, non era presente alle lezioni, trattenuto da chissà quale bivacco notturno imprevisto o difficile passaggio, che l’aveva impegnato più a lungo. Quel professore l’odiava e Reinhold non capì mai se l’odiasse per le assenze del lunedì (ma ciò gli pareva eccessivo) o perché l’attenzione dei compagni, più che al professore,  era rivolta alle sue imprese; oppure perché - questa ragione è la più comprensibile - Reinhold  non accettava mai la lezione senza discuterla e la sua faccia dura e bruciata dal sole non poteva essere affrontata senza fatica  anche da chi stava seduto dietro una cattedra. Quel professore  lo fece bocciare, proprio nell’anno in cui avrebbe dovuto ritirare il diploma.  Aveva in mano un validissimo pretesto per siffatta vendetta: Reinhold s’era recato  sulla Nord del Cervino per il primo tentativo di ripetizione invernale  della via Bonatti, con Günther e due altri compagni.  Non ce l’avevano fatta per una spaventosa tempesta di neve e Reinhold  si domandò in seguito come poterono venirne fuori.

L’assenza dalla scuola durò una settimana... L’anno dopo Reinhold, che aveva trovato intanto un impiego come insegnante di matematica alla scuola media di Appiano, arrivò alla maturità da privato. Di quel professore  non si dimenticò più.

Quella storia poi volle completarla così: “Ero il più forte in lingua e letteratura tedesca, prendevo dieci. Anche in matematica ero bravo.  Ma quel professore mi invidiava perché già il “Dolomiten” aveva pubblicato alcuni articoli miei.  È un giornale che non mi piaceva, ma riconosco che mi ha offerto per primo la possibilità di scrivere:  e io non sapevo niente, scrivevo! Ricevetti a casa anche piccoli assegni a compenso… Al professore non era mai riuscito di farsi pubblicare un articolo sul “Dolomiten”. Dopo il tentativo al Cervino, ritornai e mi interrogò, su lezioni mai davvero spiegate, e perciò a me sconosciute. Mi segnò un quattro. Allora io, lo ricordo benissimo, gli dissi d’un colpo:  se a lei piace, se le dà soddisfazione darmi ‘quattro’ anche ogni giorno, a me non importa. Si diverta pure con comodo!”.

“Venne l’esame di maturità. Della commissione faceva parte un professore dell’istituto che frequentavo, ma era amico dell’altro e perciò mio dichiarato nemico. Costui, si capisce - Reinhold continuava nel proprio racconto - condusse il gioco. Io capivo perfettamente dove saremmo arrivati  e gli dissi: Lei si è fatto influenzare parecchio. Ma come può un uomo di cinquant’anni subire così? Non pensare col proprio cervello? Un amico mi avvicinò e mi disse: Lascia perdere, Reinhold, molla qualcosa, non cercare lo scontro. No! Io dico quello che penso e lo grido a tutti”.

Fu un anno duro. Suo padre non gli aveva più dato una lira e, grazie a una amica che faceva la segretaria alla scuola di Appiano, Reinhold ottenne quella supplenza e se la cavò. Al secondo esame si trovò con Klaus Dibiasi, il tuffatore olimpionico, che era in regola con gli anni.  Il professore di tedesco domandò a Reinhold: “Come mai lei, che lo scorso anno, ha avuto cinque in lingua?”.

“è l’unica cosa che neanche io capisco, della mia vita” - gli rispose Reinhold - e se lei me la vorrà spiegare…”

“Ma forse è stato meglio così - concluse poi. - Se fossi stato promosso al primo esame, tutto ligio al dovere com’ero, studio e lavoro e rispetto di tutte le leggi, non avrei mai avuto la forza di ribellarmi a quel modo, sarei andato avanti inquadrato. Invece conservai un profondo rancore - quel professore era un simbolo - che mi rese selvaggio e felice”.»

 

A posteriori, dunque, l’alpinista Reinhold Messner ritiene di aver tratto giovamento, dopo tutto, dalla persecuzione di quel professore, perché essa lo ha reso più duro, più deciso, più pronto a combattere le ingiustizie; ritiene che il rancore accumulato lo abbia fortificato e avviato a una vita «più selvaggia e felice». Ma se la sta raccontando giusta? È proprio vero che dalla pianta velenosa del rancore possono derivare effetti così benefici e desiderabili?

