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Con la vittoria nella baia di Quiberon la flotta inglese sventò l’invasione dell’Isola

di Francesco Lamendola - 19/12/2012


 


 

Il 1759 è stato l’anno decisivo per le sorti della guerra dei Sette Anni (1756-63) e soprattutto per quelle del gigantesco conflitto anglo-francese che aveva per posta il dominio della rotte oceaniche, dal Nord America all’Africa e all’India, e dei rispettivi imperi coloniali; in Inghilterra esso è stato battezzato “l’anno delle vittorie” perché, dopo un inizio assai deludente, sotto la guida vigorosa di William Pitt il Vecchio essa è riuscita a riportare una serie di successi clamorosi e decisivi per l’esito della lotta.

La strategia inglese fu essenzialmente una strategia navale: le operazioni terrestri erano subordinate al dominio delle vie di comunicazione marittime, e, per assicurarsi quest’ultimo, era necessario effettuare il blocco dei porti francesi, Tolone e Brest, in cui avevano stanza le due principali flotte nemiche, quella del Mediterraneo e quella dell’Atlantico. Era una strategia che anticipava quella che verrà seguita dalla Gran Bretagna, nel corso delle due guerre mondiali, contro la Germania; con la sostanziale differenza che, allora, non si trattava di bloccare tutta la linea di costa per impedire il commercio del nemico e ridurre alla fame quest’ultimo, ma, più semplicemente, di bloccare le sue basi navali onde impedire che da esse partissero i rifornimenti destinati ai teatri di guerra extra-europei.

Fu così che sia il Canada, sia l’India francese, impossibilitati a ricevere rinforzi dalla madrepatria, caddero sotto i colpi degli eserciti inglesi, i quali, invece, venivano regolarmente riforniti e appoggiati dalla loro flotta: nel caso della battaglia sulle piane di Abraham, che consegnò il Canada al generale Wolfe, decisiva fu l’azione della squadra navale inglese lungo il fiume San Lorenzo, fin sotto le mura di Québec. Insomma, per i Britannici si trattava di realizzare una superiorità terrestre grazie al dominio dei mari: tagliando le linee di navigazione nemiche, le colonie francesi erano destinate a cadere come frutti maturi nelle mani rapaci dei loro avversari.

La strategia elaborata dai consiglieri militari di Luigi XV fu ambiziosa, ma velleitaria: non potendo competere con la superiorità navale britannica, essi concepirono niente di meno che il progetto di invadere l’Inghilterra, esattamente come sogneranno di fare, per un momento, i generali di Hitler, dopo la campagna di Francia del maggio-giugno 1940 (la famosa Operazione “Leone Marino”). Solo che i generali tedeschi, per invadere l’Inghilterra, ritennero di doversi assicurare, prima, il dominio dei cieli, non potendo disporre della superiorità navale: e sarà la Battaglia d’Inghilterra, un gigantesco duello aereo in cui la vittoria inglese fece accantonare il progetto d’invasione – e Hitler, a quel punto, pensò che, per piegare l’Inghilterra, sarebbe stato necessario invadere e battere l’Unione Sovietica, proprio come si era illuso di fare Napoleone in Russia, nel 1812.

Gli strateghi di Luigi XV, che non avevano il dominio dei mari, ma contavano sulla vicinanza dell’obiettivo dello sbarco, furono costretti, come lo era stato lo spagnolo Medina Sidonia ai tempi dell’Invincibile Armata, a scommettere su un elemento imprevedibile: la fortuna. Infatti gli Inglesi, per sorvegliare la flotta di Tolone, facendo base a Gibilterra, e la flotta di Brest, facendo base a Plymouth, dovevano tenere costantemente in mare il grosso delle loro due maggiori squadre navali; tuttavia, in autunno e in inverno, le forti tempeste atlantiche le costringevano, specialmente quella della Manica, a rientrare in porto per alcuni giorni, in attesa che il vento calasse e fosse possibile riprendere il mare per pattugliare le acque nemiche.

Con un po’ di fortuna, dunque, pensarono gli ammiragli francesi, si sarebbe potuta cogliere al volo una di tali occasioni, per imbarcare un esercito nel nord della Francia e trasportarlo fin sulle coste inglesi, ove sarebbe sbarcato prima che le navi nemiche avessero avuto il tempo di rendersi conto della manovra.

