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Quando calcolo, ambizione, orgoglio dettano legge nel gioco dei sentimenti

di Francesco Lamendola - 14/01/2013



 

È pressoché certo che, se gli innamorati potessero leggere veramente nel pensiero dell’altro mentre si scambiano le parole ed i gesti della schermaglia amorosa, resterebbero impietriti dalla scoperta di quanta poca sincerità, spontaneità e verità vi siano sovente in essi, e, viceversa, di quanto calcolo, fredda strategia e lucida determinazione, dettati da una torbida miscela di orgoglio e ambizione, si nascondano dietro una interpretazione degna, talvolta, del più rinomato palcoscenico.

Eppure c’è una cosa che li lascerebbe ancora più sbalorditi e, crediamo, assai più sconvolti, se essi avessero la forza, l’onestà ed il coraggio di togliere la maschera che indossano e riconoscere nei propri pensieri e sentimenti, nelle proprie parole e nei propri gesti quella stessa torbida miscela di orgoglio e ambizione, quella volontà di manipolazione dell’altro, quella penosa commedia di falsità e ipocrisia, avente l’unico scopo di dare di sé una immagine diversa, e assai più nobile e disinteressata, di quel che non sia la realtà, pur di piegare l’altro alle proprie voglie e ai propri disegni, lusingandolo con dolci espressioni e con teneri gesti.

Attenzione: non stiamo dicendo che, in amore, tutti sono falsi e tutti recitano una parte; stiamo dicendo che è abbastanza facile sospettare che ciò accada, o che possa accadere, da parte dell’altro, mentre si dà praticamente per scontato che una simile doppiezza, una simile capacità di finzione non ci appartiene, non rientra nella nostra natura e, dunque, che noi non scenderemmo mai così in basso, fino a recitare la parte degli innamorati quando non lo siamo, ma vogliamo soltanto possedere il corpo dell’altro, oppure persuaderlo del nostro sincero interesse per ricavare da lui qualche altro inconfessabile vantaggio, magari di tipo economico o professionale.

Anche nel gioco amoroso, insomma, tendiamo a ragionare con un doppio metro di giudizio, così come facciamo, in genere, in tutte le altre situazioni della vita: noi siano puri, onesti e in buona fede; gli altri possono nascondere, e talvolta rivelano effettivamente, doppiezza, perfidia, calcolo spudorato. Magari ci disprezziamo per altri aspetti; forse ci riteniamo gli ultimi, i più meschini, i più immeritevoli esseri umani fra quanti ve ne sono al mondo; però, in fatto di lealtà, sincerità e buona fede, non vi è dubbio che siamo dei campioni, e i malvagi sono sempre gli altri.

Il ladro non ammette di rubare davanti a se stesso, e il bugiardo non ammette di mentire: entrambi sono capaci di inventarsi infinite giustificazioni per attenuare, modificare e rovesciare l’inevitabile giudizio negativo che dovrebbero pronunciare contro se medesimi. Ebbene, la stessa cosa avviene nel gioco dei sentimenti: a fingere, a ingannare, a porsi in maniera subdola e sleale sono sempre gli altri: noi siamo le vittime innocenti, anche se abbiamo fatto della seduzione, con qualunque mezzo e a qualunque costo, quasi una nostra seconda natura.

Prendiamo il caso di una donna sposata che civetta con gli uomini, accoglie lusingata i loro complimenti, finge di ritrarsi e intanto si compiace di se stessa, arrossisce di piacere, provoca con gli sguardi; eppure è molto raro che una donna del genere si veda per quel che realmente è, che sappia giudicare con franchezza il proprio comportamento, che riconosca l’ambiguità voluta e cercata del proprio agire. Se il gioco dovesse andare troppo oltre, se dovesse scivolarle di mano, se dovesse portarla alla infedeltà piena ed esplicita, allora la colpa sarà dell’altro, che ha frainteso, che ha approfittato di lei, che ha abusato della sua amicizia.

Naturalmente ci sono anche molti uomini che si comportano così e che sentono e pensano in tal modo: individui da nulla, senza spina dorsale, senza chiarezza, senza alcuna consistenza, pronti a raccontarsi ogni genere di storie per sentirsi sempre a posto e attribuire il torto agli altri.

