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Le «Meditazioni sulla felicità» di Pietro Verri, tipico esempio di filantropismo illuminista

di Francesco Lamendola - 30/01/2013


 

 

Pietro Verri, capofila degli illuministi lombardi, fondatore dell’Accademia dei Pugni e animatore, col fratello Alessandro, della rivista «Il Caffé», è soprattutto noto al grande pubblico come autore del celebre pamphlet «Osservazioni sulla tortura», che, insieme all’ancor più celebre «Dei delitti e delle pene» dell’amico Cesare Beccaria, si può considerare come lo scritto più rappresentativo di quella stagione della cultura italiana.
Figlio di un conte, fornito di una solida base culturale, grande ammiratore di Montesquieu e dei Lumi venuti dalla Francia, ambiziosissimo, ben addentrato nel sistema di potere austriaco in Lombardia e deciso a sfruttare sino in fondo tale circostanza per giungere ai livelli decisionali dell’amministrazione e così introdurre le riforme che, sul modello dell’assolutismo illuminato, era convinto di poter realizzare, per portare ai suoi concittadini benessere e giustizia, egli, Voltaire in sedicesimo, incarna la figura del “philosophe” in versione nostrana.
L’operetta in cui più caratteristicamente emergono la sua “forma mentis” e la sua prospettiva filosofica è, tuttavia, uno scritto meno conosciuto, non troppo modestamente intitolato «Meditazioni sulla felicità» (ma la modestia non era il suo forte), pubblicato nel 1763 e subito apparso, nella cerchia dei suoi amici e ammiratori, come il vero “manifesto” non solo dell’Accademia dei Pugni, ma di tutto l’ambiente culturale illuminista più avanzato: quello, per intenderci, che guardava con malcelata diffidenza, nonché con una punta di disprezzo, il moderatismo di Giuseppe Parini e di tutti quegli illuministi che non accettavano l’idea, tipicamente francese, che compito del movimento fosse quello di azzerare la cultura esistente e di ricostruirne una nuova di zecca, con l’intento di portare agli uomini la “felicità”.
Pietro Verri, infatti, fa propria l’istanza dell’Illuminismo francese, che vede nell’uso libero e spregiudicato della ragione, nell’adozione del metodo empirico e sperimentale quale strumento di indagine della realtà, nella fiducia nel Progresso illimitato, gli strumenti per guidare il genere umano verso il benessere e la felicità, considerando queste due ultime cose praticamente come sinonimi.
Che si possa raggiungere il benessere, ma non per questo godere anche della felicità, è cosa che non gli passa neanche per l’anticamera del cervello; né lo sfiora l’idea che, forse, sarebbe opportuno definire che cosa si intenda per “benessere”, distinguendo quello materiale dallo spirituale, e che cosa si intenda per “felicità”; né, infine, che la felicità, dopotutto, è una cosa talmente personale, talmente privata, talmente intima, che ciascuno non può che cercarla a modo suo, e che, qualora la si voglia portare agli uomini come si potrebbe fare con una formula chimica o con un nuovo ritrovato della medicina, inevitabilmente li si forza ad accettare qualcosa che non andrà bene per tutti, che a molti, anzi, apparirà come una indebita invasione della sfera privata e come un tentativo totalitario di imporre un’etica di Stato.
Tali pensieri non sfiorano il nostro intellettuale, per la semplice ragione che anch’egli condivide l’entusiasmo degli illuministi francesi per il cosmopolitismo e per il filantropismo, dunque gli sembra assiomatico che la felicità debba essere una ricetta valida per tutti, così come la ragione è il tratto comune ad ogni essere umano; né, per la stessa ragione, lo sfiora l’idea che da una tale premessa deriva inevitabilmente che chi non dispone del bene della ragione, o non ne dispose nella misura ritenuta necessaria dagli illuministi, a rigore non va considerato come un proprio simile – e in tale vasta categoria rientrano “selvaggi”, malati di mente, bambini e parecchie altre categorie di persone, per non parlare delle creature non umane che, evidentemente, non godono di alcun diritto, e nei confronti delle quali è lecita ogni forma di manipolazione, specialmente se in nome della scienza e del progresso.
C’era stato, sì, in quel di Napoli, un certo Giambattista Vico: un personaggio strano, un filosofo senz’arte né parte, che aveva osato negare la marcia incessante e trionfale del Progresso, parlando di “corsi e ricorsi” e insinuando addirittura che, così come le età della storia dei popoli  corrispondono a quelle della vita umana, così le età “primitive”, paragonabili all’infanzia dell’uomo, per la loro facoltà creativa e immaginativa sono suscettibili di produrre capolavori come i poemi omerici o la «Divina Commedia»; ma le sue parole erano scivolate via come l’acqua di un torrente fra le sabbie del deserto, senza quasi lasciar traccia.
