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Sul terrorismo israeliano

di Enrico Galoppini - 21/07/2006

 
  

Autore: SERGE THION (a cura di)
Titolo: SUL TERRORISMO ISRAELIANO
Editore: Graphos
Pagine: 252
Prezzo: 22 euri

 

Riflettendo sulla tragedia che da circa un secolo investe il Vicino Oriente e, nello specifico, la Palestina, spesso mi sono chiesto se abbia un senso scrivere ancora un articolo in merito. Lontani del teatro degli avvenimenti, non si è in grado di fornire informazioni di prima mano, ma a questo pensano egregiamente i palestinesi stessi e gli attivisti che, da ogni parte del mondo, vanno a testimoniare che quel popolo, sebbene obliato da quell’autentica cricca che è la «comunità internazionale», non è stato abbandonato dalle persone alle quali la parola «giustizia» dice ancora qualcosa[1]. Ma se in Palestina si combatte una vera e propria guerra di liberazione nazionale, chi sente - a migliaia di chilometri di distanza - che quella lotta è giusta e sacrosanta non può che impegnarsi nella cosiddetta «guerra dell’informazione». Una ‘guerra’, questa, che necessita innanzitutto di una strategia adeguata ai mezzi di cui dispone la parte svantaggiata. I filo-palestinesi, dunque, non avendo accesso a tv e giornali ad ampia diffusione, se non vogliono ridursi ad una critica ritualizzata, perdendo perciò in partenza, hanno un’unica possibilità: cambiare le regole imposte dai «padroni del discorso».

 

Intitolare un libro Sul terrorismo israeliano è, in questa prospettiva, una scelta vincente. Leggendo il volume curato da Serge Thion e pubblicato da Graphos[2] si è posti di fronte ad una scelta: o prendere atto che Israele è uno Stato fondato sul terrorismo («di Stato», appunto), oppure smetterla di versare lacrime per i «poveri palestinesi» salvo poi condannarne le azioni di resistenza come «terrorismo», né più né meno come impongono con la loro polizia del pensiero i vari ‘intellettuali’ ed opinionisti sostenuti dal potere.

Il libro in questione non si limita comunque ad una mera enunciazione di principio, bensì apporta solidi argomenti.

Si comincia con il saggio di Ronald Bleier, In principio era il terrorismo, che in rapida ma essenziale successione passa in rassegna alcune delle imprese criminali del sionismo. Il peccato originale, ovvero l’espulsione di oltre un milione di palestinesi dalle loro terre, la distruzione di centinaia di villaggi e gli oltre trenta massacri perpetrati tra il 1947-48 e il ‘67[3]; l’attentato dinamitardo, il 22 luglio 1946, all’Hotel King David di Gerusalemme, sede degli uffici del governo mandatario e del suo comando militare (in tutto, 91 morti), e la serie di attacchi antibritannici condotti nel periodo 1945-1948 dall’Haganah, dalla Lehi (o «Banda Stern») e dall’Irgun[4]; l’assassinio, il 17 settembre 1948, del negoziatore di pace delle Nazioni Unite, il conte svedese Folke Bernadotte[5], il cui piano prevedeva il rimpatrio e il risarcimento dei rifugiati palestinesi, tema che all’epoca ancora vedeva in disaccordo gli Stati Uniti e il neonato Stato d’Israele: naturalmente nessuno venne mai condannato, ma ci sono elementi che provano il diretto coinvolgimento del governo israeliano e di quello cecoslovacco, lo stesso che fornì il ponte aereo per le armi ai sionisti durante l’armistizio del ’48 e che risultò decisivo per la vittoria della guerra con gli Stati arabi limitrofi[6]; l’uso del terrore contro gli stessi ebrei d’Israele, teorizzato e praticato dai governi (altro che «apparati deviati»!) allo scopo di cementare la società israeliana: è il caso delle bombe sugli autobus pubblici, spesso provvidenziali per togliere dall’empasse chi, evidentemente, non ha alcuna intenzione di addivenire ad alcuna soluzione politica del conflitto; il massacro di 60 persone inermi a Kibya, un villaggio situato in territorio giordano, condotto il 12 ottobre 1953 come «rappresaglia» dal famigerato «Reparto 101» di Ariel Sharon; le incursioni a Gaza - sotto il dominio egiziano fino al ‘67 - volte ad esasperare già un anno e mezzo prima del 1956, l’anno della Crisi di Suez, il presidente ‘Abd el-Nâser[7]; i reiterati tentativi di smembramento del Libano (importante per le risorse idriche) per crearvi uno Stato-fantoccio[8], i quali hanno condotto al progressivo spopolamento delle sue regioni meridionali: la dissoluzione di tutti gli Stati arabi è proprio uno dei punti-cardine del sionismo[9], e l’attuale vicenda irachena sta a dimostrarlo.