In realtà, il punto debole di un simile piano non consisteva tanto nell’affidare il suo buon esito a un elemento incostante per definizione, come la fortuna, ma nel non tener presente che le stesse condizioni meteorologiche avverse, che talvolta costringevano la flotta inglese a lasciare le acque di Brest per rifugiarsi a Plymouth, avrebbero reso difficilissimi la traversata della Manica e lo sbarco sulla costa inglese; e, inoltre, che i marinai britannici, più abili nelle manovre sull’oceano di quelli francesi, per la lunga esperienza accumulata nel corso di almeno due secoli di guerre continue contro le maggiori potenze marinare del Cinque e Seicento – la Spagna, l’Olanda e la Francia stessa – avrebbero potuto compensare lo svantaggio temporaneo con la maggiore velocità di manovra, annullando il margine di tempo e di spazio che la squadra di Brest fosse eventualmente riuscita a guadagnare, allorché fosse uscita di sorpresa.

Al tempo delle navi a vela, ancor più che nell’epoca delle navi a vapore, l’esito di una campagna navale dipendeva ancora largamente dall’audacia, dall’abilità, dall’esperienza del comandante: tutte qualità che l’inglese Sir Edward Hawke possedeva in alto grado, mentre difettavano al suo antagonista francese, il conte Hubert de Brienne de Conflans, che, oltre ad essere quasi settantenne e malandato in salute, era bensì un maresciallo di Francia, ma aveva ben poca esperienza in fatto di guerra navale. La decisione e la volontà di vittoria, spinte, se necessario, fino allo sprezzo delle regole tattiche, buone per la teoria, ma spesso inadeguate nella realtà concreta; il saper dare addosso al nemico, in qualunque luogo, in qualunque momento, in qualunque circostanza, anche al calar della notte, anche col pericolo degli scogli e delle secche, anche non disponendo di piloti esperti delle coste nemiche: ecco ciò che il comandante inglese possedeva, e con lui gran parte degli ufficiali e degli equipaggi, mentre lo stesso non si può dire della marina da guerra francese, anche se, individualmente, essa sapeva esprimere marinai di eccezionale valore e di capacità fuori del comune. Lo si era già visto e lo si sarebbe visto ancora, al tempo di Luigi XIV come durante le campagne napoleoniche: nella guerra di corsa, per esempio, marinai come Jean Bart o Surcouf seppero dare terribilmente del filo da torcere alle squadre inglesi, riportando successi clamorosi, ma isolati; e lo si sarebbe visto anche da parte della flotta italiana, durante la seconda guerra mondiale, con le mitiche imprese degli “uomini-rana” penetrati fin nelle basi britanniche più munite, come quella di Alessandria d’Egitto. Ma, nello scontro faccia a faccia tra due grosse formazioni navali, dove il comando è affidato non a geniali outsider, ma ad ammiragli al culmine della carriera, l’audacia prevale sempre sulla prudenza: lo si vedrà a Capo Matapan, quando Angelo Iachino si troverà faccia a faccia con Sir Andrew Cunningham e non riuscirà a sfruttare i pur numerosi fattori di vantaggio strategico e, anzi, si farà totalmente sorprendere (anche, è vero, per il possesso inglese del radar).

L’esercito francese che, nell’autunno del 1759, era destinato l’invasione dell’Inghilterra, si era raccolto sulla costa meridionale della Bretagna, a Vannes, che si affaccia sul Golfo di Morbihan, ad Est della Penisola di Quiberon. Pertanto la flotta di Brest avrebbe dovuto dirigere a Sud-Est per raggiungerlo e prenderlo a bordo, unendosi al resto della squadra che si trovava già sul posto, indi tornare indietro, doppiare la punta occidentale della Penisola bretone ed entrare nel Canale della Manica, per attraversarla e presentarsi davanti alle coste inglesi.

Se il porto di Vannes era stato scelto perché ritenuto al sicuro da possibili incursioni nemiche (come aveva insegnatola l’incursione di Drake nel porto di Cadice, che aveva ritardato di un anno la partenza dell’Invincibile Armata per l’invasione dell’Inghilterra), la sua posizione diveniva un fattore di debolezza rispetto all’elemento centrale del piano, l’invasione dell’Inghilterra, perché rendeva necessaria una manovra in due tempi: da Brest a Vannes, da Vannes alla Manica; laddove sarebbe stato necessario poter agire con estrema rapidità, calando il colpo sulle coste inglesi prima che il nemico avesse il tempo di allestire qualunque difesa. Di fatto, la flotta inglese riuscì a intercettare quella nemica ancor prima che i Francesi fossero passati alla seconda fase del loro piano: ossia prima che Conflans arrivasse nel Golfo di Morbihan e che potesse imbarcare l’esercito. Ciò avvenne il 19 novembre, dopo che una tempesta atlantica aveva obbligato Hawke a ripiegare fino a Plymouth, ma non gli aveva impedito di ritornare davanti all’isola di Ouessant in tempo per apprendere che Conflans aveva preso il mare e si era diretto a Sud-ovest.

