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Non fare il bene è già fare del male, quando si è schiavi di un feroce egoismo

di Francesco Lamendola - 13/12/2012



 

Ne abbiamo già parlato in precedenti articoli e ci torniamo sopra, per la valenza paradigmatica del personaggio: Mirandolina, la locandiera della omonima commedia goldoniana, è veramente il tipo umano “moderno”: impastata di orgoglio e narcisismo; falsa e manipolatrice verso gli altri; incapace di bontà, non per fattiva propensione alla cattiveria, ma per l’assoluta impossibilità di oltrepassare la durissima scorza del proprio ego, che la tiene avvinta e la rende insensibile, cinica, vendicativa, incurante del male fatto.

Qualche critico letterario ha cercato di difenderla, sostenendo che in lei vi è, comunque, un mondo sentimentale, perfino una serietà sentimentale: certo, è possibile; ma serietà sentimentale e serietà morale non sono equivalenti. Si può essere serissimi sul piano sentimentale, nel senso di prendere terribilmente sul serio i propri sentimenti (ma non altrettanto quelli altrui), e tuttavia si può essere duri e tetragoni al vero senso morale: perché il senso morale è il riconoscimento del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, dunque non attiene alla sfera sentimentale, ma a quella dei valori e, ovviamente, a quella della volontà.

Mirandolina, nel gioco d’amore che intreccia con i suoi clienti-adoratori, ma specialmente con il più onesto e sprovveduto di tutti, il misogino Cavaliere di Ripafratta, non mostra la benché minima ombra di serietà morale: il suo gioco è irresponsabile, si disinteressa completamente delle possibili conseguenza, tutto quel che le importa è vincere, vincere sempre, vedersi adorata e corteggiata, avere tutti ai suoi piedi e godere di tutti quei trionfi, pur facendo mostra di disprezzarli – perché, alle altre pecche morali, bisogna aggiungere anche una suprema ipocrisia.

Certamente Goldoni non la idealizza; e, come è stato osservato, verso di lei, così come verso tutti gli altri personaggi femminili del suo teatro, egli mostra una caratteristica ambivalenza “catulliana”: odio e amore; attrazione e fuga; ammirazione e disprezzo. Non la vuole nemmeno caricare di significati troppo profondi: né lei, né alcun altro personaggio o situazione del suo teatro; Goldoni non è Racine, non è nemmeno Moliére: non bisogna chiedergli quello che non si è mai sognato di dare al suo pubblico. E non è stato nemmeno quel campione di indomita coerenza, nel condurre la sua “rivoluzione teatrale”, che ci vorrebbero far credere i libri scolastici e i suoi ammiratori viscerali: non disdegnava i facili espedienti per piacere al pubblico; e, nella polemica con il conte Gozzi e con l’abate Chieri, non è detto che avesse sempre ragione, e loro torto: così come, se ci è consentito il paragone, non è vero che Galilei avesse sempre ragione, mentre Orazio Grassi e gli altri astronomi gesuiti, da lui così grossolanamente attaccati nel «Saggiatore», avessero sempre torto (quanto alle comete, aveva torto lui di sicuro).

Riassumiamo per sommi capi la vicenda: Mirandolina, davanti all’unico cliente della sua locanda che non cade fulminato ai suoi piedi al primo sguardo assassino, il Cavaliere appunto, medita tremenda vendetta: «per vendicare il sesso femminile», dice lei – e qui giù tutte le antiche e recenti femministe a sbucciarsi le mani negli applausi per il suo “indomito coraggio”; però mente, mente a se stessa in primo luogo: quello che non sopporta è lo smacco fatto a lei, proprio a lei. Se il Cavaliere, dopo averla snobbata, cedesse al fascino di un’altra, lei ne sarebbe ancora più invelenita: non è vero che voglia vendicare il suo sesso oltraggiato dalla misoginia del Cavaliere, è il suo orgoglio che esige vendetta, che esige la rivincita piena e totale.

Dunque, giura a se stessa di far innamorare il Cavaliere; e ci riesce nella maniera più classica: mostrando di assecondare i pregiudizi di lui contro le donne, fingendosi anch’ella spregiatrice del proprio sesso e, così, instaurando con lui un’amicizia cameratesca; poi, una volta trovata la breccia nelle difese avversarie, non le resta che ampliarla un po’ alla volta, ricorrendo anche al colpo basso del finto svenimento quando lui, resosi conto di essere ormai innamorato, vorrebbe partite in tutta fretta per non farsi travolgere dalla passione, per non soffrire.