E’ senz’altro da sottolineare il fatto che per tutti gli anni 50-60 gli Stati Uniti - che lungi dall’essere il «pupazzo nelle mani degli ebrei» sono i primi responsabili della perenne destabilizzazione della regione vicino-orientale – non hanno ancora un rapporto privilegiato ed esclusivo con «l’Entità sionista», ed è per questo che al massacro del Libano Israele potrà dedicarsi solo una volta archiviato l’asse con Parigi[10]. Un limite del libro è forse l’idea, che aleggia qua e là, per cui progressivamente gli Stati Uniti si sono identificati con la «causa d’Israele», ma, come John Kleeves ben argomenta, il potere – oggi gli Usa – ha sempre usato gli ebrei come schermo e parafulmine: ebrei in prima linea in politica, nel giornalismo ecc., ebrei additati all’ira popolare in caso di difficoltà[11]. L’alta percentuale di ebrei (che nel corso degli anni, in vario modo, sono stati indotti ad identificarsi nelle sorti del progetto sionista) nelle alte sfere del giornalismo è la causa di un episodio incredibile narrato da Bleier: l’occultamento al pubblico americano del bombardamento da parte dell’aviazione israeliana, nel 1981, di raffinerie di proprietà americana situate in Libano[12]. E’ la questione della «doppia fedeltà», per cui un giorno o l’altro dovranno spiegarci com’è che un cittadino italiano con passaporto israeliano può svolgere il servizio militare sotto le insegne di Tsahal, ammazzare qualche palestinese e rientrare in Italia senza che un magistrato della Repubblica si ponga alcuno scrupolo sulla legalità di tutto ciò.

 

Fatta questa precisazione, Sul terrorismo israeliano ha certo un’infinità di pregi.

Gli autori dei saggi ivi raccolti sono quasi tutti ebrei, una volta tanto non immigrati in Israele, ma emigrati da Israele. Oppure in costante ‘esilio interno’. E questo dopo aver saggiato la «democrazia» di un paese plasmato dalla “struttura esclusivista del sionismo nella quale solo gli ebrei sono trattati come cittadini di prima classe” (R. Bleier, p. 35).

Per una volta tanto, sottolineare l’ebraicità di autori che si pongono contro il sionismo non è un omaggio al politicamente corretto di cui danno prova molti filo-palestinesi troppo sovente ‘stressati’ dalla causa che hanno abbracciato, ma è il giusto riconoscimento a uomini e donne oneste che naturalmente si trovano tra tutti i popoli e le fedi religiose. Detto questo, se si è giunti al punto che se oggi un non ebreo viene a trovarsi in imbarazzo per aver criticato pubblicamente il sionismo destrutturandone i miti fondatori lo si deve in primo luogo ad un atteggiamento remissivo imposto ed accettato in virtù di sensi di colpa iniettati a dosi da cavallo nei popoli europei giusto a partire dal momento in cui Israele è diventato il fedele alleato degli Stati Uniti.

 

