Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il paesaggio interiore può sembrare irreale solo ad uno sguardo miope e grossolano

Il paesaggio interiore può sembrare irreale solo ad uno sguardo miope e grossolano

di Francesco Lamendola - 14/02/2013




 

In uno dei suoi primi racconti, che è anche tra i più affascinante, «La musica di Erich Zann», scritta nel dicembre del 1921 e pubblicata per la prima volta, su una rivista amatoriale, nel 1922, lo scrittore statunitense H. P. Lovecraft descrive, fra l’altro, la vana ricerca di un luogo in cui il protagonista ha fatto una esperienza sconvolgente, ma che sembra essere divenuto irraggiungibile, come se fosse stato inghiottito in un’altra dimensione – o come se egli vi fosse penetrato, sena rendersene conto, uscendo da quella ordinaria.

Si tratta di un quartiere cittadino, di una via, di una casa in cui egli ha abitato, da studente di filosofia metafisica, in un periodo della sua vita in cui era malato nel corpo e nell’anima e che, in seguito, quando ha voluto rivedere, non è stato capace di trovare; il tutto in una atmosfera onirica così strana e febbricitante, da indurre nel lettore il sospetto che il giovane, dopo tutto, forse non ha fatto altro che sognare la propria avventura, compreso io palazzo, la strada e il quartiere in cui essa si è svolta.

La città sembra essere Parigi, anche se non ne viene mai fatto il nome; le strade in salita fanno pensare a Montmartre, ma, in effetti, potrebbero essere benissimo anche quelle di Providence, la città natale di Lovecraft e il luogo in cui ha ideato tutte le sue storie del fantastico e dell’orrore cosmico; alcuni particolari, come il fiume maleodorante e le vecchie fabbriche dall’aria abbandonata, suggeriscono più una grande città industriale americana che la capitale francese; il nome della strada, però, sembra, di nuovo, tipicamente francese: Rue d’Auseil; anche se in lingua francese non significa nulla e farebbe piuttosto pensare a una trasposizione o un errore per Rue d’Auteuil, la città posta una quarantina di chilometri a Nord di Parigi.

Per quel che ne sappiamo – ma anche questo è oggetto di controversia – Lovecraft non è mai stato a Parigi; anzi, non è mai stato in Europa (sebbene alcuni suoi fanatici ammiratori nostrani lo vogliano proprio in Italia, per una rapida incursione, dalle parti della foce del Po, pur non potendo esibire alcuna prova certa di tale viaggio); di più: in una lettera privata a Frank Belknap Long – egli scriveva moltissimo, tanto che il suo carteggio con innumerevoli amici e colleghi scrittori è immensamente più vasto della sua pur vasta produzione narrativa – ammette di aver visto Parigi, sì, ma in sogno, come l’aveva vista, prima di lui, lì’altro grande visionario della letteratura americana: Edgar Allan Poe. I dati certi della sua biografia dicono che egli non uscì mai dagli Stati Uniti, e che – a parte un infelice tentativo di stabilirsi a New York con la moglie Sonia Greene - quasi tutta la sua vita si svolse in un ristretto angolo della Nuova Inghilterra, più precisamente nella vecchia città coloniale di Providence, con le sue strade strette e le sue case vetuste dall’aria trasognata, ultime testimoni di un tempo trascorso per sempre.

Dunque, nel racconto «The music of Erich Zann» Lovecraft narra, in prima persona, la strana e paurosa storia di un giovane studente che abitava al quarto piano di un grande palazzo semivuoto e fatiscente, in una strada acciottolata e in salita, chiusa da un muro alla sommità dell’erta; e di un eccentrico musicista tedesco, Erich Zann, che, dalla mansarda al quinto piano, improvvisava con la viola, nel cuore della notte, delle musiche inquietanti e diverse da qualunque composizione umana. Incuriosito, riesce a farsi accogliere nell’appartamento del suo coinquilino e si rende conto, alla fine, che questi suona così, all’impazzata, instancabilmente, non per qualcosa, ma per tener lontano qualcosa: qualcosa o qualcuno, un orrore cosmico che potrebbe venire da fuori, dall’unica finestra di tutto il palazzo che guarda sul lato opposto della misteriosa via d’Auseil.

Il vecchio, che è muto, e che appare estremamente sospettoso e dominato da un inspiegabile terrore, prende a scrivere freneticamente su dei fogli di carta la sua incredibile storia; allorché una folata di vento disperde quei fogli e li risucchia all’esterno, come se una forza soprannaturale avesse voluto distruggerli. Appena si è reso conto di ciò, lo studente getta uno sguardo da quella finestra e vede, con sua enorme sorpresa e raccapriccio, il nulla: cioè non scorge alcuna luce, alcun paesaggio, solo un nero assoluto e compatto; si accorge che il vecchio musicista è morto e così, terrorizzato, fugge a precipizio per le scale dell’antico palazzo, rendendosi conto di essere a sua volta in gravissimo pericolo di vita.