Gli scrittori sono spesso più fini osservatori dell’animo umano di psicologi e filosofi; forse perché meno pretenziosi, forse perché più attenti al concreto; mentre quelli, non di rado, pesi nelle loro stratosferiche altezze, finiscono per smarrire l’uomo in carne ed ossa, sostituendolo con schemi ed elucubrazioni pseudoscientifiche. Uno di questi acuti osservatori dell’animo umano è stato Dante; un altro, Cervantes; un altro ancora, Dostoevskij; e non dimentichiamo Henri Beyle, in arte Stendhal, l’autore del celebre romanzo «Il Rosso e il Nero», pubblicato nel 1830, su cui ora vogliamo brevemente soffermarci.

Magistrale, nella sua apparente semplicità, la descrizione della serata in cui Julien, l’ambizioso protagonista, dopo essersi imposto, a mente fredda, di spingere più avanti il proprio progetto di seduzione di Madame de Rênal, riesce a stringerla la mano nel buio, in giardino, a due passi dalla cugina inconsapevole, sostenendo una durissima battaglia contro la propria timidezza, non già spinto da un sentimento di amore, ma dalla sua smania esasperata di affermazione sociale e dalla volontà di identificarsi con il suo eroe, Napoleone Bonaparte (da: Stendhal, «Il Rosso e il Nero», libro primo, cap. IX; titolo originale: «Le Rouge et le Noir»; traduzione da francese di Ugo Dettore, Milano, Rizzoli, 1950, 190, pp. 54-57):

 

«Il tramonto, avvicinandosi il momento decisivo, fece battere in modo singolare il cuore di Giuliano.  Venne la notte. Notò, con una gioia che gli tolse dal petto un peso immenso, che sarebbe stata molto buia. Il cielo, carico di grosse nubi trascinate  da un vento caldo, sembrava annunciare la tempesta. Le due amiche passeggiarono fino a tardi. Tutto ciò che facevano quella sera  sembrava singolare  a Giuliano. Godevano quel tempo  che, per certe anime sensibili, sembra accrescere il piacere di amare. Infine sedettero, la signora de Rênal a fianco  di Giuliano, e la signora Derville accanto alla sua amica. Preoccupato di ciò che stava per tentare,  Giuliano non riusciva a trovare parola.  La conversazione languiva.

“Devo dunque starmene così, tremante e abbattuto, al primo duello?”, pensò Giuliano, troppo diffidente di sé  e degli altri per non vedere lo stato del suo animo. Nella sua angoscia mortale avrebbe preferito qualunque pericolo. Quante volte non desiderò che la signora de Rênal fosse costretta per una ragione qualsiasi a lasciare il giardino e a rientrare in casa! La violenza che era costretto a imporsi era troppo forte perché la sua voce non ne fosse alterata; poco dopo, anche la voce della signora Rênal si fece tremante, ma Giuliano non se ne accorse: la tremenda lotta fra il dovere e la timidità era troppo penosa perché egli fosse capace di osservare qualche cosa al di fuori di sé. Suonarono le nove e tre quarti all’orologio del castello, e ancora non aveva osato. Sdegnato della propria viltà, pensò: “Al momento preciso in cui suoneranno le dieci, farò quel che mi son ripromesso di fare per tutti quest’oggi oppure salirò nella mia stanza a bruciarmi le cervella”.

