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La «Rubyfruit Mafia», la Mafia lesbica, comanda ad Hollywood?

di Francesco Lamendola - 23/01/2013


 

 

 

Rita Mae Brown è una scrittrice americana che, oltre ad essere stata in primissima fila nei più svariati movimenti per la “liberazione” degli anni Sessanta e Settanta, è stata anche acclamata e festeggiata profetessa  della “liberazione lesbica”, specialmente con una serie di romanzi, il più famoso dei quali è stato «Rubyfruit Jungle» («La giungla di fruttirubini», con evidente allusione all’aspetto dei genitali esterni femminili), apparso nel 1973 e subito andato a ruba come il nuovo Vangelo delle donne omosessuali, americane e non.

Nel corso del romanzo, dichiaratamente autobiografico, a un certo punto la protagonista (che, fra l’altro, ha definito l’aborto clandestino come un «grattar via dalla pancia un po’ di porcheria»), parlando con una delle sue numerose amanti, si sente dire da quest’ultima: «Una volta provato cos’è con le donne, gli uomini diventano una barba tremenda. Non sto cercando di denigrarli, cioè a volte come esseri umani mi piacciono, ma sessualmente non dicono niente. Direi che se una donna non ha provato altro, si può anche pensare che non è male».

Detto, fatto: così come il libro ha letteralmente spopolato, per anni, nelle classifiche dei best-seller più venduti e più tradotti all’estero, anche il suo nuovo Verbo di liberazione ha spaziato e imperversato da un confine all’altro della Terra; si mormora, ormai da anni, che ad Hollywood detti praticamente legge la Rubyfruit Mafia, la “mafia di fruttirubini”, formata da una sorta di “cartello” o “associazione” (ma alcuni sostengono che non si tratta di un vero e proprio gruppo organizzato, bensì, “semplicemente”, della forza del numero) di sceneggiatrici, produttrici, registe lesbiche, le quali, dichiaratesi tali e impegnate nella loro furiosa battaglia per la “liberazione” dai ceppi della schiavitù eterosessuale, sono attivamente impegnate per diffondere la loro “buona novella”, ossia che il maschio non è più necessario.

Rita Mae Brown, del resto, si è spinta ancora più in là; da tempo ella sostiene che tutte le forme di oppressione e di discriminazione hanno un comune denominatore, e che questo consiste nella società eterosessuale, con le sue regole, le sue repressioni, le sue imposizioni, eccetera; dottrina che consiste non solo nella necessità di “liberare” le donne dall’odiosa repressione e dallo sfruttamento operati per secoli dal maschio, ma nel negare qualunque legittimità, qualunque valore, qualunque significato, bellezza o dignità al rapporto eterosessuale; e nel sostenere che solo nelle braccia di un’altra donna, la donna può trovare la propria pienezza esistenziale ed il proprio completo appagamento sessuale.

Inutile precisare che, in una simile ottica, si parte dalla tipica concezione edonista, materialista e utilitarista, per cui “felicità” è sinonimo di “benessere” e, a sua volta, “benessere” è l’appagamento dei sensi; un approccio che nasce con il secolo dei Lumi e con la fiducia illuminista nella ragione e nel progresso; e che tende ad attribuire, con Rousseau e con lo stuolo innumerevole dei suoi nipotini, la colpa di ogni male, storico e metafisico, alla società, mentre l’essere umano, di per sé, sarebbe buono, innocente e, appunto, “felice”; senza riflettere che nessuno sa che cosa sia l’essere umano anteriormente e indipendentemente dalla società, perché l’essere umano al puro stato di “natura” è una astrazione che non riusciamo neanche ad immaginare, dato che quello che noi conosciamo, e sul quale siamo in grado di svolgere osservazioni e riflessioni, è sempre e soltanto l’uomo sociale.

In un certo senso, questa cultura lesbica, dilagata dagli Stati Uniti in Europa e, sia pure a scoppio ritardato, diffusasi negli ultimi anni con incredibile velocità, al punto che ormai non fa più neppure notizia perché si tende a darla piuttosto per scontata, si è spinta anche oltre le frontiere cui da sempre mirava la cosiddetta cultura omosessuale maschile; la quale ultima, infatti, raramente era giunta a teorizzare che il solo rapporto sessuale “giusto” sia quello fra due uomini e che vi sarebbe qualche cosa di intrinsecamente sbagliato e patologico nel rapporto fra uomo e donna, oltre che di socialmente e politicamente reazionario.

