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L'impasse iraniana: la necessità di una nuova logica dello sviluppo

di Ghoncheh Tazmini - 03/12/2012

L’impasse iraniana: la necessità di una nuova logica dello sviluppo


 
La mia relazione si prefigge lo scopo di compensare l’enfasi di parte posta sulle pressioni punitive come strategia per spingere gli Stati a omologarsi con le norme e gli standard dettati dalle potenze egemoniche dominanti. L’attuale logica di ingaggio (o l’assenza di tale impegno) in relazione all’Iran è rappresentata dalla diplomazia coercitiva, dalle sanzioni economiche, dall’isolamento ed, eventualmente, dall’uso della forza militare. Questa logica si fonda su un clima politico caratterizzato da asimmetrie di potere, dove un sistema politico di tipo atlantico siede allo zenit della politica, per usare l’espressione del teorico canadese Charles Taylor. In un mondo, o villaggio globale, che si contrae rapidamente, questa logica è obsoleta e controproducente. Le ripercussioni di questo approccio riguardo l’Iran sono rappresentate dallo stallo sulla questione nucleare e da possibili scenari di guerra. Per quanto riguarda il fronte interno, lo sviluppo istituzionale iraniano ha subito una brusca frenata: le pressioni punitive hanno creato una situazione di emergenza nella quale lo sviluppo democratico è stato relegato ai margini. Nessuno Stato può prendere in considerazione riforme istituzionali quando si trova costantemente sotto minaccia.

La Repubblica Islamica è un costrutto politico e sociale che si differenzia dalle principali rappresentazioni occidentali della modernità, in modo particolare nel suo rifiuto del secolarismo e nella sua opposizione ad un illimitato liberismo sociale. Le norme e le istituzioni occidentali non sono un anatema per la Repubblica Islamica. Tuttavia l’Iran ha costantemente sostenuto la propria unica traiettoria di sviluppo. Qui è utile fare un breve riepilogo della storia dello sviluppo iraniano.

Il paradosso della modernizzazione in Iran

Per tutto il XX secolo l’Iran ha dimostrato una profonda ambivalenza, se non addirittura una certa riluttanza, a modernizzarsi secondo linee strettamente occidentali. Sotto gli Shah Pahlavi abbiamo visto un genere di “modernizzazione senza modernità”, un frettoloso tentativo di “mettersi al passo” con la modernizzazione. Mentre gli Shah aspiravano a convergere con l’Occidente raggiungendo le sue conquiste tecnologiche e materiali, hanno finito per divergere da esso conservando le basi autoritarie ed arbitrarie dell’Ancien Régime. Eppure, lo sviluppo pre-rivoluzionario può essere considerato un incerto sforzo di occidentalizzazione, perché la leadership ha perseguito un percorso di sviluppo plasmato in Occidente: mettersi al passo con l’Occidente diventando come l’Occidente. D’altro canto, lo sviluppo post-rivoluzionario fu modellato sul “mettersi al passo con l’Occidente non diventando come l’Occidente”. La rivoluzione iraniano-islamica del 1979 fu un tentativo d’abbracciare la modernità, ponendo enfasi sull’eredità islamica e relegando la narrativa occidentale ai margini.

Attraverso la convergenza, la divergenza, o un po’ entrambe, i diversi movimenti iraniani di modernizzazione hanno prodotto politiche che si sono differenziate dalla varietà occidentale di modernità. La patologia del fallito adattamento alle norme ed alle istituzioni occidentali o la riluttanza ad impegnarsi in una assoluta occidentalizzazione può essere ricondotta ad una “trappola culturale” o ad una disgiunzione di civiltà basata sugli archetipi tradizionali della coscienza nazionale. Non tratterò qui questo argomento, ma tale coscienza nazionale ha costretto gli iraniani a mantenere una distanza socio-culturale dall’Occidente nel tentativo di preservare la cultura locale. Quindi, la modernità occidentale ha rappresentato sia un modello sia un anti-modello.

