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Se la vita quotidiana è rappresentazione, come difendere l’autenticità del Sé?

di Francesco Lamendola - 06/12/2012




 

Anche se non è conosciutissimo presso il grande pubblico, il nome del sociologo canadese Erving Goffman meriterebbe di esserlo, perché le sue riflessioni e le sue tesi circa la vita quotidiana come rappresentazione, specialmente nell’ambito delle società urbane, costituiscono un punto di svolta del pensiero antropologico contemporaneo e sono una fonte pressoché inesauribile di ulteriori riflessioni, anche per chi voglia criticarle o si rifiuti di condividerle.

Nato in Canada, ma formatosi nell’ambiente universitario di Chicago, egli ha messo a rumore l’ambiente dell’antropologia accademica con i suoi studi e le sue tesi innovative e un po’ provocatorie; come antropologo, ha condotto solo tre ricerche “sul campo”: presso i contadini delle Isole Shetland, in Scozia, poi in un ospedale psichiatrico di Washington e infine nelle sale da gioco di Las Vegas; tuttavia le sue pubblicazioni, e specialmente «La vita quotidiana come rappresentazione», fanno di lui soprattutto un teorico dell’antropologia e, in un certo senso, un filosofo sociale, più che un antropologo o un sociologo nel senso stretto dei termini, nel senso che si prestano a riflessioni e dibattiti di portata estremamente ampia.

La tesi di fondo di quel libro di Goffman, come suggerisce il titolo, è che nella vita quotidiana delle persone, e specialmente nell’ambiente urbano, vi è una larghissima percentuale di rappresentazione, ossia di gestione intenzionale del proprio apparire nei confronti degli altri; e ciò sia per le esigenze medesime della vita associata, come avviene nel commercio, negli uffici dell’amministrazione pubblica, nelle professioni, nei servizi, sia per la tendenza a presentare di sé la “maschera” che ciascuno ritiene più desiderabile, al fine di influenzare l’opinione altrui in senso favorevole alla propria persona e al proprio ruolo.

Un notissimo uomo politico italiano, proveniente dal mondo dell’impresa privata, all’approssimarsi dell’appuntamento elettorale, aveva spedito per posta, nelle case di milioni di famiglie, un libro in carta patinata e corredato da grandi fotografie a colori, nel quale si raccontavano la storia della sua vita, i suoi successi, la sua smagliante felicità coniugale e familiare; in cui egli appariva sempre fiducioso e sorridente, sullo sfondo di ville con giardini bellissimi e con piscine da sogno, evidentemente per suggerire l’idea che un uomo così ricco, così abile e così fortunato avrebbe portato tali caratteristiche anche nella propria azione pubblica e, quindi, sarebbe stato il candidato ideale a svolgere le funzioni di capo del governo.

Certo, si tratta di un caso limite; ma sappiamo bene che tutti gli uomini politici, anzi, tutti gli uomini che hanno pubbliche responsabilità, o aspirano ad averne, come i candidati sindaci di qualunque cittadina di provincia, adottano volentieri delle strategie auto-promozionali solo di poco più raffinate di quelli dei vecchi imbonitori da fiera; e, se in tali casi è piuttosto palese la rappresentazione che di sé vogliono dare, in altri, specie quando si tratta di normali rapporti privati fra due o più persone, la cosa non è altrettanto evidente.

La vita stessa, per Goffman – idea che sarebbe piaciuta a Pirandello, e ci chiediamo, anzi, quanto la concezione delle “maschere nude” dello scrittore siciliano possa aver influenzato l’antropologo canadese, così come certamente lo ha influenzato la sociologia di Durkheim -, è, sostanzialmente, una specie di teatro, anche nel senso tecnico e materiale dell’espressione. Si prenda il casi di un locale pubblico, di un ristorante, di un ufficio, di un negozio: esistono un “dentro” e un “fuori”; il primo riservato esclusivamente a chi lavora in tali ambienti, proprio come le quinte di un teatro, il secondo destinato alle relazioni con il pubblico, come lo è, per un attore, lo spazio “aperto” del palcoscenico. Il cameriere, per esempio, passa dalla cucina alla sala da pranzo, e il suo contegno nei due diversi ambienti è, normalmente, assai diverso: nel primo, non osservato, egli può concedersi di apparire stanco o rilassato; nel secondo, quando si muove sotto gli sguardi di tutti gli avventori, si impone un comportamento professionale e sicuro di sé.