Così riassume lo svolgimento di quella memorabile giornata Christopher Lloyd nel volume «Le grandi battaglie navali a vela» (titolo originale: «Sea Fight’s Under Sail»; traduzione dall’inglese di Francesco Saba Sardi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1970, pp. 59-62):

 

«… Hawke non si spostò fino al 9 novembre, quando una tempesta atlantica costrinse la flotta a prendere la via del nord. Hawke non si aspettava certo che i Francesi tentassero l’invasione proprio in quel periodo dell’anno; per precauzione, tuttavia, aveva lasciato sul posto Duff, con l’incarico di avvertirlo  subito nel caso che Conflans uscisse da Brest.

Hawke restò assente soltanto dieci giorni, tempo sufficiente, tuttavia, perché una squadra francese composta da sette grosse navi entrasse a Brest, per appoggiare nel tentativo di sortita le ventun navi di linea che già vi si trovavano e con esse compiere il viaggio verso la penisola di Quiberon.  Quando prese il mare, Conflans aveva 200 miglia di vantaggio su Hawke.

Il 19 novembre, questi riapparve al largo di Ouessant, e solo allora fui informato, dagli uomini di due delle navi addette ai rifornimenti, che la flotta francese era stata avvistata a sud di Belle-Ile. Duff, che non ne sapeva niente, per poco non fu catturato il mattino del 20. A salvarlo fu l’annuncio, dato dai marinai di vedetta sulla coffa delle navi francesi, che da occidente stava avanzando a vele spiegate una grossa flotta.

Conflans decise di continuare il viaggio, guidando la formazione da bordo della “Soleil Royal” armata di ottanta cannoni, certo com’era che, col forte vento che soffiava da occidente, il nemico non avrebbe osato seguirlo nelle infide acque del golfo di Morbihan: gli Inglesi non avevano piloti né mappe, e difficilmente avrebbero potuto stabilire il contatto prima che, in quella tempestosa giornata di novembre, scendesse l’oscurità.

Hawke sparò tre colpi col suo cannone da segnalazione., in pari tempo issando una bandiera bianca con croce rossa sul picco dell’albero di maestra della “Royal George”, ciò che significava “in caccia”; in altre parole, bisognava abbandonare la rigida formazione a linea di battaglia, e ognuna delle navi doveva tentare di raggiungere al più presto la retroguardia nemica. Come aveva detto un giorno ai suoi ufficiale, lui, Hawke, era “per il vecchio modo di combattere, consistente nel dare addosso al nemico senza tanti riguardi”. In altre parole, vedeva di buon occhio il ritorno ai vecchi temi, quelli precedenti lo sviluppo delle tattiche formali.

Quando fu dato il segnale che s’è detto, la “Royal George” si trovava a tre miglia di distanza dalla nave francese  più arretrata, e proprio nel momento in cui Conflans entrava nella baia di Quiberon passando tra la secca di Le Four e le rocce del Cardinale lasciando e lasciandosi un paio di miglia a ovest Belle-Ile, le navi britanniche di testa, la “Torbay”, la “Resolution” e la “Warspite”, aprirono il fuoco. Erano le 14,30. Ora, sul trinchetto dell’ammiraglia inglese sventolava il vessillo rosso  di battaglia, significante che ognuna delle navi  doveva tentare con ogni mezzo di attaccare il nemico a distanza  ravvicinata. Hawke, naturalmente, puntò sulla “Soleil Royal”. Quando l’ufficiale di rotta gli fece notare : “se continueremo così, signore, finiremo per incagliarci”, Hawke replicò: “Può anche darsi, ma loro saranno a riva prima di noi, per cui non mollate la “Soleil Royal”.

Restava ancora un’ora di luce: nel crepuscolo incipiente, una quarantina di grosse navi rollavano e beccheggiavano, spinte dal forte vento, sfiorando scogliere e banchi di sabbia. Molte furono le collisioni, ed era impossibile distinguere amico da nemico, finché non si notava la bandiera sul picco o, dalla fiancata della nave più vicina, non partiva una bordata. Un improvviso colpo di vento rovesciò la “Thésée” (sessantaquattro cannoni) sul fianco, la nave affondò trascinando negli abissi seicento uomini; solo ventidue superstiti furono ripescati il giorno dopo dalla “Torbay”. La “Héros” si arrese e fu data alle fiamme dopo aver perduto quattrocento uomini sotto il fuoco della “Magnanime”, una nave che undici anni prima, era stata francese  e ora era al comando del capitano inglese Richard Howe, lo stesso che trentacinque anni dopo avrebbe riportato la vittoria del “glorioso primo giugno”. Fu catturata anche la “Formidable” di ottanta cannoni, mentre la “Royal George”, tallonando l’ammiraglia francese, incontrò sul proprio cammino la “Superbe” che affondò con un’unica, tremenda bordata. Solo qualche timido evviva si levò quando la nave francese prese a sprofondare,  perché, come ebbe a dire il cappellano di bordo, “quei bravi marinai erano commossi dal destino di tante centinaia di poveri diavoli”.

