Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Splendore della natura e del corpo umano nelle pagine incantate di H. Melville

Splendore della natura e del corpo umano nelle pagine incantate di H. Melville

di Francesco Lamendola - 05/12/2012




 

Le isole dei Mari del Sud: quale fascino evocano immediatamente queste parole; quale abbondanza di lussureggiante vegetazione tropicale, di tramonti incendiati dalle nuvole purpuree, di terse lagune coralline e giganteschi coni vulcanici emergenti dall’oceano e solcati da ripide cascate; quale inesprimibile incanto nel sorriso delle bellissime fanciulle polinesiane!

Herman Melville (New York, 1819 - ivi, 1891) nel 1841-42 partecipò, come marinaio, a una battuta di pesca nei Mari del Sud, partita da New Bedford, nel Massachusetts, con la baleniera «Acushnet»; giunto all’isola di Nuku Hiva, nelle Isole Marchesi (che proprio in quelle settimane navi da guerra francesi stavano annettendo al regno di Luigi Filippo) decise di disertare, con un compagno, per sottrarsi alle durissime condizioni di vita che vigevano a bordo. Solo dopo molte avventure e peripezie, fra l’altro correndo il rischio di essere ucciso dai cannibali, nel 1843 riuscì a  raggiungere, per le Isole della Società, le Hawaii, e, di lì, a tornare in patria, doppiando il Capo Horn e rientrando a Boston nel 1844.

La sua esperienza nelle isole del Pacifico meridionale gli ispirò poi due libri nei quali, in forma romanzata, descrisse quanto aveva visto e vissuto: «Typee», nel 1846, ed «Omoo», nel 1847; libri che, se non possiedono il vigore e la straordinaria profondità del suo futuro capolavoro, «Moby Dick o la balena bianca» (apparso nel 1851), sono tuttavia freschi, vivaci, pieno di stupore e di entusiasmo, pervasi da un senso quasi edenico di comunione con la natura e attraversati da una vena di robusta sensualità, che mette in risalto la bellezza non solo dei luoghi, ancora selvaggi e incontaminati, ma anche dei corpi degli indigeni e delle giovani indigene, snelli, atletici, pieni di grazia e di armonia nelle movenze, agili e scattanti come quando, nelle acque di un lago, le maliziose fanciulle giocano come altrettante sirene e paiono trasportare il lettore in un’altra dimensione della realtà, dove tutto è possibile, anche la comparsa di fate e folletti, come nella magica atmosfera del shakespeariano «Sogno d’una notte di mezza estate».

Una ennesima versione del mito del “buon selvaggio”, dunque, favorita anche da una geografia che sembra quella del Paradiso Terrestre, grandiosa ma al tempo stesso affascinante, dominata da foreste e da cascate che paiono appena uscite dalla mano della divinità, vivide e pulsanti come il primo giorno della creazione del mondo? Non proprio; perché Melville, viaggiatore incantato ma non ingenuo, è troppo scaltrito, troppo figlio del XIX secolo per non saper vedere le due facce della medaglia, per non cogliere le ombre insieme alle luci, per non intuire che una linea incerta e sottilissima separa quel Paradiso Terrestre da un possibile Inferno senza scampo e senza redenzione. Gli indigeni gli sono simpatici e godono di tutta la sua ammirazione; le fanciulle, poi, che giocano e scherzano con i due uomini bianchi con finta innocenza, e tanto più seducente quanto più essa è ambigua, sono pur sempre dei cannibali; egli ne difende la reputazione agli occhi dei propri connazionali benpensanti e risolutamente mette a confronto la loro semplicità e immediatezza con la sottile perfidia degli uomini bianchi; ma non dimentica, neanche per un solo istante, che la sua vita è in pericolo e che quei gioviali isolani, così ammirevoli nel loro abbandono di figli della natura, sono tuttavia capaci di repentini voltafaccia e che potrebbero, da un momento all’altro, uccidere a tradimento i loro ospiti inattesi e cuocerli alla fiamma, per i loro terribili banchetti a base di carne umana.