Un altro grande merito di questo libro è quello di proporre ampi stralci dei diari di Moshe Sharett (già Primo Ministro e Ministro degli Esteri dello Stato ebraico negli anni 40 e 50, e considerato un «moderato»), a cura di Livia Rokach (figlia di un ex Ministro dell’Interno)[13]. I diari di Sharett (ott. ’53-nov. ’57) sono un’autentica bomba editoriale poiché smontano alcuni dei miti legati alla storia del progetto sionista. Innanzitutto, emerge che non sono gli arabi ad «assediare» Israele, a voler «buttare a mare gli ebrei», ma è Israele a provocare incessantemente i suoi vicini[14]. In pratica, il vessillo della «sicurezza» viene continuamente agitato per raccogliere simpatie internazionali e tenere in scacco la regione. A tal fine, la popolazione israeliana viene allevata nella paura e nell’angoscia, e proprio per questo i governi israeliani si sono macchiati di crimini anche ai danni dei cittadini che avrebbero dovuto difendere. Di qui le ben note e sanguinose «rappresaglie» e le sistematiche violazioni del diritto internazionale dell’esercito israeliano[15], espressione di una società militarizzata in cui i militari che fanno carriera politica sono la regola. La lettura dei diari di Sharett evidenzia anche che Israele non ha (e non può avere, imbeccato com’è dal suo sponsor statunitense!) alcuna intenzione di vivere in pace coi suoi vicini, spingendoli, al contrario, in conflitti che è certo di vincere. La guerra con l’Egitto del ’56 era difatti meditata sin dal ‘53, l’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania dagli anni Cinquanta (ma l’ostacolo principale era la residua presenza britannica in Giordania)[16] e già Ben Gurion desiderava un Libano balcanizzato[17]. Un caso lampante di provocazione è l’atteggiamento seguito nei confronti dell’Egitto nasseriano: L’affare Lavon: il terrorismo per forzare l’Occidente (pp. 163-168) racconta della rete spionistica impiantata da Israele in Egitto al fine di svolgere attentati contro obiettivi britannici e statunitensi per poi farne ricadere la responsabilità sui Fratelli Musulmani. Si chiarisce dunque che il terrorismo di Stato israeliano agisce soprattutto in un quadro di destabilizzazione dell’area mediterranea che può far comodo solo a chi ha interesse a mantenere un continuo divide et impera tra realtà che invece avrebbero interesse ad integrarsi e a vivere in comune prosperità. Ma la rete del Mossad viene scoperta, allora il tutto viene presentato come una macchinazione egiziana contro gli ebrei entrando in scena un classico sull’argomento, il «pregiudizio antiebraico», mentre Sharett, che è aggiornato su tutti i retroscena, si unisce al coro di hitlerizzazione del ra’îs egiziano, il quale, inizialmente, si era illuso di poter convivere con Israele[18]. Come, non è chiaro, stando a quel che annotava Sharett in data 26 maggio 1955: “Le azioni di rappresaglia, che non potremmo eseguire se fossimo legati da un patto di sicurezza, sono la nostra linfa vitale […]. Con esse possiamo mantenere un alto livello di tensione fra la nostra popolazione e nell’esercito. [Israele] si deve inventare pericoli e, per farlo, deve adottare il metodo della provocazione e ritorsione […]”. Se si aggiunge che gli Stati Uniti, mentre procedevano ad eliminare Mossadeq in Iran e Arbenz in Guatemala, pensavano di usare Israele per rovesciare l’uomo forte del Cairo, e che nel frattempo agenti israeliani trescavano con elementi sudanesi, si capisce perché l’Egitto si sarebbe rivolto di lì a poco all’Unione Sovietica[19].

La pressione sugli Stati arabi circostanti è anche da sempre volta ad allontanare i profughi palestinesi – vera pietra vivente dello scandalo - dalle linee armistiziali del 1949, prima, del 1967, poi. Israele non ha mai accettato dei confini stabili preferendo la politica dei «fatti compiuti», ma anche per tenere sempre aperta la possibilità di espandersi, tanto più se si pensa che è diffusa l’idea secondo cui «i palestinesi una patria ce l’hanno già, ed è la Giordania»[20].

Lo studio della Rokach ripone inoltre definitivamente in soffitta la consumata «contrapposizione» tra «falchi» e «colombe» (che tuttavia trova sempre qualche rampante politico occidentale disposto a credervi), “la tesi comunemente accettata secondo cui una divisone distinta, contrassegnata da antagonismi ideologici, politici e pragmatici esisteva, almeno fino al 1965, fra il sionismo laburista e il sionismo cosiddetto «irrazionale» di origine revisionista” (p. 155).

I diari di Sharett – conclude la Rokach - provano come “non sia possibile una proposta sionista per così dire moderata” (p. 127), ed il loro senso è ben sintetizzato da Nasser H. Aruri nella sua prefazione al saggio della Rokach: “Si tratta di una denuncia del sionismo da parte del primo ministro di Israele”.