Al cader della notte, Hawke si trovò alle prese con una dozzina di navi  che avevano fatto cerchio attorno alla “Soleil Royal”. “La notte era ormai scesa“ egli scrisse dopo la battaglia, “e trovandoci in una zona della costa tra isoletti e secche che ci erano affatto sconosciuti, privi di pilota, e col vento che soffiava teso in direzione della cista, detti il segnale di gettare le ancore”. Anche Conflans calò le ancore: ma, all’alba, scoprì che era nel bel mezzo della flotta inglese.

Così, il mattino del 21, le due ammiraglie si trovarono a portata dei rispettivi cannoni. Conflans puntò direttamente sulla costa si arenò e riuscì a sottrarsi alla cattura con gran parte della ciurma, mentre il vascello veniva dato alle fiamme; l’unica parte della nave di cui gli uomini di Hawke riuscirono a impadronirsi, fu la polena scolpita. La “Soleil Royal” era la seconda ammiraglia dello stesso nome che faceva una fine ingloriosa.

Durante questa terribile notte di tempesta, anche due navi britanniche, l’”Essex” e la “Resolution”, si erano incagliate; entrambe vennero abbandonate e date alle fiamme. La flotta francese, in compenso, era dispersa ai quattro venti. Sette delle navi maggiori e quattro fregate puntarono verso la foce del fiume Vilaine, in ci riuscirono a entrare solo dopo aver gettato i cannoni in acqua per alleggerirsi. Una si incagliò sfasciando la carena; un’altra naufragò alla foce della Loira. In tutto andarono perdute sette navi con venticinquemila uomini, anche se parecchie riuscirono a sottrarsi all’inseguimento inglese, spingendosi verso sud addirittura fino a Rochefort. La flotta di Luigi XV aveva cessato praticamente di esistere.»

 

La battaglia della baia di Quiberon fu decisiva per sventare il progetto francese di invasione e, quindi, per condurre la guerra ad un esito vittorioso per l’Inghilterra: privata delle sue colonie oltremare; privata della sua ultima grande flotta, mentre quella del Mediterraneo era già stata sconfitta in un disperato tentativo di forzare il blocco oltre lo Stretto di Gibilterra (battaglia di Lagos, davanti alle coste portoghesi, il 18-19 agosto 1759); incapace, sul continente, di venire a capo della ostinata e valorosa resistenza della Prussia di Federico II e nonostante l’alleanza con l’Austria e la Russia, alla Francia di Luigi XV, sempre più dissestata finanziariamente, non restava che rassegnarsi all’inevitabile, anche se la pace di Parigi verrà firmata solo il 10 febbraio 1763. Cinque giorni dopo verrà ratificata la pace anche fra le potenze continentali e la Prussia, lasciando la Slesia, causa occasionale della guerra, nelle mani di Federico II.

Non era scritto nella sfera del destino che la guerra dovesse finire così. Anche se William Pitt seppe dare al suo Paese una guida energica e nello stesso abile, e anche se la flotta inglese disponeva di una indiscussa superiorità su quella francese, il progetto di invasione dell’Inghilterra avrebbe potuto riuscire, se fosse stato condotto con maggiore decisione, ad esempio partendo da una base sulla costa francese della Manica, e se la flotta a ciò destinata non fosse stata affidata a un uomo che non aveva la tempra adatta. E che non avesse la tempra adatta, lo si vide la mattina del 20 novembre, quando Conflans portò la sua nave ammiraglia ad incagliarsi, senza aver nemmeno tentato di combattere, in apparenza più desideroso di evitare la cattura o la morte che di tenere alta la propria bandiera e di essere d’esempio ai propri demoralizzati equipaggi.

La tecnica, in guerra, non era e non è tutto; specialmente nelle guerre del Settecento, le capacità dei singoli comandanti potevano ancora rappresentare il fattore decisivo, purché, beninteso, non esistesse una sproporzione troppo grande tra le opposte forze in campo. E, nel caso della battaglia di Quiberon, tale eccessiva sproporzione non esisteva: una tattica più oculata avrebbe potuto condurre a un altro esito dello scontro. In particolare, esiziale sembra essere stata la decisione di Conflans di proseguire per Vannes, anche dopo che l’effetto sorpresa era fallito e quando già la flotta nemica gli stava con il fiato sul collo. Si fidò troppo del fatto che gli Inglesi non lo avrebbero inseguito fin dentro il Golfo di Morbihan, con quel vento di tempesta che soffiava dall’Atlantico e sprovvisti, com’erano, di piloti e di carte nautiche per evitare le secche e gli scogli.

Quello, senza dubbio, fu l’errore decisivo, un errore senza rimedio: avere sottovalutato l‘avversario.