Ecco come Lovecraft descrive la strada misteriosa in cui abitava lo studente e i vani tentativi di questi per ritrovarla, anni dopo la drammatica conclusione della vicenda (da: H. P. Lovecraft, «La musica di Erich Zann»; nella antologia narrativa completa a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, «Lovecraft. Tutti i romanzi e i racconti. L’incubo», tomo I, Roma, Newton & Compton Editori, 1993, pp. 133-34):

 

«Ho consultato con la massima attenzione le mappe della città, ma non ho mai più ritrovato la Rue d’Auseil. Non mi sono limitato a esaminare le carte moderne: so bene che i nomi cambiano; ho riesumato anche i documenti più antichi, ed ho esplorato di persona tutte le strade che, indipendentemente dal nome, potevano corrispondere alla Rue d’Auseil. Malgrado tutti i miei sforzi, mi sono dovuto confrontare con la mortificante conclusione che ero incapace di ritrovare la casa, la strada e neppure il quartiere dove, negli ultimi mesi della mia squallida esistenza alla Facoltà di Metafisica, avevo udito la musica di Erich Zann.

Non mi sorprende il mio vuoto di memoria: quando abitavo in Rue d’Auseil la mia salute fisica e mentale era assai manchevole; inoltre, rammento di non avervi mai condotto alcuno dei miei scarsi conoscenti. Tuttavia, il fatto che non riesca a ritrovare quel luogo resta al tempo stesso singolare e sconcertante.  Specialmente se si considera che esso distava meno di mezz’ora di cammino dall’Università, ed era contraddistinto da peculiarità tali da impressionare inevitabilmente la memoria di chiunque vi fosse stato. Debbo aggiungere, però, che non ho mai conosciuto alcuno che abbia mai visto la Rue d’Auseil.

La strada si stendeva al di là di un fiume limaccioso fiancheggiato da magazzini di mattoni con piccole finestre cieche, attraversato da un massiccio ponte di pietra scura. Su quel fiume gravava sempre un’ombra, quasi che il fumo delle fabbriche vicine ne escludesse perennemente il sole. Le acque esalavano inoltre miasmi malsani che mai avevo sentito altrove, e che forse un giorno mi aiuteranno a ritrovare la zona, giacché quel tanfo lo riconoscerei all’istante. Oltre il ponte si diramavano varie stradine acciottolate, con piccoli parapetti: da esse iniziava una salita, prima dolce ma poi incredibilmente ripida non appena si giungeva alla Rue d’Auseil.

Non ho mai visto una strada così stretta e erta come quella. Sembrava quasi un dirupo, , il cui accesso era chiuso a tutti i veicoli. In certi tratti si innalzavano rampe di scale, fino a che, in rapida ascesa, il dirupo si arrestava di fronte ad un alto muro ricoperto d’edera. La pavimentazione non era uniforme: a tratti era di lastroni di pietra, a tratti di ciottoli, mentre in altri punti si camminava sulla nuda terra, macchiata da una stenta vegetazione grigio-verdastra.

Le costruzioni erano alte, dai tetti aguzzi, decrepite e inclinate ad angoli assurdi, all’indietro, in avanti o di lato. In certi casi, due palazzine poste l’una di fronte all’altra, entrambe curve in avanti, si incontravano formando una sorta di arco al di sopra della strada, che oscurava la luce del sole. Altre costruzioni erano invece unite da ponti che si levavano a diverse altezze al di sopra del terreno.

Gli abitanti di quella strada avevano subito suscitato in me un’impressione assai singolare. Sulle prime ritenni che ciò fosse dovuto alla loro estrema taciturnità e riservatezza; successivamente, mi resi conto che il mio sconcerto scaturiva dalla loro estrema, generale vecchiaia.»

 

Ecco dunque un paesaggio urbano che, chiaramente, non è realistico, ma onirico, e che sarebbe piaciuto forse a un pittore o a un regista espressionista: con quegli angoli assurdi, quelle prospettive sbilenche, quel senso di straniamento e di allucinazione che domina ogni cosa, senza che lo si possa ricondurre ad un singolo, preciso elemento, ad una causa ben definita.