 

Una denuncia certo involontaria, al contrario di quella di Israel Shahak[21], curatore della ripubblicazione del saggio Una strategia per Israele negli anni Ottanta del Novecento, pubblicato nel febbraio 1982 da Oded Yinon (giornalista vicino al ministero degli Esteri israeliano) su «Kivunim», periodico del Dipartimento dell’informazione dell’Organizzazione sionista mondiale. Un saggio dal tono profetico, poiché se da una parte esso verte sulla dissoluzione di tutti gli Stati arabi esistenti e la creazione di innocui micro-Stati in base alla distribuzione del mosaico etnico-religioso vicino-orientale (a che servono, sennò, gli esperti di minoranze?), dall’altra evidenzia (nel 1982!) la forte relazione tra il sionismo e il pensiero neoconservatore negli Stati Uniti. Per quanto attiene il primo punto, non si può certo dare torto a Yinon: “Il mondo arabo è costruito come un provvisorio castello di carte, messo insieme dagli stranieri (Francia e Gran Bretagna negli anni Venti del Novecento), senza tener conto dei desideri degli abitanti” (p. 71). Un castello di carte avente un “unico comune denominatore: l’ostilità per Israele; ma perfino questa ostilità non è già più sufficiente” (p. 73). “In questo mondo vasto e frammentato vi sono alcuni gruppi opulenti e una massa enorme di poveri […] tranne che in Libia e in Iraq” (ibidem). Aggiungiamo volentieri che la situazione orwelliana creatasi nel mondo arabo, dove in ciascuno Stato operano legioni di «servizi di sicurezza» volti alla repressione del dissenso interno, deve molto all’esistenza d’Israele; per di più, la presenza dell’«Entità sionista» ha fornito a tutti gli attori dell’area un motivo propagandistico per stornare l’attenzione dai problemi reali. Gli Stati arabi, con poche eccezioni (tra cui il vituperato Saddam Hussein, l’ultimo campione del panarabismo), hanno sempre avversato l’autodeterminazione dei palestinesi, consci che essa li avrebbe posti di fronte alle loro responsabilità[22].

Meno credibile, invece, l’ipotesi che Israele intenda ergersi a «potenza mondiale» mettendosi, si potrebbe dire, in proprio. A destare preoccupazione già basta e avanza un Israele potenza regionale per la quale ogni «politica di pace» è quanto meno indesiderabile poiché una pace va pur sempre rispettata. L’ipotesi finale, posta nei termini d’un ineluttabile destino, sa dunque un po’ di fantapolitica. Eppure è interessante seguire il ragionamento di Yinon: “I rapidi cambiamenti nel mondo [si prefigura un declino degli Usa] causeranno anche un cambiamento della condizione complessiva degli ebrei, per i quali Israele diventerà non solo l’ultima risorsa, ma l’unica opzione esistenziale. Non possiamo considerare che la comunità degli ebrei statunitensi e quelle dell’Europa e dell’America Latina continueranno a esistere in futuro nella forma attuale” (pp. 81-82). A questo punto l’autore ricorre ad uno dei temi più cari alla propaganda sionista: il «crescente antisemitismo». Ma - va notato - non cita gli ebrei del mondo arabo. Lì, difatti, essi vi avevano sempre vissuto senza grandi problemi, fin quando sono stati forzati a lasciare i loro paesi d’origine in un modo che ha tutte le caratteristiche del terrorismo di Stato.

 

E il criminale è ancora lo Stato d’Israele, come documenta Naeim Giladi, ebreo iracheno, in Lo scandalo Ben Gurion. Come l’Haganah e il Mossad hanno eliminato degli ebrei[23]. Il saggio di Giladi è la storia di come gli ebrei, che costituivano un quarto della popolazione di Baghdad, siano stati indotti ad abbandonare il loro paese tramite attentati e attacchi d’intensità crescente operati da cellule sioniste negli anni 1950-51. Gli agenti provocatori sionisti – che elargirono bustarelle a membri del governo filo-britannico di Nûrî al-Sa‘îd per facilitare l’emigrazione degli ebrei iracheni e pagarono una «stampa gialla» locale per esasperare il clima con «articoli antisemiti» – utilizzarono alcune sinagoghe per nascondere gli esplosivi, provocando una comprensibile ondata d’indignazione popolare. Altro che «antisemitismo arabo»!