Così, dunque, Melville rievoca quel doppio splendore, della natura tropicale e dei corpi delle danzatrici polinesiane, rispettivamente nel capitolo settimo e nel capitolo ventesimo del suo libro di ricordi «Typee: uno sguardo alla vita della Polinesia», immergendoci in un’aura fiabesca e mostrando, al tempo stesso, doti notevoli di osservatore etnologico (titolo originale: «Typee. A Peep at Polynesian Life», 1846; traduzione dall’inglese di Franco De Poli, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1969, pp. 65-66 e 174):

 

«… mi accadde di muovere un ramo, e così facendo dischiusi inaspettatamente alla mia vista una scena che anche ora posso richiamare alla memoria con tutta la vivida chiarezza della prima impressione. La vista di uno scorcio dell’Eden non avrebbe potuto rapirmi altrettanto.

Dal punto in cui giacevo, colmo di gioia e di stupore, potevo guardare dritto nel fondo di una valle che correva verso le azzurre acque lontane. A metà strada fra me e il mare, sparse tra il fogliame lussureggiante, le capanne degli isolani dai tetti di palmetto, calcinate sotto il sole, facevano capolino costeggiando lo splendente paesaggio. La valle di estendeva per più di tre leghe in lunghezza e circa un miglio in larghezza nel suo punto più ampio.

Da entrambi i lati appariva fiancheggiata da ripidi e verdi pendii che, congiungendosi in prossimità del mio punto di osservazione, formavano un anfiteatro di rocce scoscese alte circa trenta metri e solcate da una quantità innumerevole di cascatelle. La bellezza dello scenario culminava nella sua rigogliosa vegetazione che ammantava tutto di verde; proprio nella vegetazione io credo consista tutto il fascino particolare dei paesaggi polinesiani. Ovunque sotto di me, dal ciglio del precipizio al cui limitare ero stato inconsapevolmente tutto quel tempo, sull’intera superficie della valle, il fogliame appariva dispensato con una tale profusione, che sarebbe stato impossibile descriverne le infinte gamme.

Ma forse nulla mi colpì come quelle dolci cascatelle che, dopo aver saltellato per i ripidi declivi, scomparivano in miriadi di rigagnoli nell’esuberante vegetazione della valle.

Su tutto regnava una pace così silenziosa che quasi temevo, con una sola parola, A lungo giacqui rapito […].

Le ragazze spesso ballavano al chiar di luna davanti alle loro case. Ci sono infiniti tipi di danze alle qual, però, non ho mai veduto gli uomini prendere parte. Consistono nelle più vivaci e maliziose evoluzioni che coinvolgono nell’esecuzione tutte le parti del corpo. Le ragazze marchesane danzano per così dire dappertutto: non solo i piedi, ma le braccia, le mani, le dita, persino gli occhi danzano nei loro volti. In realtà, le loro forme fluttuano, i colli s’inarcano, le braccia nude si flettono e tutto, in tal modo, mentre esse scivolano leggere e turbinano nell’aria, che era quasi eccessivo per un ragazzo docile, tranquillo e sobrio come me.

Le damigelle non indossano che fiori oltre al loro succinto gonnellino di gala; e, quando si pavoneggiano nella danza, esse appaiono come uno stuolo di polinesiane silfidi che stiano per spiccare il volo. »

 

Non meno stupito e ammirato, non meno lucido e attento è lo sguardo di Melville allorché si posa sui ruderi delle misteriose, ciclopiche e vetuste costruzioni di pietra che sono sparse nelle valli dell’isola di Nuku Hiva, così come in altre località delle Marchesi e dell’intera Polinesia (Op. cit. cap. XXI, pp. 177-78):

 

«Tornando un giorno dalla fonte per un nuovo sentiero, vidi uno scenario che mi fece ricordare le architetture dei Druidi a Stonehenge.Una serie di vaste terrazze in pietra si elevavano a gradoni su un largo tratto alla base della montagna, circondato da fitti boschi. Queste terrazze erano lunghe non meno di un centinaio di metri e larghe venti.  La loro imponenza tuttavia era meno sbalorditiva della dimensione dei blocchi che le componevano. Alcuni, di forma oblunga, misuravano dai tre ai cinque metri in lunghezza e un paio in spessore. Le superfici erano lisce, ma quantunque squadrate e di forma regolare, non presentavano segni di scalpello. La terrazza superiore  e quella di base erano costruite in modo particolare: entrambe avevano nel centro una depressione quadrangolare di circa un metro più bassa. Alberi giganteschi affondavano le radici nelle fessure tra una pietra e l’altra, e i rami si innalzavano e si intrecciavano in una cupola quasi impenetrabile ai raggi del sole. Una selva di rampicanti si estendeva da un tronco all’altro arrivando a soffocare, con la sua invadenza e in consorzio con fitti arbusti, il mare di pietrame. Un aspro sentiero attraversava obliquamente due di queste terrazze; ma era così profonda l’ombra e densa la vegetazione che chi non fosse stato pratico del posto avrebbe potuto passare di là senza accorgersi della loro esistenza.