Qui, però, egli non ha fatto i conti con la vendicatività e con il sadismo di Mirandolina: ora che è riuscita nell’intento, il suo ego ipertrofico non può certo accontentarsi di una vittoria silenziosa, senza testimoni: no, bisogna che il Cavaliere lo proclami a voce alta, lo faccia sapere a tutti che è pazzamente innamorato di lei; bisogna che, umiliandosi davanti agli altri clienti, le offra riparazione per averla disprezzata; e, soprattutto, bisogna che lei gli affondi e gli rigiri ben bene il coltello nella piaga, deridendolo, facendosi beffe della sua sincerità, prendendolo al laccio delle parole contro le donne che egli aveva poc’anzi pronunciate, pur sapendo benissimo che lui, ora, sente in modo ben diverso, e che i suoi sentimenti verso di lei sono assolutamente sinceri e del tutto disarmati.  Solo allora egli potrà andarsene, marionetta ormai sfruttata ed inutile; solo allora ella potrà lasciarlo andare, anzi, sarà ben lieta di sbarazzarsi della sua ingombrante presenza. Di aver agito male; di aver giocato crudelmente con i sentimenti di un essere umano, non le importa: questo pensiero non la sfiora neppure, così come Galilei, nella troppo celebrata “favola dei suoni” del «Saggiatore», nemmeno si pone il problema di aver torturato, vivisezionato e ucciso la cicala, per cercar di capire come la bestiola producesse il suo frinire.

Scoppia, però, lo scandalo, e il gioco rischia di sfuggirle di mano: il Cavaliere, infuriato, minaccia di fare uno sproposito; Fabrizio, il servo della locanda che il padre di Mirandolina le ha consigliato di sposare, e che lei effettivamente sposerà (ma senza aver mai dato l’impressione, non diciamo di amarlo, ma neppure di stimarlo un poco), a sua volta chiede spiegazioni, si fa scalpitante; gli altri clienti accorrono, fra divertiti e spaventati: il gioco è andato troppo oltre, bisogna correre ai ripari, è in gioco la reputazione della bella locandiera, che finora aveva sempre scherzato col fuoco senza mai scottarsi, senza mai perdere il controllo della situazione, ossia la ferrea manipolazione del prossimo (al punto che i suoi clienti era già tanto se potevano aver da lei la grazia di riempirla di costosi regali, che lei faceva finta di disprezzare totalmente, mente invece giudicava tutti secondo la loro capacità di spendere in mance e regali).

A quel punto, il Cavaliere si rende conto che sta dando troppa soddisfazione a quella donna; che lei lo ha giocato, lo ha strumentalizzato come un burattino, lo ha girato a suo piacere per il suo solo divertimento: e, in un soprassalto di fierezza, parte a precipizio, maledicendo la donna che gli ha aperto in cuore una così profonda ferita, non per altra ragione che per godere del suo trionfo e assaporare la sua vendetta.

Se in Mirandolina vi fosse anche solo un’ombra di serietà morale, a quel punto proverebbe un po’ di rimorso e rivolgerebbe al Cavaliere quelle poche parole che basterebbero a lenirne l’acerba sofferenza: su questo tutti i critici di Goldoni sono d’accordo, anche quelli più favorevoli al personaggio di Mirandolina, come Ettore Caccia (C. Goldoni, «La Locandiera», a cura di E. Caccia, Brescia, La Scuola Editrice, «1964, pp.  19-22):

 