A questo punto, è facile intuire l’interrelazione tra gli allarmi sul «crescente antisemitismo» e l’esigenza del sionismo di rimpolpare i ranghi della popolazione ebraica d’Israele per sostenere una «guerra demografica» che prima o poi (si pensa, entro il 2020) vedrà imporsi i palestinesi. E dopo il 1948 sono stati proprio gli ebrei dei vari paesi arabo-musulmani ad infoltire i ranghi dell’immigrazione ebraica in Israele, mentre gli ebrei europei, dai quali ci si sarebbe attesi un massiccio afflusso, o sono restati in Europa anche dopo le tribolazioni della Seconda guerra mondiale o hanno scelto di stabilirsi negli Stati Uniti. Anche altre comunità ebraiche sono state attirate, in un modo o nell’altro: si pensi al caso degli yemeniti o dei falascià d’Etiopia, entrambi discriminati in una società israeliana che vuole sì i muri tra gli ebrei e i non ebrei, ma che costruisce tutta una serie di barriere al proprio interno[24].

Il problema capitale del progetto sionista è appunto che mentre da una parte esiste un popolo, il popolo palestinese, composto da musulmani, cristiani, baha’i, atei e, tra gli altri, anche da ebrei autoctoni e dai loro discendenti, dall’altra si agita un’impresa utopica sorretta in armi, soldi e sostegno propagandistico dagli anglo-americani e dalla parte più influente delle comunità ebraiche sparse nel mondo, un’impresa che per dare l’esito auspicato dai suoi sostenitori deve cooptare in vario modo individui provenienti da ogni parte del pianeta; individui che, a parte un afflato di carattere religioso, non sentono di condividere, l’uno con l’altro, assolutamente niente: a partire dalla lingua, che è quella dei vari paesi di provenienza. In breve, un popolo vero opposto a quello che lo scrittore Israel Shamir ha felicemente definito Un popolo di filatelici[25]. Cioè un insieme di persone unite da un’ipnotica passione (quella per Sion), ma che «popolo» non è.

I «popoli» sono invece una cosa più seria e complessa delle forzature incoraggiate dai vari fautori dello «scontro di civiltà». In un certo senso, in Palestina avviene in scala ridotta, ma certamente più devastante, lo scontro esiziale tra i veri «popoli», che a garanzia della varietà nel mondo sono radicati innanzitutto in un territorio e in una lingua (ma anche in usi e costumi), e la violenza prevaricatrice della cosiddetta società «multietnica» o «multirazziale», cosmopolita per definizione, rappresentata nel caso specifico dalle decine e decine di aggregati umani calamitatisi in Palestina per scoprire di non condividere alcun valore reale e che per questo si mettono a discriminarsi l’un l’altro rinserrandosi in tanti piccoli ghetti[26]; ma per non innescare una guerra civile permanente che è sempre dietro l’angolo, costoro hanno la tragica necessità di individuare un (illusorio) collante che manca loro nella cieca volontà di cancellare ogni traccia della presenza autoctona. Che li tormenta come una cattiva coscienza.

Detto questo, ciascuno può cogliere nello sradicamento delle piante d'olivo per far posto alle villette a schiera dei coloni un valore profondamente simbolico. Il senso profondo del conflitto in Palestina è dunque quello che oppone il radicamento allo sradicamento, l’omogeneizzazione del mondo alla varietà delle comunità umane.

 