Trascendere il dilemma dello sviluppo

Durante la presidenza di Mohammad Khatami, l’Iran ha seguito un non-modello, una traiettoria di sviluppo che non era basata su un progetto specifico. Khatami ha rifiutato il modello unilineare ed omogeneizzante della modernità, ma allo stesso tempo non ha aderito ad una rigida interpretazione dell’identità locale o delle tradizioni. Khatami si è allontanato da immagini di sviluppo e convinzioni del passato in favore di un percorso maggiormente adattabile alla modernità. Egli credeva che l’Iran dovesse modellare il proprio tipo di modernità, basato sull’identità nazionale e sulla propria esperienza storica e rivoluzionaria. Tuttavia, ricorrere ai risultati occidentali era importante anche al fine di rispondere alle richieste di riforme democratiche. Nonostante il programma di riforme non abbia dato pienamente i suoi frutti, ha stimolato in Iran il dibattito, l’amministrazione, l’economia e le relazioni internazionali.

Lo sviluppo iraniano rimarrà un processo in divenire fatto di interazione tra schemi dal valore universale e specifici codici culturali. Per questo abbiamo bisogno di una comprensione più pluralistica della modernità che porti ad una visione più ampia del processo di modernizzazione, inserendolo in un contesto a lungo termine di adattamento culturale dei complessi di civiltà di fronte alla sfida della modernità. Il contemporaneo clima politico promuove un universalismo che non riflette le trasformazioni che stanno prendendo forma in modo indiscriminato, né supporta le differenti tradizioni culturali del mondo non-occidentale. L’era di una modernità fissa, eurocentrica e non riflessiva è sul punto di giungere alla propria fine. Nuove modernità sono richieste, in modo che lo stesso concetto di modernità possa crescere con il contributo di nuove voci ed esperienze. Solo in questo modo potremo ammirare un vero “villaggio globale”.

L’attuale logica dell’impegno

L’attuale leadership iraniana è cosciente della necessità di cambiamento rispetto alle desolanti antinomie del passato. I principi e le considerazioni che hanno guidato Khatami non sono rifiutate dall’attuale leadership. Sarebbe semplicistico presumere che l’Iran non sia consapevole della necessità di evolversi e di adattarsi alle realtà sociali, civiche, economiche e globali. La domanda è: come può l’Iran spianare la strada al proprio sviluppo nel contesto di una campagna globale per “addomesticare” Teheran o per spingerla a soccombere alle richieste occidentali? Come può l’Iran seguire il percorso di sviluppo al quale è arrivato Khatami se deve continuamente affrontare una minaccia esistenziale dall’esterno? Se l’Iran sostiene una via praticabile alla modernità, gli Stati dominanti del Nord Atlantico e dell’Europa Occidentale devono riconoscere l’eterogeneità della sua esperienza di modernizzazione.

Noam Chomsky lo ha detto schiettamente: “L’Iran deve essere punito perché si è liberato dal controllo statunitense nel 1979”. Sembra che l’Iran sia stato contrastato per non essere capitolato agli interessi occidentali e per aver perseguito una varietà non occidentale di modernità. L’attuale logica di ingaggio in relazione all’Iran è stata negativa: sanzioni opprimenti, minacce di intervento militare, guerra cibernetica, sforzi per cambiare il regime ed azioni sotto copertura con lo scopo di destabilizzare il governo sotto la guisa della democrazia. Nel tentativo di giustificare l’atteggiamento egocentrico nei confronti dell’Iran, l’Occidente ha semplificato la presidenza di Mahmoud Ahmadinejad come un’epoca di revivalismo rivoluzionario con scenari apocalittici. Il fatto è che l’atteggiamento occidentale non era differente all’epoca del presidente riformista Mohammad Khatami: fu sotto la sua leadership che l’Iran fu definito un membro dell’asse del male.

Il discorso iperbolico riguardo al programma nucleare iraniano rappresenta una pericolosa campagna che può effettivamente provocare una corsa agli armamenti, spingendo Stati regionali a sviluppare capacità di deterrenza strategica. Ciò di cui vi è bisogno è una nuova logica che ci permetta di andare oltre il tipo di egocentrismo che ha generato quel mondo ostile, sul quale si è basata la visione di Samuel Huntington di un incombente scontro di civiltà. La logica di una monocultura globale (come la “fine della storia” di Francis Fukuyama) e la scrittura di una storia universale non corrispondono alla realtà sul terreno. Nonostante si stia verificando uno scontro di interessi geopolitici e strategici, le civiltà non si stanno scontrando, la storia non è sul punto di terminare e non si intravede un punto finale d’universalismo o di omogeneizzazione.

