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La fine del mondo per ricominciare

di Claudio Risé - 19/12/2012


Milioni di persone, nei vari continenti, sono convinte che il mondo stia per finire. Preoccupati dalle manifestazioni di panico, dagli spostamenti di masse in cerca di rifugi ed altre manifestazioni imprevedibili, alcuni governi hanno diffuso comunicati ufficiali spiegando perché il mondo non finirà. Così ha fatto anche la NASA, agenzia spaziale americana, assicurando che nel cosmo tutto è tranquillo.
Cosa significano, però, queste periodiche e collettive convinzioni che tutto finisca?
Nel mondo prendono forma ciclicamente movimenti più o meno estesi, impegnati a diffondere l’attesa della fine. Qualcuno ne profitta per guadagnarci denaro o potere, magari come capo di una setta; ma il grosso di queste masse è in buona fede, e disinteressato. Come mai continuano a riproporsi aspettative di una fine che viene poi sempre smentita?
Le risposte sono diverse. Secondo la psicoanalisi tutti sono più o meno preoccupati della propria fine. Questi movimenti sarebbero allora un modo di condividere quest’angoscia, riferendola ad una fine collettiva. Al problema personale verrebbe insomma dato un senso più ampio, coinvolgendovi il resto del mondo.
E’ in fondo un’antica soluzione, buona per ogni guaio, come dimostra anche il popolare proverbio: mal comune mezzo gaudio.
Questa risposta è troppo riduttiva e non spiega l’intera faccenda. A cominciare dal nome più usato per definire questa situazione nella letteratura ad essa dedicata: apocalisse. Parola che significa: rivelazione. Un termine che a sua volta si riferisce a qualcosa di finora sconosciuto che viene finalmente detto, reso noto, e diventa quindi di uso e conoscenza comune.
E’ proprio a questo svelamento che servono, insomma, le fini dei “vecchi mondi”: rivelare quello nuovo. E’ questo l’aspetto più positivo e vitale dei movimenti che annunciano periodicamente la “fine del mondo”. Il loro successo non è dovuto a esplosioni di follia collettiva (che sarebbero difficilmente spiegabili), ma al fatto che interi gruppi di persone percepiscano emotivamente la fine di una vecchia situazione e i bisogni di una nuova. Come ad esempio diversi modi di vita, di relazione, di comunicazione fra le persone.
La maniera più semplice e immediata di esprimere questo sentimento profondo (il: “dobbiamo cambiare tutto”) è sempre stato quella di pensare a un’ineluttabile “fine” di un mondo; oppure di un tempo, come quello misurato nel calendario Maya, che “scadrebbe” il 21 dicembre.
La fine, insomma, è soprattutto il modo di rappresentare un nuovo inizio.
In modo sorprendente (ma in fondo non troppo), queste antiche e ricorrenti aspettative, classificate tra le più assurde superstizioni, rispondono ad un’esigenza rivelata negli ultimi anni dalle più nuove fra tutte le scienze: le neuroscienze, dedicate allo studio del cervello. Esse hanno infatti stabilito che il cervello non è formato “una volta per tutte” intorno ai vent’anni, come credeva la medicina ancora fino a pochi decenni fa. Ma è invece sempre in trasformazione e rinnovamento, ed in questo continuo cambio di scenari ha bisogno della collaborazione della coscienza, che deve mandare indicazioni su quali situazioni, e modi di essere e di pensare, togliere, e quali invece sviluppare.
Possiamo essere noi insomma i registi delle nostre personali apocalissi. E ciò contribuirebbe di certo al cambiamento collettivo. Indispensabile però è sapere che tutto cambierà, sta già cambiando.
Le nostre sinapsi, in continua trasformazione, hanno bisogno di sapere da noi dove vogliamo andare, per organizzare nel modo migliore le nostre fini e il nostro cambiamento.