Oltre a quella che Goffman chiama la “facciata personale”, ciascun individuo ha la possibilità di giocare la propria maschera (ma quest’ultimo termine lo adoperiamo noi, per maggiore chiarezza) anche sfruttando l’”ambientazione”, ossia scegliendo il tipo di spazio in cui collocarsi. Possiamo rendere questo concetto pensando alle vecchie fotografie eseguite negli studi fotografici, nelle quali il ritratto del cliente veniva eseguito sullo sfondo di un particolare ambiente. Oggi, per un professionista, la strategia della “ambientazione” consiste nello sfruttare l’effetto che può produrre l’arredamento della sala d’aspetto del suo ufficio o del suo ambulatorio, e soprattutto quello dello studio: una biblioteca fornita di bei volumi e di enciclopedie rilegate in pelle e con il dorso inciso in caratteri dorati, si presta a suggestionare gli estranei, suggerendo che il proprietario di tali locali deve essere una persona colta e ben preparata, uno studioso, un intellettuale (anche se, magari, quei libri sono finti e di essi esiste solo la “facciata” di cartone).

Oppure si pensi alla visita nella casa di un amico, in cui ci si reca per la prima volta. Molte persone ci tengono a fare buona impressione di sé, offrendo al visitatore l’immagine di una casa perfettamente pulita e  ordinata, oltre che arredata con gusto e con “personalità”, ossia con un certo qual tocco originale. Vi sono persone che si rifiutano di ricevere l’ospite giunto senza preavviso, per non farsi sorprendere con la casa in disordine: non tollerano che quei vestiti gettati sulle spalliere delle sedie, quei libri ammucchiati sul tavolo, quei piatti e quelle stoviglie non rigovernati, che ingombrano il secchiaio, depongano a sfavore del decoro dell’abitazione e che, indirettamente, possano incrinare l’immagine “perfetta” che il padrone o la padrona di casa vogliono che tutti abbiano di loro.

E, se questo è vero per la casa, per l’ufficio o, in generale, per l’ambiente di lavoro, a maggior ragione lo è per la persona stessa, in quanto essa dice agli altri circa il carattere, il buon gusto, la sicurezza di sé molte cose che, se possibile, si desidera indirizzare in un senso prestabilito: a ciò servono le lunghe ore dal parrucchiere o dall’estetista, la scelta accurata degli abiti da indossare, perfino l’espressione del viso o l’andatura della camminata, che, spesso, non sono affatto casuali, anche se si vorrebbe che appaiano tali.

Uno degli espedienti più diffusi, infatti, secondo Goffman, è appunto quello di presentare i propri atteggiamenti come casuali, in modo che depongano a favore della autenticità di chi li assume, mentre sono frutto di una lunga e minuziosa preparazione: ciò dipende dal fatto che le persone desiderano influenzare positivamente l’immagine di sé che danno agli altri, e, per riuscirci, pensano che sia più efficace lasciarsi “sorprendere” in situazioni e modi di fare che paiono scaturire dal caso, anche se così non è, anzi se è vero il contrario, perché si presume che la spontaneità, per definizione, debba testimoniare la lealtà di un essere umano.

Tutti sanno che nei teatri, nei salotti delle trasmissioni televisive, nei dibattiti pubblici, nelle conferenze e nelle “dimostrazioni” di tipo commerciale, in mezzo al pubblico si insinuano dei personaggi che fingono di essere lì per caso, come tutti gli altri, mentre invece si tratta di soggetti che agiscono occultamente d’intesa con colui che parla, applaudono al momento giusto, fanno commenti favorevoli nei suoi confronti, gli pongono le domande più utili per lui, avendole concordate in precedenza: tutto questo per creare intorno a lui una atmosfera complice ed amichevole e, così facendo, per suggestionare e influenzare la percezione altrui.

Questo è un altro esempio del fatto che non possiamo essere troppo ingenui allorché ci poniamo davanti a una persona che vuole trasmetterci di sé una determinata immagine, perché dovremmo sempre domandarci se egli non stia adottando delle raffinate strategie, esplicite o implicite, per influenzarci favorevolmente nei suoi confronti.

La cosa diventa più difficile da riconoscere allorché ci si trova non davanti ad una singola persona, ma ad un gruppo organizzato: una ditta commerciale, un comitato di redazione, la sezione o il comitato di un partito politico. In tal caso si assiste a una rappresentazione collettiva, sincronizzata, diretta ad un unico fine: non smentire mai la linea del gruppo; convincere e influenzare positivamente il pubblico; fornire l’immagine di un insieme coeso, sereno, efficiente.