L’Occidente potrebbe incoraggiare lo sviluppo iraniano riconoscendo che la Repubblica Islamica non ha precedenti nella storia moderna, ed in quanto tale rimane un “work in progress”. Il fu Fred Halliday ci ricorda che lo sviluppo occidentale è rimasto un “lavoro in corso” per diversi anni: Fukuyama, come molti altri in Occidente, ha sovrastimato il modo in cui molti Stati hanno conseguito la democrazia, la quale non è stata un evento improvviso, bensì un processo graduale durato decine e centinaia di anni. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno necessitato trecento anni e tre guerre per spostarsi dalla tirannia al tipo di democrazia qualificata che hanno adesso… La politica liberale non è un atto unico che conferisce carattere definitivo ad un sistema politico. Nessuno può essere certo che una democrazia sia ragionevolmente stabile, a meno che non sia stata instaurata da almeno una generazione: molte sono apparse soltanto per scomparire. Chiaramente lo sviluppo istituzionale non è qualcosa che può essere raggiunto nell’arco di una notte. Tuttavia, le pressioni negative hanno la tendenza a radicalizzare anche gli elementi più moderati della società e a creare un senso di insicurezza che può effettivamente impedire ogni forma di sviluppo democratico. Ciò che risulta chiaro è che l’impasse iraniana, sia a livello globale sia nazionale, è in parte una funzione di questa negativa logica di ingaggio.

Una nuova logica di ingaggio

La logica proposta di ingaggio rappresenta un impegno creativo: esso genera un dialogo e delle misure di costruzione della fiducia basate sulla buona volontà. E’ il momento di mettere via le carote e i bastoni: gli iraniani non sono conigli. La nuova logica dovrebbe essere basata sulla nozione dell’unità nella diversità, permettendo ai paesi di modellare il proprio ruolo, basato su diverse caratteristiche culturali, all’interno del villaggio globale.

Fino a quando gli Stati dominanti del Nord Atlantico e dell’Europa Occidentale non accetteranno il fatto che la modernità presenta traiettorie multiple, il mondo rimarrà polarizzato. Se l’Occidente avesse riconosciuto l’Iran nella sua nuova forma di repubblica islamica nel 1979, come una particolare lega di teocrazia democratica, è probabile che oggi Iran e Occidente avrebbero relazioni migliori. E’ altrettanto plausibile che se all’Iran fosse stato permesso di seguire il proprio percorso di sviluppo, basato sulla sua esperienza storica, rivoluzionaria e culturale e sulla sua identità civica e nazionale, libera da interferenze, pressioni o sabotaggi dall’esterno, ci sarebbe stata una maggiore convergenza naturale o una assimilazione con l’Occidente rispetto alla totale polarizzazione a cui assistiamo oggi.

Il dialogo nella pratica

Viviamo in un villaggio globale con una grande interconnettività: un villaggio globale in cui c’è più diversità ma meno uniformità, e perciò necessitiamo di una modernità pluralistica che incoraggi gli Stati a modernizzarsi, in accordo con le proprie tradizioni distintive. Fino a quando gli Stati del Nord Atlantico e dell’Europa Occidentale non controlleranno il loro impulso uniformante, lo sviluppo iraniano (e lo sviluppo non-occidentale) continuerà ad essere un’impresa difficile.

La situazione attuale ci impone di perseguire una politica di dialogo tra le civiltà. Questo dialogo ha bisogno di essere fondato su un effettivo scambio dialogico, senza la tendenza a dominare, coartare o assimilare l’altro e senza pregiudizi. I critici hanno etichettato l’idea del dialogo tra civiltà come idealistica o astratta. È giunto il momento di articolare la potenzialità del dialogo come una nuova logica di ingaggio. Il caso iraniano rappresenta l’opportunità per andare oltre le dichiarazioni retoriche e applicare il “dialogo” ad una concreta agenda politica.

(Traduzione dall’inglese di Riccardo Gavioli)