«Il Cavaliere di Ripafratta non si allontanerebbe infuriato dalla locanda se Mirandolina con qualche aperta parola di comprensione  e anche di affetto gli esponesse chiaramente la situazione  e lo invitasse alla rinuncia: il Cavaliere di Ripafratta stesso allude a questo in un suo monologo, la cui prima stesura, nella edizione Paperini,  era, per questo aspetto, ancora più utile e significativa. […] Invece, Mirandolina non dice al Cavaliere  le poche e decisive parole che tutto sistemerebbero proprio perché  la sua gioiosa e brillante sicurezza di donna del Settecento  si improvvisamente incrinata: nelle sue ultime battute  con il Cavaliere non è soltanto la caricata affettazione di disprezzo per spegnere quell’incendio che non serve più al suo disegno, ma è anche una violenza polemica più forte, ,di istinto, in cui è quasi il peso di una certa insoddisfazione e di una certa amarezza. Per questo ella non è il pur brillante personaggio immorale che si diverte e che beffa soltanto, è qualche cosa di più, è un’anima, come ha osservato l’Apollonio, che si ritira  impaurita davanti a quella passione romantica che ella ancora non comprende e che ancora quindi non può accettare. Serietà sentimentale di Mirandolina dunque, accanto a tutte le sue briose finzioni  - delle quali non si intende certo sminuire la grazia affascinante -  e accanto a tutti i suoi attenti progetti di calcolatrice.  Il Goldoni stesso ha avvertito d’istinto verso quale direzione  lo aveva portato la prima stesura della commedia, nella sua prima edizione, l’edizione Paperini: e nella seconda edizione, l’edizione Pasquali, nella quale corregge alcuni errori della precedente  e pur ne aggiunge di nuovi e di non meno gravi, e in cui sopra tutto cerca di adeguare la commedia, infelicemente, al gusto teatrale che più sarebbe stato gradito, non solo toglie certo sapore di battute realistiche che noi avremmo volentieri  voluto conservate, ma anche toglie a Mirandolina  certe battute di una affettuosità più sfumata che ancora maggiormente l’avvicinavano al Cavaliere: opera insomma per ragioni di polemica uno stacco che non era giustificato dalle ragioni della poesia. […] Così, nella commedia che solo esiste per noi, quelle asprezze di Mirandolina, volute forse per intento polemico,  sono invece il frutti di un approfondimento in senso realistico, esprimono realisticamente tutta la sua realtà umana, la sua vocazione alla tirannia domestica, la sua sicurezza compiaciuta dopo il trionfo, ma, anche, qualcosa di più e di diverso,  che ella rivela proprio negli speciosi pretesti  dei propri monologhi. Quello spasso  che ella ha voluto prendersi in realtà ha alterato qualcosa nella sua psicologia. Naturalmente, è necessario muovere con estrema cautela in questa direzione e non caricare il personaggio di una serietà affettiva che non ha e che sarebbe assolutamente antistorica: si tratta di uno spunto, di un accenno,  di un lampeggiare improvviso che ci fa scorgere  un’alba lontana: ma l’orizzonte del sentimento  e della passione, delle improvvise affinità elettive,  è ancora ben lontano da questo mondo Una serietà sentimentale avvertita come un oscuro  e potente presagio: ma nulla più. Invece, è storicamente giustificato parlare di una serietà morale: quella serietà che corrisponde d’altra parte al realismo  etico caratteristico di tanta parte della prima  produzione goldoniana, almeno sino al 1753, e anche oltre. Mirandolina ha voluto divertirsi alle spalle di un uomo  che l’aveva offesa e con lei aveva offeso le virtù del suo sesso; ha ottenuto piena vittoria. Ma proprio nell’istante della vittoria , davanti a quella serietà di passione, ha avvertito  anche la crudeltà del proprio gioco, ha avuto paura della propria civetteria: così ella comprende che non si può vivere in questi equivoci, che non si tratta di cose degne di lei: per usar le sue parole, che il tempo del divertimento è passato. Una ragazzata, diremmo noi: di cui nella fondamentale serietà del proprio carattere ella si pente, e di cui vuol correggersi proprio con il matrimonio…»

 

In questa interpretazione del Caccia, sono due le cose che non ci convincono, pur nella finezza dell’analisi e nella felicità di alcuni lampi d’intuizione: primo, che Mirandolina sia una donna fondamentalmente seria perché donna del Settecento, e che, per lo stesso motivo (il dominio illuministico della ragione sui sentimenti), non possa capire l’amore romantico, e si ritragga spaventata davanti ad esso; secondo, che si penta e si rammarichi di aver agito male verso il Cavaliere, e nel proprio intimo ne provi vergogna.

La prima tesi non ci persuade perché astrattamente ideologica: essa vorrebbe far derivare la vitalità interna, la dinamica psicologica di un personaggio in base a un assunto non già d’ordine poetico, ma storicistico: come se i personaggi del teatro e della letteratura settecenteschi dovessero per forza inchinarsi ai dogmi di Voltaire e della «Encyclopédie», o se quelli del primo Ottocento dovessero fare altrettanto con quelli di Byron e dello «Sturm und Drang». Tanto varrebbe dire che lo scrittore altro non è che la cieca espressione della propria temperie culturale, e che i personaggi teatrali d’un commediografo altro non sono che le mascherine destinate a rappresentare le idee, il gusto e gli stilemi del loro tempo, senza alcun margine di manovra, di autonomia, di libertà. Ognuno vede come si cadrebbe nel più vieto determinismo: un determinismo rispetto al quale le pur rigide teorie di Taine o di Zola sembrerebbero un insipido brodino.

La seconda tesi ci convince ancor meno, perché si basa unicamente su una licenza congetturale: non vi è alcun elemento definito che autorizzi a immaginare un rimorso o un pentimento di Mirandolina, perché la sua reazione alla propria vittoria, con quel vendicativo negare al Cavaliere una parola di bontà e di riconciliazione, si può benissimo interpretare in tutt’altra maniera, e più in linea con la psicologia generale del personaggio, ossia come calcolata cattiveria o, quanto meno, come omissione deliberata di bontà - quando un gesto di bontà sarebbe così semplice, per lei che ha vinto e stravinto, e le costerebbe così poco.