Ulf Hannerz, docente di Antropologia sociale all’Università di Stoccolma, tratta le tesi di Goffman nella sua notevole monografia «Esplorare la città. Antropologia della vita urbana» (titolo originale: «Exploring the City. Inquiries Toward an Urban Anthropology», Columbia University Press, 1980; traduzione dall’inglese di Antonella Meo nella edizione italiana a cura di Arnaldo Bagnasco, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 353-58):

 

«Nel momento in cui entrano in contatto, le persone possono già avere qualche idea, più o meno fondata, su chi sia l’altro e a chi assomigli. In altri casi, le persone dipendono esclusivamente dai flussi di comunicazione che si verificano nella situazione in cui si trovano. Con termini correnti, si può distinguere, nell’ambito delle informazioni su se stesso che un individuo mete a disposizione degli atro, ciò che è intenzionale da ciò che non lo è; ovvero, con le parole di Goffman, ciò che egli “esprime” intenzionalmente e ciò che “lascia trasparire”. La distinzione è però troppo semplicistica, in quanto una  persona può fornire un’informazione in modo che possa apparire non intenzionale. Il vantaggio di tale comportamento deriva dal fatto che spesso gli individui danno maggior fiducia alle informazioni che non appaiono totalmente controllate da chi le fornisce. Ai fini del controllo delle impressioni, questa è dunque una risorsa strategica. Goffman è interessato a descrivere in dettaglio gli sforzi compiuti dagli individui, più o meno consapevolmente, per presentare un’immagine di sé che sia al contempo vantaggiosa per loro e credibile per gli altri. Questi ultimi presumibilmente penseranno di essersi formati una propria opinione in base a quanto hanno potuto vedere.

Tutte le attività svolte da un individuo durante il lasso di tempo in cui si trova in presenza di altri, e tali da esercitare una certa influenza su di essi, sono definiti con il termine “rappresentazione” (“performance”). Il repertorio espressivo che l’individuo utilizza in tali situazioni costituisce la sua “facciata”, che a sua volta comprende “l’ambientazione” e la “facciata personale”. […]

Il controllo delle impressioni è in parte una questione individuale; talvolta però accade che un gruppo di persone  collabori nell’inscenare una rappresentazione destinata ad altri. Il successo della rappresentazione richiede attori che si conoscano bene fra loro e come gruppo, e che si siano accordati su ciò che deve essere nascosto o minimizzato, e, almeno tacitamente, su quali informazioni  devono essere trasmesse. […]

Considerare la vita sociale intermini di impressioni »trasmesse esplicitamente e in termini di impressioni lasciate trasparire, di rappresentazione, ambientazione, facciata personale, palcoscenico e quinte, compagnie di attori e pubblico, significa anche avere un’idea precisa di ciò che conta per conseguire il successo. Nell’ultima parte de “La vita quotidiana come rappresentazione”, Goffman enumera tre tipi principali di attributi e di tecniche necessari per ottenere un controllo delle impressioni soddisfacente. Si tratta in primo luogo della lealtà drammaturgica. Gli attori di una compagnia non devono tradire la linea d’azione concordata sia durante la rappresentazione, che nell’intervallo tra una rappresentazione e l’altra. Ci si deve rivolgere con prudenza alle persone cui non si può affidare un segreto, come i bambini nel gruppo familiare. Allo stesso modo, la compagnia non può tollerare gli attori che, durante la rappresentazione, decidono di mettere in scena un loro spettacolo a scapito di quello comune. Più importante ancora è la necessità di impedire agli attori di sviluppare una simpatia per gli uditori tale da svelare loro tutto sulla rappresentazione.

In secondo luogo è necessaria la disciplina drammaturgica. Un attore deve conoscere la sua parte e attenersi a essa. Deve essere in grado »di evitare per quanto possibile gli incidenti di scena e, nel caso in cui si verifichino, riappropriarsi del ruolo assegnatogli il più rapidamente possibile. Egli inoltre non deve lasciarsi assorbire dalla sua parte al punto da dimenticare di essere in scena. Ancora una volta, il cameriere non deve essere solo un buon cameriere, ma anche accertarsi di essere percepito come tale.

Per ultimo, è necessaria la circospezione drammaturgica. L’attore deve sapere quando è in scena e quando può invece rilassarsi. Deve saper valutare la rappresentazione: è utile ai suoi fini, in caso di successo? Offre una ragionevole possibilità di uscirne? Dispone della compagnia e del pubblico giusti? Per essere ragionevolmente sicuro del successo è consigliabile che la rappresentazione non sia troppo complicata e difficile da condurre.»

 

Come si vede anche da queste poche righe, una delle parole-chiave che ricorrono nel vocabolario di Goffman è “successo”, ciò che la dice lunga sulla vicinanza del suo punto di vista con quello delle agenzie di marketing, cioè con la volontà di vendere al pubblico una quantità sempre maggiore di prodotti, siano essi beni o servizi.