La domanda che sorge spontanea, davanti a una simile descrizione, è se un paesaggio di un tale genere, che è un paesaggio interiore e non fisico, sia, perciò stesso, anche un qualcosa di irreale; ma ben presto, non appena si riflette un poco, ci si rende conto che è una domanda sbagliata, perché parte dal pregiudizio grossolano che “reale” sia solo ciò che appartiene alla dimensione materiale dell’esistenza, che si può esperire con i sensi e che, eventualmente, si può quantificare o sottoporre a esperimento.

Se tale pregiudizio avesse un fondamento, dovremmo escludere dalla sfera della realtà tutto ciò che non si vede, non si tocca, non si lascia razionalizzare; e anche ciò che si lascia vedere, ma non con gli occhi del corpo, bensì con quelli della mente: il ricordo, il sogno, l’allucinazione, l’apparizione, la visione; tutte cose che esistono e non lo si può negare, a meno di cadere in un materialismo ottuso e preconcetto, ma appartengono, evidentemente, ad un altro genere di esistenza.

Qui il discorso si farebbe troppo filosofico e, del resto, lo abbiamo già fatto in diverse occasioni; basterà dire che gli enti possiedono diversi livelli di esistenza e che quello fisico non è il solo, né quello più “forte”, più attendibile o più reale: è, semplicemente, il più oggettivo, ma non per questo possiede un maggior grado di realtà. La realtà è una ed una sola; la sua manifestazione può collocarsi su diversi livelli percettivi, ed è questo che, di solito, chiamiamo “esistenza”; mentre dovremmo, a rigore, precisare “esistenza come ciò che si manifesta”, insomma il fenomeno e non la cosa in sé, il noumeno.

Gli esseri finiti sono fatti in modo tale che possono cogliere solo una parte del reale, diciamo pure una piccola, una piccolissima parte: la punta dell’iceberg e non la sua intera massa, che giace sommersa sotto le onde. Ciò che del reale essi colgono, non dipende solo dal suo grado di “oggettività”, ma anche e soprattutto dalla loro capacità di vedere, nel senso più ampio della parola, ossia di aprirsi al mistero delle cose. E  che le cose siano misteriose non è affatto una espressione poetica, ma un dato ben preciso e verificabile: di esse, infatti, possiamo conoscere solo la superficie, non l’essenza; e anch’essa la possiamo conoscere solo imperfettamente e solo nell’arco di tempo in cui la percepiamo.

Che il mondo continui ad esistere, fuori di noi, anche mentre chiudiamo gli occhi, anche mentre stiamo sognando, o anche dopo che saremo morti, è una credenza come un’altra: ma non ha nulla di scientifico, se per scientifico si intende ciò che possiede una sua incrollabile logica interna e può essere attestato in maniera definitiva e incontrovertibile, tanto sulla base dell’esperienza che su quella del ragionamento logico-induttivo. Invece la credenza nella sua esistenza e permanenza al di fuori di noi scaturisce da un tipico ragionamento deduttivo, peraltro inficiato da un vero e proprio “salto” logico che conduce ad un circolo vizioso e quasi ad una tautologia: «la realtà esterna è esperibile con i sensi; i sensi mi dicono che essa è sempre lì; dunque, concludo che essa esiste indipendentemente da me»: vale a dire che concludo affermando, ma senza averlo affatto dimostrato, esattamente ciò che mi proponevo di spiegare.

Ma torniamo ai luoghi del sogno, dell’immaginazione, della visione, come quello del racconto di Lovecraft. Un secondo pregiudizio da sfatare è che essi nascano sempre e solo dall’interno della mente, che siamo una creazione soggettiva di colui che li “vede”. Anche questa idea nasce dal solito pregiudizio materialista e riduzionista, secondo il quale è impossibile che vi sia una realtà Altra, dalla quale provengano, almeno in parte, tali visioni e percezioni. Filosofi come Platone non condividevano affatto un simile pregiudizio, né possono condividerlo quanti sono animati da una fede religiosa o da una concezione spirituale: per loro, infatti, è assiomatico che se l’uomo, di per se stesso, poco riesce a vedere, a sapere, a capire, molto però può vedere, sapere e capire mediante la presenza di Qualcosa che sta al di là dei suoi sensi finiti e imperfetti, e della sua debole ragione.

Noi abitiamo solo un piccolo angolo dell’immenso palazzo che ci è stato destinato; ci siamo confinati da noi stessi nelle stanze più buie ed anguste, perché non vogliamo ammettere che, al di sopra di noi, ve ne siano di vaste, luminose, bellissime; ed anche, al di sotto, che ve ne siano di tetre e paurose, la cui porta non si dovrebbe mai socchiudere, neanche per semplice curiosità.