Come! Mettere in dubbio le “magnifiche sorti e progressive” della civiltà e, per sopramercato, tessere l’elogio del Medioevo; non solo: aver la sfrontatezza di dire che la vera scienza, di cui si può avere autentica comprensione, non è la matematica, né la fisica, ma la storia, proprio perché fatta dagli uomini; e così svalutare la “rivoluzione” scientifica di Galilei, Cartesio, Francis Bacon, Newton e Leibniz: inaudito! Meno male che anche a Napoli le idee venute da oltr’Alpe avevano messo radici e prosperato rapidamente, a dispetto degli spropositi di quel cervello strambo di Vico, il quale aveva criticato Cartesio dicendo che non si dà vera scienza se non si può produrre ciò che si conosce; e l’io cartesiano può avere bensì coscienza di se stesso, ma non per questo conoscenza. L’io non può produrre se stesso; solo Dio, creatore della natura e dell’uomo, può avere piena conoscenza e, quindi, perfetta scienza di essi: così aveva detto Vico.
Ecco un concetto intollerabile per Pietro Verri: infatti le sue «Meditazioni sulla felicità» altro non sono che il tentativo di fondare un’etica laica, un’etica senza Dio, basata unicamente sulla ragione e capace di auto-regolarsi e di auto-definirsi, e ciò secondo un criterio di tipo essenzialmente utilitaristico. Vero è, in definitiva, ciò che risulta utile: più precisamente,  ciò che risulta utile alla comunità o, comunque, alla maggioranza degli uomini. Ebbene l’Illuminismo, per Pietro Verri, possiede i requisiti per sanare completamente i mali dell’umanità e per rispondere efficacemente a tutti i suoi bisogni fondamentali: fisici, sociali e spirituali.
Nessuno, fino a quel momento, aveva mai osato formulare una dottrina di tal genere: né Platone o Aristotele, né Buddha o Gesù Cristo; nessuno aveva mai sostenuto che alcuni intellettuali, mediante l’uso della ragione, sono in grado di realizzare il Paradiso in Terra o giù di lì; non solo: che devono realizzarlo, che hanno il dovere di realizzarlo, che ciò piaccia o non piaccia agli altri uomini, ai quali, del resto, non si chiede di collaborare in tale operazione, quanto piuttosto di lasciar fare, di aver piena fiducia negli “illuminati” e dar loro carta bianca, perché attuino tutte quelle riforme e quelle novità che essi giudicheranno opportune e necessarie.
Il fatto che sul trono di Vienna sieda una tipica sovrana “illuminata”, Maria Teresa d’Asburgo, e che i suoi governatori favoriscano a Milano, suo dominio diretto, la politica riformista ispirata al programma illuminista, certo favorisce la battaglia dei nostri coraggiosi “pugilatori”; anche se qualcuno potrebbe forse chiedesi, con un po’ di malizia, ma non senza qualche valida ragione, come si sarebbero regolati tutti quegli intellettuali lombardi, promettenti rampolli di una aristocrazia scandalosamente privilegiata, o figli della ricca borghesia, entrambe però debitamente “illuminate”, se nella capitale dell’Impero avesse tirato un’altra aria e se avessero dovuto remare controcorrente, invece che con il vento in poppa, per diffondere le loro idee.
Portare agli uomini la felicità: c’è di che far tremare le vene e i polsi a chiunque consideri con un minimo di serietà un programma così ambizioso e radicale; ma Pietro Veri e i suoi amici non sono tipi da turbarsi per così poco: a loro basta aver poche idee, però chiare e distinte, come voleva Cartesio, per procedere con la massima energia verso quel progetto filantropico che, chissà come, ricorda tanto la storiella del boy-scout il quale, pur di compiere la sua buona azione quotidiana, cerca di costringere la vecchietta ad attraversare la strada, offrendole il braccio, anche se ella, a dire il vero, non ha alcun bisogno del braccio, né desiderio di attraversare la strada.