 

I giovani, in generale, hanno un vivo senso della giustizia- talmente vivo da spingersi istintivamente fino ai limiti della crudeltà: essi non perdonano facilmente, non perdonano niente, specie se a macchiarsi di una ingiustizia, vera o presunta, è un adulto; specie se è un genitore o un insegnante, cioè una persona che, teoricamente, dovrebbe incarnare il principio stesso della giustizia e della equità (mentre di solito, ma non sempre, sono molto più indulgenti nei confronti degli altri ragazzi, anche se questi hanno mancato in maniera plateale e intenzionale).

Pertanto è facile immaginare quali conseguenze può avere, nella vita di una persona, l’esperienza di essere stato oggetto, nell’adolescenza, di una ingiustizia, o di un prolungato comportamento di tipo persecutorio, da parte di un adulto: la frustrazione si somma al rancore, possono manifestarsi problemi psicofisici (caduta dei capelli, specie nelle ragazze) e persino forme di esaurimento nervoso; qualche studente può essere perfino costretto a ritirarsi o a cambiare scuola: e non sono cose che si dimenticano facilmente, nemmeno col passare degli anni.

Il rancore è una forma ostinata e durevole di odio nei confronti di qualcuno o di qualcosa; un odio impotente che, non potendo sfogarsi apertamente contro il suo vero oggetto, inquina e intossica tutta la vita dell’anima, diffondendosi come un tumore in metastasi e avvelenando, forse, anche le radici sane, cioè portando una perturbazione complessiva, grave e permanente, nell’equilibrio interiore, nella stima di sé e nel rapporto con gli altri.

Certo, la vita è fatta anche di esperienze negative; anzi è vero che sono proprio queste ultime a favorire la crescita e la maturazione delle persone, perché nelle esperienze positive si tende ad adagiarsi mollemente e a vivere senza porsi problemi, senza porsi traguardi, senza cercare di migliorarsi. Il prezzo, però, può essere alto: tutto sta, dunque, a vedere se esiste una ragionevole proporzione fra il prezzo che si paga a tali esperienze negative, in termini di equilibrio spirituale, e il vantaggio che se ne può ricavare, rielaborandole nel corso del tempo e facendone occasione di perfezionamento e di accresciuta consapevolezza. Diciamo che una ragionevole proporzione esiste quando la maturazione avviene senza che sia compromesso l’incanto del mondo; se questo si incrina e si spezza, se sopraggiunge il disincanto, portando lo stuolo dei suoi cattivi compagni - l’amarezza, il cinismo, il pessimismo, la durezza fine a se stessa -, allora possiamo dire che il prezzo pagato è stato troppo alto, che per ottenere un risultato positivo ci si è dovuti sottomettere a un tributo esageratamente esoso.

È arduo fare onestamente i bilanci nella vita della propria anima e riconoscere quanto si è perso e quanto si è acquistato; è difficile perché, persino a distanza di anni, l’istinto di conservazione, che tende a proteggere l’immagine positiva che noi vorremmo avere di noi stessi, ci spinge a una scarsa obiettività verso il nostro passato e verso i nostri sentimenti, ci suggerisce meriti che non ci spetterebbe e ci invita ad appropriarci di virtù che, forse, abbiamo raggiunto solo in parte, ammesso che le abbiamo mai raggiunte.

Comunque, il rancore è una pianta sterile: non produce frutti commestibili, ma solo bacche velenose; di per sé, dunque, non favorisce la crescita, ma la rallenta e la impedisce. Può accadere, tuttavia, che il rancore, un poco alla volta, si trasformi in qualcosa di diverso: in desiderio pacato e razionale di giustizia; in rinnovata ammirazione per le persone oneste e coraggiose che lottano, ogni giorno, per i loro ideali; in volontà di sanare le proprie ferite, non alimentando il rancore stesso, ma producendo gli anticorpi che immunizzano dai suoi effetti esiziali: la capacità di comprendere l’altro e quella di perdonarlo, nonché di perdonare noi stessi.

Perdonare l’altro, infatti, perdonare colui che, in anni lontani, ci ha fatto ingiustamente del male, è solo il primo passo; non meno importante è il passo successivo, perdonare noi stessi:perdonarci per essere stati delle vittime impotenti e rancorose, per esserci crogiolati in sterili sogni di vendetta, per aver subito senza opporci quando era il momento di ribellarci, accumulando, così, sensi di colpa e disistima per noi stessi. Se questo accade, allora si può parlare di una sana proporzione fra il male che si è subito e che, magari, si è involontariamente alimentato in se stessi, e il bene che deriva da un approfondimento del proprio percorso di consapevolezza. È così che noi possiamo cambiare il senso del nostro passato: una facoltà straordinaria, che ci aiuta ad andare sempre avanti…