Dopo un ultimo istante di attesa e di ansietà, durante il quale l’eccessiva emozione lo mise fuor di sé, suonarono le dieci. All’orologio che era proprio sopra di lui. Ogni colpo fatale gli riecheggiò nel petto suscitandogli quasi una sensazione fisica. Allora, mentre l’ultimo colpo ancor risuonava, stese la mano e afferrò quella della signora de Rênal, che subito la ritrasse. Giuliano, senza saper quello che faceva, l’afferrò ancora. Benché pieno di emozione, fu colpito dalla freddezza glaciale della mano che teneva stringendola con forza convulsa; ancora uno sforzo per togliergliela, poi la mano restò. Si sentì l’anima inondata di gioia, non perché amasse la signora de Rênal, ma perché un crudele supplizio era finito. Pensò di parlare perché la signora Derville non si accorgesse di nulla; la sua voce risuonò forte e squillante. Quella della signora de Rênal, invece, tradiva un tal turbamento che la sua amica credette che non si sentisse bene e le propose di rientrare. Giuliano sentì il pericolo: “Se la signora de Rênal rientra in sala, mi ritroverò nello stesso stato pauroso in cui ho trascorso la giornata. Ho tenuto troppo poco questa mano perché la cosa conti come un vantaggio acquisito”. Nel momento in cui la signora Derville rinnovava la proposta di rientrare in sala, Giuliano strinse più forte la mano che gli si abbandonava. La signora de Rênal, che già si alzava, tornò a sedersi dicendo con voce languente: “Sono un po’ indisposta, è vero, ma l’aria aperta mi fa bene”. Queste parole confermarono la felicità di Giuliano, che, in quel momento, era all’apice: parlò, dimenticò di fingere, apparve amabilissimo alle due amiche che l’ascoltavano. Tuttavia vi era ancora una certa apprensione dietro quel’eloquenza improvvisa. Temeva che la signora Derville, infastidita dal vento che cominciava a levarsi, e precedeva la tempesta, volesse rientrare senza di loro: allora sarebbe rimasti solo con la signora de Rênal. Aveva avuto, quasi per caso, il cieco coraggio necessario per agire; ma sentiva di essere assolutamente incapace di dire la più semplice parola.  Per quanto lievi fossero i rimproveri di lei, sarebbe stato sconfitto, e reso nullo il vantaggio appena ottenuto.  Fortunatamente per lui, quella sera i suoi discorsi enfaticamente patetici  furono apprezzati dalla signora Derville, che  assai spesso lo giudicava goffo come un fanciullo e assai poco divertente.  La signora de Rênal, da parte sua, con la mano in quella di Giuliano, non pensava a nulla; si abbandonava al puro senso della vita.  Le ore trascorse sotto quel grande tiglio, che la tradizione dice piantato da Carlo il Temerario, , furono per lei un’epoca di felicità. Ella ascoltava con delizia i gemiti del vento nel folto fogliame e il rumore di qualche rada fogoccia che cominciava a cadere sulle foglie più basse. Giuliano non notò un particolare che lo avrebbe molto rassicurato: la signora de Rênal, che era stata costretta a liberar la mano per alzarsi ed aiutare sua cugina a sollevare un vaso da fiori rovesciato ai loro piedi dal vento, appena tornata a sedere gliela restituì quasi senza difficoltà,  come se fosse cosa già convenuta fra loro.

Mezzanotte era suonata già da tempo; si dovette infine lasciare il giardino e separarsi. La signora de Rênal, travolta dalla felicità di amare, era così inesperta che quasi non si faceva alcun rimprovero. La gioia le toglieva il sonno. Un sonno di piombo s’impadronì invece di Giuliano, estenuato dalle lotte che,  per tutta la giornata, la timidità e l’orgoglio avevamo combattuto nel suo cuore. Il giorno dopo si svegliò alle cinque; e, cosa che sarebbe stata crudele per la signora de Rênal  se l’avesse saputa, le rivolse appena un pensiero. Aveva compiuti il suo DOVERE, E UN DOVERE EROICO.  Felice di questo sentimento, si chiuse a chiave in camera sua e si abbandonò con un piacere tutto nuovo alla lettura delle gesta del suo eroe. Quando suonò la campana della colazione, egli aveva dimenticato nei bollettini della grande armata tutti i successi del giorno prima. Nek discendere in sala, pensò con tono leggero: “Bisogna dire a questa donna che l’amo”.»

 

Nel seguito della vicenda, Julien finisce per rimanere vittima della propria implacabile strategia calcolatrice: seduce la signora de Rênal e ne diventa l’amante, ma punta più in alto e sta per sposarsi con la marchesina Mathilde de la Mole, quando l’altra, pazza di gelosia, ne denuncia il cinico arrivismo e manda all’aria il matrimonio; infuriato, Julien tenta di ucciderla e viene condannato a morte. Prima di salire sul patibolo, potrà vedere entrambe le donne struggersi d’amore per lui: la signora de Rênal, disperata, morirà tre giorni dopo la sua esecuzione; l’altra si impadronirà della sua testa e la coprirà di baci, come l’eroina della novella di Boccaccio «Lisabetta da Messina».

Ora, quel che interessa notare è che Julien, una sorta di Bel Ami “ante litteram” e decisamente più sfortunato, sfrutta il proprio fascino sulle donne fino a quando non rimane preso nella propria trappola; ma non ha il coraggio di guardarsi dentro sino in fondo: vede il proprio arrivismo e la propria incontenibile ambizione, ma li traveste entrambi con il mito “napoleonico” che si è costruito leggendo le gesta dell’imperatore; e giustifica il proprio cinismo con il “dovere” (Stendhal adopera volentieri proprio questa parola) di emulare il suo idolo, di essere degno di lui. Se si vedesse quale è veramente, il figlio scontroso e frustrato di un avido borghese proprietario d’una segheria, pieno di rabbia contro il mondo intero a causa della propria fanciullezza solitaria e senza affetti, si renderebbe conto che egli usa le donne per vendicarsi di torti immaginari e per lenire le ulcere di un orgoglio e di una ambizione esasperati, patologici, devastanti.