Ecco perché, per ricollegarmi al discorso iniziale sulla necessità di «cambiare le regole del gioco», la «guerra dell’informazione» a favore del ristabilimento di una giustizia per il popolo palestinese dev’essere condotta fuori dall’obsoleta dicotomia destra-sinistra, la quale non fornisce più alcuno strumento culturale utile. Il curatore del volume, Serge Thion, è uomo «di sinistra», ma soprattutto è un uomo che ha speso gli ultimi venticinque anni, pagando di persona, nel ristabilimento di una verità storica sulle sorti degli ebrei europei durante la Seconda guerra mondiale[27]. Scrive Thion a conclusione della magistrale introduzione al libro: “E’ necessario richiamare un'altra forma di terrorismo, più dolce, quella che si può definire con precisione terrorismo intellettuale. Per poter commettere il loro crimine di furto delle terre e di genocidio, i sionisti hanno bisogno di neutralizzare l'opinione pubblica internazionale, di paralizzarla, con iniezioni regolari di «memoria olocaustica» e di racconti mitologici sulla «sofferenza» supposta degli ebrei nella storia dell'Europa e del mondo musulmano[28]. […] Si tratta di creare un sentimento di colpevolezza che i sionisti utilizzano come leva per ottenere i vantaggi e le complicità di cui hanno bisogno per conservare le loro posizioni. […] Da un punto di vista più generale, sono i ceti intellettuali a essere oggetto di campagne regolari di intimidazione. Da cinquant'anni, tutti gli anni o quasi si diffonde la notizia che l'antisemitismo sta crescendo. Nessuno l'ha mai visto diminuire... Ovunque, istituti finanziati da ricchi filantropi americani sorvegliano la stampa e l'opinione pubblica. Se un giornale che esce a Worcester (Regno Unito), o a Mazamet (Francia), o a Novosibirsk (Russia), o non importa dove, pubblica uno scritto che indica uno o due ebrei come corresponsabili di ciò che accade in Palestina, mentre le comunità ebraiche ufficialmente si vantano della loro solidarietà senza incrinature nei confronti di Israele, viene lanciata una campagna. Si denunciano le intenzioni, si denunciano le persone che hanno dichiarato tali intenzioni o permesso di dichiararle, le si denuncia ai loro superiori per fargli perdere il lavoro, chiuder loro le porte dei mezzi di comunicazione, isolarle e ridurle al silenzio. Orde di funzionari sionisti sono pagate per fare quest'opera di bassa polizia e di ricatto. Conosciamo queste agenzie, disponiamo dei loro recapiti, sappiamo che hanno buoni rapporti con i poteri in carica. Nessuno osa attaccarle.
Fa parte del bon ton criticare i fascismi
[29]. È anche alla moda denigrare lo stalinismo e le sue derive. Si ha (ancora per un po') il diritto di criticare l'America e il suo imperialismo in piena espansione. Ma non si avrebbe il diritto di criticare il sionismo perché ciò equivarrebbe a dar prova di antisemitismo. Questo metodo ricattatorio, divenuto sistematico, lancinante, produce un effetto prevedibile: sempre più gente si rende conto che l'antisemitismo tradizionale non esiste più, che si deve combattere l'influenza degli ebrei alleati alla politica di genocidio che si pratica in Palestina e che bisogna far cessare questo enorme scandalo: il massacro di un popolo per rubargli la sua terra. La solidarietà interebraica, intersionista, apre la strada a una nuova risposta politica, che si opponga con molta fermezza alla volontà di egemonia mondiale del sionismo e che rifiuti di fare del pianeta l'ostaggio di qualche pugno di fanatici razzisti e sanguinari che regnano, speriamo per poco tempo ancora, sulla terra di Palestina” [30].

 

 

 

Su gentile concessione del trimestrale “Eurasia”, Rivista di Studi geopolitici, 1/2005, pp. 219-228 ( www.eurasia-rivista.org ).



[1] Segnalo il sito del Palestinian Information Center ( http://www.palestine-info.info/index.htm ), quello dell’International Solidarity Movement ( http://www.palsolidarity.org ) e quello della campagna contro il Muro israeliano ( http://www.stopthewall.org ). Un altro ottimo sito sulla Palestina è http://www.arabcomint.com .

[2] Campetto, 4 – 16123 Genova ( http://www.graphosedizioni.it ). Alcuni dei materiali raccolti in questo volume sono disponibili, in inglese, alla seg. url: http://www.vho.org/aaargh/fran/livres3/terris.pdf .

[3] A titolo d’esempio, si legga, sulla tragica sorte del villaggio di Emmaus, l’articolo di Marco Hamam, L’anno prossimo a Emmaus, Aljazira.it, 7 luglio 2004 ( http://www.aljazira.it/index.php?option=content&task=view&id=191 ).

[4] Un terrorismo sionista anti-britannico può sorprendere solo chi postula un’identità completa, storica e dottrinale, tra ebraismo e sionismo. Per comprendere meglio, v. ad es. Bryan Mark Rigg, I soldati ebrei di Hitler, Newton Compton, Roma 2003, oppure il sito dei Jews United Against Zionism (Neturei Karta): http://www.nkusa.org . Le origini dei gruppi paramilitari sionisti sono indagate da Emmanuel Ratier, I guerrieri d’Israele. Inchiesta sulle milizie sioniste, (trad. it.) Centro Librario Sodalitium, Verrua Savoia 1998.

[5] Sull’assassinio di Bernadotte, v. il saggio di Arno Weinstein (direttore dello Zionist Leadership Policy Institute), All’ombra di Stern: la storia segreta di un agente della LEHI (pubblicato su “B’tzedek”, n. 2, estate-autunno 1997 e ripubblicato nella raccolta oggetto della presente recensione alle pp. 87-100). Il saggio è interessante anche perché aiuta a capire la reale attività di certi ‘giornalisti’.