Ma tornando alla Mafia lesbica hollywoodiana (così battezzata dalla rivista americana “W”), a proposito della quale si potrebbe fare una quantità impressionante di nomi e di cognomi più o meno illustri, il fatto che si tratti di una “Velvet mafia”, di una “mafia di velluto”, non dovrebbe portare a sottovalutarne la forza e la capacità di penetrazione capillare: chi controlla Hollywood, infatti, controlla in buona parte l’immaginario collettivo americano e, di riflesso, l’immaginario collettivo mondiale: dunque la sua capacità di diffondere nuove mode culturali è potenzialmente illimitata. Film, telefilm, sceneggiati televisivi, tutto serve a veicolare l’immagine della lesbica rampante e felice, della lesbica in carriera che se ne ride delle donne ancora schiave dell’uomo, ancora schiave – “horribile dictu” – dei bambini, dei biberon e dei pannolini da cambiare; per non parlare della letteratura, della stampa, della pubblicità, di Internet, insomma di tutto quello che è immagine, parola scritta o vocale, comunicazione di massa.

Non si tratta di immaginare chissà quali complotti nell’ombra, chissà quali tremende cospirazioni pianificate a tavolino da insospettabili poteri occulti; si tratta di persone che hanno dichiarato e sbandierato con fierezza e aggressività la loro identità omosessuale e che si stanno impegnando, in modo dichiarato ed esplicito, per divulgare il loro punto di vista: che non è, lo ripetiamo, semplicemente di libertà e di tolleranza nei confronti delle minoranze sessuali, ma tende a discriminare gli eterosessuali e a rovesciare il rapporto, numerico e culturale, esistente in passato a vantaggio della maggioranza, presentando il rapporto sessuale e affettivo fra uomo e donna come una forma inferiore, primitiva, intrinsecamente sbagliata e socialmente ingiusta, dalla quale le persone, e specialmente le donne, devono emanciparsi, se vogliono potersene andare in giro a testa alta e considerarsi pienamente “moderne” e “liberate”.

I primi segni di questa mutazione cultuale sono già evidenti da tempo, anche al di fuori della prospettiva omosessuale. Già da anni, e specialmente in certi ambienti sociali “progressisti” e benestanti, la donna divorziata tende a guardare dall’alto in basso le sue amiche sposate, e queste ultime tendono a guardare a lei come a un modello vincente, meritevole di ammirazione e, se possibile, degno di essere imitato. La ragione è ovvia (al di là di eventuali componenti psicologiche dettate da un istinto di rivalsa, specialmente per quante hanno subito il divorzio a causa di un tradimento o di un abbandono del marito): la donna divorziata, con dei figli ormai grandi che non vivono più con lei, e per i quali non deve preoccuparsi troppo economicamente, perché la sentenza del giudice ha fissato un consistente assegno mensile da parte dell’ex marito, è infinitamente più libera di muoversi, di viaggiare, di frequentare amicizie, di assistere a conferenze, di recarsi in palestra o dall’estetista, insomma di fare tutte quelle cose che le donne sposate non hanno il tempo di fare, di dedicarsi a quegli interessi, a quelle iniziative che quelle possono appena sognare, tutte prese, come sono, negli impegni e nelle responsabilità domestici.

È significativo che questa nuova percezione della donna divorziata o separata, libera di dedicarsi al proprio aspetto, al proprio svago, alla propria cultura e, perché no, al proprio piacere, anche in senso specificamente sessuale, sia stata elaborata proprio nelle fasce sociale medio-alte e in quelle culturalmente più avanzate, fra donne in possesso di un titolo di studio universitario, insomma fra donne intellettuali o che si ritengono tali, e che come tali vengono percepite e giudicate dalle loro amiche e conoscenti, nonché dai loro amici e colleghi di sesso maschile. E anche se tale superiorità culturale consiste solo nel fatto che, invece di leggere «Oggi» o, magari (Dio non voglia), «Famiglia cristiana», leggono i libri di Naomi Klein, la pagina di psicologia di Umberto Galimberti e, naturalmente, i romanzi di Umberto Eco, e anche se si riduce nell’identificarsi in personaggi come Marina Ripa di Meana o nel seguire i salotti televisivi con Alba Parietti o con i soliti psicanalisti e psicanaliste “à la page”, per i quali non c’è altro Dio che Freud e non ci sono altri profeti che quelli ufficialmente autorizzati dal Maestro.