Non è mai felice, anche quando potrebbe esserlo; non ha pace né riposo, perché tende sempre più in alto, come un ossesso; disprezza tutti, perché non ama se stesso; o meglio si ama, ma nel modo sbagliato, cioè in modo narcisista. In realtà, quel che cerca è una rivalsa sul mondo intero, una rivalsa che non potrà mai ottenere, perché qualunque meta è troppo modesta per la sua sete implacabile di ascesa sociale, di affermazione e di prestigio.

È malato di volontà di potenza; e, come lo sono tutti i suoi simili, è malato perché sa, perché sente oscuramente di essere un debole, un fallito, un mal riuscito; ma non lo ammetterebbe mai, e per questo preferisce pensare che il mondo intero sfaccia schifo, che sia popolato solo da uomini stupidi e volgari, mentre lui solo è nobile, sensibile, intelligente e, dunque, meritevole di riconoscimenti, onori e ricchezze.

Povero Julien, come è bravo a raccontarsi storie del genere; come è abile nel tenersi lontano dalla verità – la verità che, forse, non solo non è quel genio incompreso che crede di essere, quel Byron in sedicesimo che vorrebbe interpretare, ma forse non è neppure un essere umano nella media, forse è al di sotto della media, se un uomo va giudicato non per i doni che la natura gli ha dato, ma per l’uso che ha saputo farne e per la consapevolezza profonda di sé.

E madame de Rênal? E madame de Rênal che s’innamora di lui come una ragazzina, lei, donna più grande, sposata e madre di famiglia (Julien si è introdotto in casa sua appunto come precettore dei suoi figli); che se ne innamora in perfetto candore, senza quasi rendesi conto dell’adulterio cui si abbandona: perché, per la prima volta in vita sua, si sente viva, via e felice ed anche, a suo modo, innocente? Una sola volta il pensiero di stare tradendo il marito la turba (e questo prima di consumare l’adulterio), soprattutto per le conseguenze cui la esporrebbe davanti alla comunità; ma subito si riprende, dicendo a se stessa che, se pure ama Julien, tuttavia non toglie nulla al marito, perché non ha mai provato per quest’ultimo un sentimento del genere. Ecco come si rassicura in un attimo, e poi non ci pensa più; in compenso, si getta nelle braccia di un giovinetto viziato e senza scrupoli, malato di egocentrismo, che gioca con lei una commedia assurda e pietosa, la commedia dell’amore, mentre non ne è affatto innamorato, la usa soltanto per dimostrare a se stesso quel che vale, per punire la “bestialità” del marito, borghese presuntuoso e sindaco del paese; e per far vedere a tutti di che cosa è capace, se solo ci si mette.

Una povera ingenua, allora, una madame Bovary “avant la lettre”, malata di romanticismo e di disarmato candore, finita per mera sfortuna nelle avide mani di un arrampicatore sociale, di un cacciatore di dote che non le vuol bene, perché lei è già sposata e non potrebbe mai appagarne le sconfinate ambizioni? Questo è ciò che le piacerebbe pensare di se stessa: perché, se pure è una creatura ingenua, alla sua ingenuità si mescola un bel po’ di malizia; e, se pure è vittima di un arrampicatore sociale, da parte sua non desidera affatto resistergli, perché anch’ella geme da anni nella propria frustrazione, e l’arrivo del bel precettore le ha rivelato il vuoto e il grigiore della sua esistenza precedente.

Che triste commedia recitano tutti e due: la commedia degli inganni. S’ingannano a vicenda; ma ingannano anche se stessi. La realtà è molto più prosaica di quel che amerebbero credere; ma, per guardarla, occorre coraggio, occorre l’abitudine alla lealtà verso se stessi; e occorre una certa dose di fierezza, che è cosa ben diversa dal misero orgoglio di Julien e dalla falsa coscienza di lei, che vorrebbe sempre lavarsi la coscienza con le ragioni dell’amore.

Ci vuole altra stoffa, ci vuole altra capacità di spingere lo sguardo al di là delle apparenze; e, inoltre, ci vuole altra spina dorsale.

Vivere con pienezza e con autenticità i propri sentimenti è cosa seria, per persone adulte, capaci di guardare in se stesse: anche se dovessero vedere qualche cosa di poco bello, qualche cosa di molto diverso da ciò che credevano vi fosse.