Al contrario, si ha l’impressione che l’ipotesi di un pentimento e di un rimorso di Mirandolina nascano proprio dall’imbarazzo dei critici che vorrebbero difenderla e che vorrebbero trovare in lei una sostanza morale, anzi addirittura una serietà morale; dimenticando, se proprio si vuol restare sul terreno dello storicismo meccanicamente inteso, che quel gioco crudele coi sentimenti altrui era proprio della cultura dell’epoca (si pensi solo, per fare un esempio, alle «Liaisons dangereuses» di Choderlos de Laclos), e non già perché l’Illuminismo ignorasse la potenza del sentimento e delle passioni, ma perché riteneva che, essendo queste ultime il “male” della storia per antonomasia, si potesse e si dovesse combatterle con ogni arma consentita, a cominciare da quella preferita in ambito settecentesco: l’astuzia, la dissimulazione, il freddo gioco calcolato.

Nessuna pietà per il nemico, nel secolo dei Lumi, sia esso la superstizione, l’oscurantismo, l’ignoranza o quell’inconcepibile errore, quella incomprensibile sovversione della razionalità, che è la passione: figuriamoci se Mirandolina poteva pentirsi di aver perpetrato un simile delitto. Anzi, è ciò di cui va maggiormente fiera; e se ammette, a mezza bocca, di essersi spinta troppo in là, non è certo per compassione verso il Cavaliere, ma solo e unicamente perché lo scandalo che stava per scoppiare nella sua locanda avrebbe potuto travolgere il suo buon nome e, soprattutto, i suoi buoni affari, cosa per lei della massima importanza.

Mirandolina, dunque, è una donna che non fa il bene che potrebbe fare – dire una parola buona al Cavaliere sconfitto e umiliato, prima di lasciarlo andare – non per paura e turbamento di se stessa, ma per calcolata volontà di infierire e per superbia inveterata: lei che ha sempre tenuto gli altri sulla corda, lei che si è sempre fatta desiderare e implorare, lei che ha sempre stretto in pugno le regole del gioco, mai e poi mai sarebbe disposta a riconoscere, e sia pure indirettamente, di aver passato il segno, di aver abusato del potere che sa esercitare sugli altri.

È una tiranna, che vuol sempre avere tutti ai propri piedi; una frigida dispotica e narcisista, forse una omosessuale latente, non mai disposta a guardarsi dentro con un poco di onestà; una schiava del proprio feroce egoismo, che, impedendole di fare il bene anche quando ci sarebbero le migliori condizioni per farlo, la possiede come un dèmone e non la lascia mai, negandole ogni prospettiva di una possibile redenzione.

In questo senso, forse, Mirandolina, dietro i suoi vezzi e le sue moine settecenteschi, è in realtà, un personaggio faustiano, cioè tragico e, appunto, “romantico”: ha venduto l’anima al dèmone del proprio orgoglio, della propria infinita vanità, e non è più in grado di ritrovare se stessa; si è perduta, semplicemente, a forza di mietere facili vittorie.

Solo l’incontro con un uomo virile, che la riportasse con i piedi per terra e la restituisse alla sua stessa umanità, avrebbe potuto operare il miracolo della sua redenzione: ma questo non avviene, e non sarà certo il povero servo Fabrizio, marito da operetta che ne diverrà l’ennesimo schiavo, a tirarla fuori dal vicolo cieco in cui da se stessa si è cacciata, senza possibilità di ritorno.

Mirandolina, come accadrà a certi personaggi verghiani, come il Mazzarò de «La roba», si è totalmente disumanizzata; tutte le sue smorfie e i suoi giochetti da seduttrice di provincia non valgono a nascondere questa spietata verità, né, tanto meno, a salvarla dalla spaventosa solitudine affettiva nella quale, inesorabilmente, si è confinata con le proprie mani.

Per salvarla da un simile destino, sarebbe necessaria una conversione etica e, forse, una crisi religiosa: ma il suo carattere è troppo superficiale per questo, troppo incallito nel gioco del dominio, troppo cinico a forza di giocare con il prossimo; non ha lo spessore per una svolta del genere, perché, in fondo - ed è questo, forse, il segreto che non vuol svelare ad alcuno, per cui a nessuno si concede veramente - non ha grossa personalità, come vorrebbe far credere; al contrario, è una donna piuttosto inconsistente.

Riesce a darla ad intendere proprio coi suoi giochetti, con le sue astuzie da seduttrice di provincia; ma senza di esse, che cosa resterebbe di lei?