Queste costruzioni portavano i segni dell’antichità, e Kory-Kory, che era il mio consulente in tutte le materie di ricerca scientifica, mi diede ad intendere che esse risalivano alla creazione del mondo, che gli stessi dèi ne erano i costruttori e che sarebbero durate quanto il tempo. La pronta spiegazione di Kory-Kory e l’attribuzione dell’opera a un’origine divina, mi convinsero che né lui né i suoi compagni sapevano nulla di preciso al riguardo.

Mentre contemplavo questi monumenti, senza dubbio eretti da una razza estinta e dimenticata, ora sepolti in un angolo remoto del mondo e ignorati sino a ieri, fui sopraffatto da un senso di venerazione, come se fossi ai piedi dell’imponente piramide di Cheope. Non c’erano sculture, iscrizioni, indizi dai quali ricostruire la sua storia: null’altro che mute pietre. Quanto di questi alberi maestosi che le custodiscono nella loro ombra avrebbero dovuto aver compiuto il loro ciclo ed essere ormai diventati fossili, dal giorno della loro costruzione!

Queste reliquie fanno pensare. Danno un’idea dell’età dell’isola, argomento sempre controverso fra gli studiosi della formazione degli arcipelaghi nei Mari del Sud…»

 

Anche se oggi sappiamo, o crediamo di sapere, che quelle ciclopiche costruzioni sono meno antiche di quel che non credesse il giovane marinaio americano, e anche se ormai sono in pochi a vedere in esse le ultime vestigia dello scomparso continente di Mu, che un tempo signoreggiava al centro del Pacifico, lo stupore ammirato e il rapimento estatico che prova al loro cospetto il viaggiatore moderno, non sono meno intensi di quelli che Melville provò e che seppe descrivere con sì fervida e commossa partecipazione nelle pagine del suo libro.

Ma sono soprattutto la grazia e la freschezza impareggiabili di quei giovani corpi femminili a suscitare in lui le più forti emozioni, che riesce a trasmettere al lettore con la massima naturalezza ed evidenza, attraverso uno stile semplice e piano che non indulge ai facili effetti retorici (Op. cit., cap. XVIII, p.152):

 

«Talora andavamo a goderci il bagno nelle acque di un lago in miniatura ne quale si gettava il torrente della vale. Questo suggestivo specchio d’acqua era di forma circolare e il suo diametro più o meno di trecento metri. La sua bellezza era indescrivibile. Attorno, le sue rive traboccavano di lussureggianti masse di vegetazione tropicale, al di sopra delle quali si innalzavano, qua e là, i tronchi lunghi e diritti dei noci di cocco con le loro chiome spioventi somiglianti a piume di struzzo ondeggianti al vento.

L’agilità e la grazia con cui le ragazze della valle filavano sull’acqua, e la loro dimestichezza con l’elemento, erano sorprendenti. Alcune volte scivolavano appena sotto la superficie, senza muovere in apparenza nemmeno un arto; poi, girandosi su un fianco, guizzavano via con rapidità, e a tratti liberavano nell’aria i loro corpi; quindi si tuffavano a capofitto verso il fondo, ma ecco di colpo invertivano la rotta e guizzavano nuovamente alla superficie.»

Eppure la forza evocativa di queste descrizioni, per quanto scaturisca dalla pura contemplazione della bellezza arcana d’una natura primigenia, non si esaurisce interamente nel dato esteriore, per quanto amorevolmente colto e partecipato; ma rinvia silenziosamente, con un movimento ampio e tuttavia quasi impercettibile, ad altri paesaggi e ad una più segreta e ancor più affascinante geografia: quella dell’interiorità, quella del mistero che giace al fondo di noi stessi.

Il viaggio di Melville attraverso le valli e le foreste di questo Eden polinesiano è, in ultima analisi, una cosciente discesa nelle caverne sottomarine dell’anima, con le loro trepidanti inquietudini e con la loro struggente attesa d’una ineffabile rivelazione. Se così non fosse, quelle pur seducenti descrizioni di luoghi e di giovani corpi non avrebbero, come invece accade, il potere di suscitare in noi un godimento, sì, estetico, ma anche spirituale, nel senso più puro e delicato della parola.