Così si esprimono Dino Carpanetto e Giuseppe Ricuperati a proposito delle «Meditazioni», nel saggio «L’Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, Lumi (Bari, Laterza, 1986, 1990, pp. 325-27):

«Bisognava cambiare nel senso più ampio del termine la cultura della classe dirigente, trovare i legami con i “philosophes” e con una nuova concezione del mondo. Questo spiega in termini che non sono soltanto psicologici  la distanza dal padre o dall’Accademia dei Trasformati, di cui era membro Giuseppe Parini, ma anche da quest’ultimo e dal decoroso e moderato Illuminismo che questi avrebbe espresso soprattutto dopo il 1762. Verri poneva risolutamente, e in termini complessi e non subalterni, il rapporto politica-cultura. L’intellettuale con cui si identificò era quello che voleva utilizzare i meccanismi del potere per realizzare le riforme economiche, istituzionali, culturali e morali. Nella sua scrittura “Meditazioni sulla felicità” del 1763 Verri delineava un’etica laica e spregiudicata da proporre a sé e al gruppo dei giovani illuministi, che stavano investendo vivacemente e creativamente il mondo lombardo. Molti sono i tratti che colpiscono in questo saggio del non ancora trentenne intellettuale: prima di tutto l’accettazione dei propri privilegi, ma contemporaneamente la volontà e quasi l’obbligo di usarli per il bene pubblico. C’è l’affascinante calcolo dei piaceri e dei dolori e una visione implicitamente, ma decisamente materialistica e non religiosa dell’esistenza. Un altro dato è la complessa analisi dell’ambizione, fra le passioni “la più funesta e insieme la più benemerita”. Emerge, con una compostezza ben diversa dall’immagine quotidiana che di lui ci ha consegnato il famosissimo epistolario, il desiderio di affermazione di Verri, che non è però un sentimento banale o limitato. Più che il successo immediato, Verri teorizza quello, difficile ma duraturo, che nasce dall’affermazione culturale. Il compito dell’intellettuale è quello di assicurare la pubblica felicità, ma non è facile orientarsi fra i diversi tipi di comandamenti, quelli della religione, quelli dell’onore e delle leggi civili. È possibile che ci sia un contrasto fra questi tre impulsi. In tal caso l’unica guida è il calcolo dell’utilità  e dell’interesse generale. Verri propone, come base dell’azione politica, un’etica della responsabilità che nasce da una filosofia utilitaristica. Così il suo realismo gli impedisce di scegliere una volta per tutte il modello della democrazia egualitaria proposta da Rousseau. La via secondo cui procedere è di collocare l’utopia come base della riforma. Lo sviluppo delle leggi civili – la vera strada da seguire – è in grado di render superflue e quindi gradatamente cancellare le leggi dell’onore, che mantengono una loro utilità in una società meno progredita. Questo calcolo del piacere e dei dolori, applicato all’individuo e alla società, se porta Verri a scegliere una morale e una politica del tutto separata dalla religione, con più di un’eco di Machiavelli, non si riduce a una geometria o ad una meccanica delle decisioni, in quanto Verri individua nell’uomo anche due impulsi fondamentali di tipo emotivo: la compassione e il bisogno d’amicizia. L’equilibrio fra l’uso della ragione e questi due sentimenti è quanto deve realizzare l’uomo. L’opera si conclude con un “excursus” sulla storia umana vista come progresso, un progresso continuamente spezzato da catastrofi o processi di decadimento, ma capace di arricchirsi e di crescere anche sulle battute d’arresto. È una storia dominata dalla società occidentale, che ha visto succedersi Grecia, Roma, i barbari, il medioevo, le crociate, le grandi monarchie nazionali, le grandi scoperte geografiche. L’incivilimento non è un percorso indolore e ha sempre risvolti drammatici, ma le esperienze che si accumulano arricchiscono l’umanità. I bisogni stessi sono una sfida e un potente meccanismo di progresso. Al contempo sono cambiati i modelli della cultura e il suo stesso ruolo. Se prima la repubblica letteraria comprendeva solo eruditi e “curiosi”, i nuovi intellettuali di oggi sono scienziati, tecnici, agrimensori, economisti. “L’agricoltura, le finanze, il commercio, l’arte di governare i popoli, questi sono gli oggetti che occupano i popoli di studio. La stampa e le poste, comunicando dall’una al’altra estremità dell’Europa le scoperte, danno una vera esistenza a questo corpo di pensatori diversi…” La circolazione delle idee, che Verri esprime con metafore in cui il richiamo alla luce è fitto e continuo, appare la vera forza del moto “che in questo secolo  ha l’Europa, anche con fondamento prevede il saggio che la libertà civile delle nazioni dovrà dilatarsi”. Nessun paese può sottrarvisi, come nessun sovrano. Non c’è spazio per il tiranno descritto da Machiavelli; c’è solo quello per il principe illuminato, che realizza un programma riformatore. L’ottimismo critico e realistico di Verri si contrapponeva nettamente alla concezione della civiltà come disagio, malessere, allontanamento dall’innocenza primitiva. Nel rapporto fra civiltà e barbarie, egli sceglieva decisamente il primo termine. Del resto la questione, pista da Rousseau, della maggiore felicità del selvaggio rispetto al civilizzato era un astratto e ingegnoso paradosso, più che una verità: all’uomo moderno non restava alcuna via d’uscita se non quella di portarsi alla perfezione e al massimo incivilimento. Da Machiavelli e Montesquieu Verri riprendeva il problema del rapporto clima-sistema politico per differenziare l’Occidente, dove si era affermata nel tempo questa idea di libertà e sviluppo, dall’Oriente, dove il potere si era espresso con immobili regimi di dispotismo. L’opera di Pietro Verri si presenta così come un vero e proprio programma generale del gruppo dell’Accademia dei Pugni. Se è possibile individuare nel “Discorso sul vero fine delle arti e delle scienze” di Genovesi il manifesto dell’Illuminismo meridionale, queste ”Meditazioni” lo sono per il gruppo che si era formato intorno a Pietro Verri, di cui facevano parte, oltre al fratello Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Alfonso Longo, Giuseppe Visconti, Luigi Lambertenghi, Giambattista Biffi.»