[6] Cfr. Piero Sella, Prima di Israele. Palestina, nazione araba, questione ebraica, Edizioni dell’Uomo Libero, Milano 1996, pp. 240-244 (una mia recensione di questo libro è stata pubblicata su “La Gazzetta di Sondrio”, 8/11/2002: http://www.gazzettadisondrio.it/commenti/e-74.html ).

[7] … e a massacrare i palestinesi della Striscia di Gaza, come ampiamente documentato da Ugo Dadone, Fiamme a Oriente, CEN, Roma 1958 (Dadone aveva fondato nel 1935 al Cairo, per conto del governo di Roma, l’Agenzia d’Egitto e d’Oriente, allo scopo di guadagnare simpatie verso l’azione dell’Italia fascista nel mondo arabo).

[8] Cfr. anche Creiamo uno stato maronita in Libano!, pp. 146-153 (ben prima che il Libano diventasse una base per  guerriglieri palestinesi…).

[9] Cfr. Un’opportunità storica per occupare la Siria meridionale, pp. 140-145, con riferimento al colpo di stato del 25 febbraio 1954 che depose Adîb ash-Shîshaklî.

[10] Dopo la rottura con la Gran Bretagna, fu la Francia ad essere il primo protettore d’Israele, fornendogli armi (gli aerei Mirage, ad es.), in specie dal 1956, ma anche impedendogli, nella persona di De Gaulle (dal 1958), di procedere alla dissoluzione del Libano. L’idillio con la Francia terminò con l’epilogo della guerra d’indipendenza algerina, quando lo stesso De Gaulle divenne sempre più insofferente verso l’atteggiamento israeliano. Il 1967, con la «Guerra dei Sei giorni», rappresenta la svolta per gli Stati Uniti, i quali impostano tutta la politica mediorientale sull’appoggio alla testa di ponte israeliana, vera diga contro le unioni interarabe: è da quel momento che si mette in moto «l’industria dell’Olocausto» denunciata da Norman Finkelstein nel suo studio omonimo (trad. it. Rizzoli, Milano 2002, in rete alla seg. url: http://www.vho.org/aaargh/fran/livres3/NFOlocausto.pdf ).

[11] John Kleeves, Dietro la «potente lobby ebraica» degli Usa c’è qualcun altro, “Italicum”, mar.-apr. 2004 pp. 8-9 e mag.-giu. 2004, pp. 8-10. Di Kleeves si legga anche Balfour non era scemo, purtroppo, pubblicato dal quotidiano “Rinascita” e ripubblicato all’indirizzo http://www.aljazira.it/index.php?option=content&task=view&id=351&Itemid=

[12] Ma in fondo è quel che accade anche in Italia, dove «autorevoli opinionisti» filo-sionisti (ebrei e non ebrei) sciorinano elenchi di «Paesi arabi moderati» dai quali manca sempre la Siria: un fatto ben strano se si pensa che il primo partner commerciale della Siria è proprio l’Italia.

[13] Livia Rokach, Israel’s Sacred Terrorism: a Study Based on Moshe Sharett’s personal Diary and Other Documents, AAUG, Belmont (Mass.), 1980, 1982 e 1986. L’autrice, dopo l’emigrazione a Roma, si è definita «scrittrice italiana d’origine palestinese». Tornano alla mente le parole di Israel Shamir: “Io non sono un amico dei palestinesi. Io sono Palestinese” (Carri armati e ulivi della Palestina, (trad. it.) Crt, Pistoia 2002, quarta di copertina).

[14] Attacchi a cittadini israeliani indubitabilmente attribuiti agli Stati vicini, dirottamenti di aerei, attentati contro «interessi occidentali» nei paesi arabi ecc.

[15] Cfr. Paola De Giorgis, L’intifâdah palestinese. I diritti violati in Israele, Arte Tipografica Editrice, Napoli 2002.

[16] A ‘pensionare’ Sir John Bagot Glubb (Glubb Pascià), il comandante della celebre Legione Araba, ci avrebbe pensato il giovane Re Hussein, appena salito al trono di Giordania (1953) dopo la deposizione del «folle» Talal.

[17] Cfr. Ben Gurion va a Sdeh Boker: il ritiro spirituale come tattica, pp. 131-132.