Peraltro, concetti come quello della “fedeltà drammaturgica”, che pure sono piuttosto scontati se si assume un’ottica eminentemente commerciale, sollevano questioni etiche di non lieve momento: fino a che punto deve spingersi tale fedeltà verso i propri compagni di ”recitazione”? Possiamo capire facilmente, ad esempio, che, in una certa azienda, lo spionaggio industriale a favore di un’azienda concorrente sia una pratica inammissibile e che essa debba tutelarsi, allontanando i propri collaboratori infidi e disonesti, pronti a vendere, per denaro, i segreti di fabbricazione. Ma tale fedeltà al gruppo deve precedere ogni altra considerazione, deve scavalcare ogni altro senso del dovere verso terzi o verso la comunità? Ad esempio, se un membro del gruppo viene a sapere che l’azienda immette sul mercato prodotti dannosi per la salute dei consumatori, deve tacere e tenersi per sé il compromettente segreto, al fine di non danneggiare gli interessi dell’azienda? Se così fosse, ci troveremmo in presenza di un codice di fedeltà alla rovescia, simile, in tutto e per tutto, a quelli che sono propri delle organizzazioni criminali.

Inoltre, il fatto che il gruppo debba agire come una compagnia di attori ben affiatati, mostrando all’esterno solo quella parte di realtà che ritiene utile ai suoi interessi, può dar luogo a delle situazioni ambigue e moralmente discutibili: infatti, il principio della manipolazione della propria immagine è in se stesso un principio che si presta ad essere usato nel bene come nel male, essendo prevalente, in esso, non il valore del fine, ma il raggiungere quest’ultimo con qualunque mezzo e, preferibilmente, al minor prezzo possibile.

Nel film «La stangata», diretto dal regista George Roy Hill nel 1973, due truffatori organizzano una gigantesca “stangata” ai danni di un boss della malavita, mettendo in scena una finta agenzia di scommesse, nella quale la loro vittima, venuta in possesso di informazioni riservate, crede di realizzare un grosso guadagno, mentre invece viene ripulita di una somma ingente e si trova con un pugno di mosche in mano. In un certo senso, la tecnica della “rappresentazione di gruppo” si basa su un modello comportamentale dello stesso genere: chi ci assicura di non essere continuamente esposti ad abili raggiri, a truffe ben organizzate e curate fin nei minimi particolari, per farci cadere in inganno e lasciarci turlupinare?

Le questioni morali sono solo un aspetto delle problematiche che scaturiscono dalla teoria di Goffman della vita come rappresentazione. Ancora più rilevanti sono le implicazioni filosofiche: se la vita è una continua rappresentazione, nella quale tutti cercano di far passare una immagine ritoccata e, in ultima analisi, inautentica di se stessi, che spazio rimane alla lealtà, alla sincerità, alla trasparenza, nei rapporti interpersonali? Bisogna sempre stare in guardia e sospettare una possibile truffa, anche nei momenti di maggiore intimità ed abbandono, per esempio nell’ambito delle relazioni di  amicizia e di amore? E se, per uniformarsi all’andazzo generale e per non fare la fine dei vasi di coccio in mezzo ai vasi di ferro, tutti quanti finiscono per adottare la strategia della rappresentazione di se stessi, non succederà che, un poco alla volta, ci si dimentichi di essere quel che si è e si finisca per identificarsi con la propria maschera? In altre parole, come difendere l’autenticità del proprio Sé?

Sono domande difficili, domande scomode. In teoria, tutti magnificano il valore della sincerità; ma in pratica, secondo Goffman, più o meno tutti finiscono per adottare delle strategie onde manipolare l’immagine che gli altri hanno di loro, perché egli dà per scontato che tutti mirino al successo.

Ma che cos’è il successo? E può darsi il successo, laddove venga ignorata, sepolta, anestetizzata la propria parte più autentica, occultato il proprio vero Sé, e laddove vengano sistematicamente manipolati gli altri, comprese le persone più care, allo scopo di poterne controllare meglio le reazioni e, in ultima analisi, i loro sentimenti verso coloro di cui si fidano?

In realtà, come sempre, il successo o l’insuccesso non dovrebbero essere considerati come concetti astratti e buoni per tutte le stagioni, ma calati nella realtà concreta del mondo dei valori e delle convinzioni che è proprio a ciascun essere umano.

Per una persona spiritualmente poco evoluta, riuscire ad imbrogliare il prossimo, a fargli credere quel che non è, a manipolarlo in senso a lei favorevole, sarà considerato un successo; ma non così per la persona evoluta.

Per quest’ultima, la sincerità e la lealtà vengono sempre prima del proprio vantaggio personale, anche se vi è un prezzo da pagare per mantenersi fedeli ad esse e anche se si dovesse andare incontro a quello che, per il giudizio della gente comune, è un “insuccesso”.

Ma chi, se non la nostra coscienza illuminata dal mondo dei valori, ha il diritto di giudicare se il risultato che abbiamo raggiunto debba considerarsi un successo, oppure no?

Può sembrare una strada troppo malagevole, troppo idealistica; eppure si rifletta un momento: non è forse questa la sola via che ci permetta, in un mondo di recite e di apparenze, di preservare il nostro vero Sé, la parte più intima e preziosa di noi stessi, alla quale dobbiamo comunque fedeltà e rispetto?