Balza all’occhio come, per non sciupare l’idilliaco quadretto di un manifesto illuminista pieno di saggezza, di intelligenza e di buon senso, gli autori riescano a compiere il salto mortale di rilevarne i limiti, ma senza spingere mai a fondo la critica, anzi, sforzandosi di trasformarla continuamente in elogio, non si sa bene di che cosa. Così, per esempio, l’ingenuo e arrogante etnocentrismo del Verri, che fa coincidere la storia della civiltà mondiale con quella dell’Europa (oltre a far coincidere la storia con la civiltà in quanto tale), tagliando fuori le culture degli altri continenti, viene, sì, rilevato, ma senza affatto insistervi: e questo a quasi tre secoli dalla scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo e dopo che le relazioni di uomini come Matteo Ricci avevano ampiamente informato le persone colte d’Europa che, in Cina, fioriva una civiltà che non era seconda a nessuno, né sul piano materiale, né su quello spirituale.
Anzi, riprendendo le tesi più discutibili di Montesquieu e i suoi peggiori pregiudizi (Montesquieu, nello «Spirito delle leggi», aveva sostenuto, alla lettera, che basta spostarsi dal Nord al Sud dell’Europa, per non parlare dell’Africa e dell’Asia, per vedere la moralità letteralmente liquefarsi con l’aumentare del caldo), Pietro Verri non si perita di affermare che l’Oriente, generica espressione che comprende tutto quanto si trova al di là del Bosforo, del Volga e degli Urali, è, per sua natura, portato al dispotismo e all’immobilismo, mentre l’Europa è la terra d’elezione della libertà e dello sviluppo. Discorsi da osteria, non ragionamenti da filosofo: ma guai a dirlo; guai a dire che Pietro Verri ragiona con poco senso critico e con pochissima libertà dai pregiudizi (proprio lui, l’illuminista che concepisce se stesso come l’indomito campione della lotta contro oscurantismi e pregiudizi); anzi, ecco le più curiose acrobazie dialettiche per mettere in bella luce la “modernità”, l’arditezza e, nello stesso tempo, la concretezza piena di buon senso, del programma esposto nelle «Meditazioni sulla felicità».
Che altro è, infatti, se non acrobazia intellettuale, sostenere che Pietro Verri pone l’utopia alla base del suo programma riformista, e poi dire che egli rifiuta le conclusioni democratiche ed egualitarie di Rousseau, proprio a causa della sua propensione al realismo? E che cosa significa dire che, per Verri, «il compito dell’intellettuale è quello di assicurare la pubblica felicità» (niente di meno!), e poi subito confessare candidamente che egli non sa a quale idea di felicità bisogni rifarsi; e che, perciò, opta per una “felicità” intesa in senso utilitaristico, ove “bene” è ciò che si rivela utile per l’interesse generale? E che cosa vuol dire, infine, che Verri propone un’etica della responsabilità, aggiungendo subito dopo che tale etica nasce da una filosofia utilitaristica: come se le due cose, principio di responsabilità e principio dell’utile, non fossero completamente diverse e, non di rado, perfino diametralmente opposte?
Quante contorsioni, quanti arzigogoli per macinare acqua nel mortaio di un neo-illuminismo che vuole magnificare se stesso ad ogni costo e che, dunque, pretende di celebrare i fasti dei propri padri fondatori; che non vuole assolutamente permettere che questi ultimi possano sfigurare, a costo di astenersi proprio nei loro confronti da quell’uso libero e spregiudicato della ragione, che è il primo comandamento, inciso nelle tavole della legge illuminista.
E poi, diciamola tutta: questi intellettuali che vogliono portare la felicità al mondo, fanno paura: perché si è visto di cosa sono capaci, non appena riescono a salire sul carro dei vincitori di turno…