Adesso questa cultura “femminista” sta facendo un salto di qualità e sta presentando il lesbismo come il “giusto” orientamento sessuale, quello “vincente” e il solo realmente “liberato”; e, di conseguenza, la condizione della donna eterosessuale, specialmente se sposata, come deprecabile e biasimevole, degna soltanto di una donna sottomessa, pavida, inconsapevole. Sacerdotesse della “liberazione” femminista, come Rita Mae Brown o Germaine Greer (che definiva la donna “naturalmente” portata al lesbismo) non avrebbero osato sperare, quando predicavano simili cose una trentina o anche una quarantina di anni fa, che esse sarebbero uscite dal regno delle parole, della letteratura o del cinema, per divenire realtà nella vita d’ogni giorno.

Non è solo un nuovo modello di donna, vincente e in carriera, e soprattutto “felice” (secondo loro), ad aver conquistato le luci della ribalta, ma è soprattutto l’immagine tradizionale della donna eterosessuale, e di riflesso, quella della famiglia basata sull’unione dell’uomo e della donna, ad uscirne gravemente compromessa. Ciò che viene suggerito, e talvolta apertamente proclamato, è che la donna che si unisce con l’uomo, che si sposa con l’uomo, che mette al mondo dei figli, è una povera creatura meritevole di compassione, un imbarazzante retaggio del passato, destinato ad essere superato; e che la famiglia nata dall’amore di un uomo e di una donna è anticaglia da rottamare, qualche cosa che non trova più spazio nella realtà moderna e che suscita pena e compatimento.

In compenso, vengono rivalutate le unioni di fatto contro la famiglia tradizionale, e le unioni omosessuali contro quelle eterosessuali; vengono esaltate le “famiglie” formate da due donne, o due uomini, che adottano dei bambini, perché “l’importante è l’amore” – e, nel caso delle lesbiche, che ottengono dei bambini mediante la fecondazione eterologa (cfr. anche il nostro precedente articolo: «Ma il problema è l’omosessualità o l’omofobia?», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 05/07/2012).

Ci si può domandare a chi giovino una tale denigrazione della donna eterosessuale, della sposa, della madre, e una tale deformazione unilaterale della realtà della famiglia basata sull’unione dell’uomo e della donna; e a questo punto, sì, è difficile immaginare che si tratti di una campagna mediatica puramente spontanea e priva di registi, data la sua capacità pervasiva e la sua martellante insistenza, per non parlar della vastità dei mezzi, anche economici e finanziari, messi in campo per assicurarle la vittoria contro le forze brutte e cattive della tradizione, dell’immobilismo e dell’oscurantismo.

Quando si presenta come sbagliata, frustrante e fallimentare la figura della donna che cerca di completarsi e di realizzarsi nell’unione con l’uomo e nella procreazione dei figli; quando si presenta l’uomo come il peggior nemico della donna, un essere subdolo, egoista e meschino, geneticamente incapace di assicurare alla propria compagna amore, tenerezza, comprensione; quando si sminuisce, si denigra, si insulta la famiglia fondata sul legame stabile fra l’uomo e la donna, mettendone in luce solo gli eventuali aspetti negativi e passando del tutto sotto silenzio tutti quelli positivi, si fa molto di più che una semplice opera di proselitismo culturale a vantaggio di una certa idea della donna, della famiglia e della società rispetto ad un’altra: si conduce una guerra senza quartiere contro ciò che di più bello, di più nobile e di più fecondo sta alla base della convivenza umana, vale a dire un’opera intensa, imperterrita e deliberata di distruzione sociale.

Che si tratti anche, e soprattutto, di un’opera deliberata di distruzione morale; che non vi sia nulla di casuale in essa, nulla di spontaneo, tranne forse da parte dei soliti utili idioti, i quali si limitano a ripetere frasi fatte, basate sulla cultura dei “diritti” contrapposta a quella dei “doveri” (come se quelli fossero possibili in assenza di questi), è una nostra intima convinzione, per la quale non possiamo esibire delle “prove” nel senso abituale del termine, anche se esiste una tale quantità di indizi, da renderla un’ipotesi tutt’altro che improbabile.

Deformare volutamente la realtà; presentare una immagine parziale delle cose, sottolineando solo ciò che è funzionale alla propria tesi e tacendo, minimizzando, ridicolizzando tutto ciò che con essa contrasta, è una antica, inveterata prassi dei faziosi, dei disonesti, di quanti vogliono contrabbandare la parte per il tutto e, con ciò stesso, l’apparenza per la sostanza, l’ingiustizia per la giustizia, l’errore per la verità. A chi abbia occhi per vedere e una testa per riflettere, accorgersi di tutto ciò…