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L’intelligenza senza amore non capisce: può dominare il mondo, ma perde se stessa

di Francesco Lamendola - 19/02/2013



 

Il male più grave da cui è afflitto l’uomo moderno sembra essere, parafrasando San Paolo, la mancanza di carità: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona, o un cembalo che tintinna (1 Corinzi, 13, 1).

Orgoglioso della sua ragione e della sua scienza, fiducioso nel progresso, convinto di poter spiegare e dominare ogni cosa, egli si è allontanato dal proprio centro interiore, ha reciso la relazione con il trascendente, si è fatto il Dio di se stesso e, senza quasi rendersene conto – tanto più che si riempie frequentemente la bocca di parole come fraternità, amicizia, amore – si è chiuso alla relazione autentica con l’altro, non lo ascolta, non lo capisce, vede ovunque solo degli specchi che gli rimandano la propria immagine, è sordo e cieco e murato vivo dentro il proprio orgoglio ed il proprio egoismo, la propria aridità spirituale.

E, quel che è peggio, crede di capire, anzi, crede di aver capito; solo perché possiede numerose nozioni, ritiene anche di conoscere: ma capire è un’altra cosa; la sua è una intelligenza sterile, che non capisce, che non getta ponti verso l’esterno, perché non sa dire “tu”, non sa uscire da se stessa, è prigioniera del proprio orgoglio intellettuale, del proprio egoismo, della propria sensualità; ignora la semplice verità che si conosce realmente solo quel che si ama, perciò se non si ama niente e nessuno, nulla si conosce, si è sprofondati nell’ignoranza più completa.

Non è stato un filosofo, ma uno scrittore, Bonaventura Tecchi (1896-68), uno scrittore oggi alquanto dimenticato, non citato mai nelle antologie scolastiche, non ricordato mai nei salotti televisivi, a scrivere alcune delle pagine più acute sul dramma dell’uomo moderno chiuso in se stesso, avvitato nel proprio egoismo e incapace di vera relazione con il prossimo.

Vale la pena di riportare alcuni passaggi dall’ultimo capitolo del suo romanzo «Gli egoisti», per la loro chiarezza esemplare, per la straordinaria penetrazione e per la lucidità concettuale che rivelano, ignote a molti, troppi sedicenti pensatori contemporanei, magari tanto acclamati dalla critica e così spesso invitati a pontificare in televisione o nei pubblici convegni, riempiendo le sale di pubblico adorante (Milano, Bompiani, 1959,  pp. 311 sgg.):

 

«Ti ricordi della “intelligenza che non capisce”, di una forma di intelligenza, benché dotta e acuta, che, secondo Almirante, non capisce? E ti rammenti degli accenni che fece quel giorno in casa mia e di quella sera sul Ticino quando Fausto, infuriato contro di te e i giovani poeti e non poeti, e anche contro tutti i “tecnici” dell’universo, se la prese con la tecnica, con le bravure filologiche, con la freddezza dell’anima, con la mancanza di passione nell’arte, e tirò fuori i dottori della Chiesa e non so quanti altri mai e disse che, con tutta la nostra intelligenza moderna, stiamo perdendo il senso dell’anima? […]

Si può inventare il modo di salire a decine di chilometri sopra la crosta terrestre, si potranno domani scoprire i mezzi per navigare verso gli astri, saper di che son fatti i corpi celesti, e insieme perdere il senso del’anima. […]

Dico che intelligenza e anima sono due cose diverse, che i problemi dell’intelligenza non son del tutto uguali ai problemi dell’anima e che, per risolvere questi ultimi, per tentare di dar luce a quella cui diamo il nome di “anima”, ci vuole una cosa diversa dall’intelligenza, e che si chiama… […]

C’è un mistero, aveva detto il sacerdote straniero, l’impossibilità o, almeno, l’estrema difficoltà, per certe anime, a poter comunicare con altri. […]

La presenza del male c’è, i dèmoni ci sono. È un atto di umiltà riconoscerlo, non ignorarli. Anche un sacerdote non può ignorare la presenza del male. Ma nei tempi moderni c’è la tendenza a mettere sempre più l’accento sulla mescolanza, sulla cooperazione tra il bene e il male, più che sulla distinzione… è il pericolo più grave, oggi; è il seme della confusione. I dèmoni, che pur sono il mistero della vita, sono in fondo i nostri nemici. […]

Specie in persone colte e intelligenti come lei, l’egoismo si veste, alle volte, dei panni della malinconia e perfino della disperazione. Ma la battaglia non è vinta. Si tratta di un nemico sottile, il più sottile e il più persistente… […]

Allora c’è una medicina unica. Vecchia e di sempre. La più semplice e la più difficile. […] L’ha detto il maestro dei maestri, l’ha ripetuto l’autore delle “Confessioni”, che fu citato anche da Almirante: “Non si entra nella verità, se non per mezzo dell’amore”.»

 

Questa, dunque, è la parola che l’uomo moderno, che sa o crede di sapere tante cose, confondendo la potenza con il sapere (gira e rigira, si torna sempre al faustiano «sapere è potere» di Francis Bacon), ha dimenticato; una parola semplice, in fondo, e che, anch’essa, tutti credono di conoscere, solo perché se ne è fatto un abuso intollerabile.

L’uomo moderno ha sviluppato oltremodo la sua intelligenza “tecnica”, ma non ha coltivato il giardino della propria anima: ha perduto la capacità di accostarsi all’altro con delicatezza, con rispetto, con timore e tremore, come si conviene di fronte al mistero di un’anima; e questo perché crede di sapere che non esiste alcuna anima, che non esiste alcun mistero, dunque che l’altro è, come lui stesso, un insieme di atomi, di molecole, di neutroni, di impulsi chimici, di istinti, di pulsioni, di riflessi condizionati e così via: tutto, tranne che anima.

Se l’anima non c’è, se Dio non c’è – Dio, il creatore nel quale le creature possono rispecchiare, amandolo, la propria parte migliore – allora non restano che il gioco del caso, la lotta per la vita, la competizione sfrenata, l’astuzia e la sopraffazione, la corsa al piacere in qualunque modo, a qualsiasi prezzo, la ricerca della felicità intesa come benessere materiale, come dominio sulle cose, come feroce affermazione dell’Io, contro tutto e contro tutti.

Il problema dell’uomo moderno non è certo il difetto dell’intelligenza: è il tipo di intelligenza che egli ha sviluppato, coltivandola, quasi adorandola: una intelligenza fredda, calcolatrice, che non ha occhi per la bellezza, che non ha orecchi per la voce dell’altro, che non si fa scrupolo di procedere dritta per la sua strada, andando in linea retta, calpestando e travolgendo ciò che le si oppone, rimuovendo ciò che le sembra inutile, solo perché non lo comprende nella sua intima essenza. Essa, infatti, è bravissima nel calcolo delle cose, nella misurazione e nella descrizione delle cose, ma resta sempre alla loro superficie: non sa nulla di loro in profondità.

L’intelligenza di Galilei, che nella “favola dei suoni” del «Saggiatore», descrive la vivisezione di una cicala, al solo scopo di comprendere il meccanismo del suo frinire, è una intelligenza di questo tipo: fredda, spietata, senza occhi per la bellezza di un piccolo animale vivo e armonioso, senza compassione, senza pietà, senza rispetto per il mistero di un’altra vita, senza rimorso per il dolore che infligge; una intelligenza che, appunto, vede ogni cosa come fosse un meccanismo, e la natura intera come una macchina.

Anche l’intelligenza di Cartesio, anche quella di Newton, anche quella di Darwin, anche quella di Freud, sono tutte intelligenze di questo genere: fredde, analitiche, distaccate; prive di stupore davanti al mistero (il vero stupore, che non è chiedersi come funziona la macchina dell’universo); prive di delicatezza, di rispetto, di amore; prive di compassione per la sofferenza.

Invece le cose stanno altrimenti, il “tu” non è una macchina, non è solo una macchina; ne si potrà descrivere la fisiologia in termini meccanicisti, ma ciò corrisponde a una riduzione della sua complessità, a una forzatura del suo significato: a un impoverimento del reale. E ciò che vale per il “tu”, vale anche per l’i”io”: perché ogni “tu” è un “io” per se stesso, e il nostro “io” è un “tu” per gli altri. Dunque se sono freddo e spietato con il tu, lo sarò anche con me stesso, senza rendermene conto; sarò il mio peggior nemico: senza bontà, senza compassione per me stesso; né potrei aspettarmi dagli altri di ricevere quell’amore che non so darmi io per primo.

Questo è il punto: diventando indifferente agli altri, l’io crede di servire se stesso, crede di perseguire il proprio successo, il proprio potere, la propria felicità; in realtà non si ama, non si vuol bene, non si accetta e non si perdona. Copre, semplicemente, il disamore verso di sé, la mancanza di compassione verso di sé, con mille orpelli sgargianti e rumorosi. E quanto più l’io è egoista, tanto più, nel profondo, non si vuol bene: perché non si vuol bene se non colui che rispetta la propria intima essenza, la propria natura più profonda: e l’essenza dell’uomo, la sua natura, è quella di essere creatura amante del Creatore, di uniformare la propria libertà alla voce della chiamata, dunque di realizzarsi non per se stesso, ma per Lui e per gli altri.

Chi vuole affermarsi, si perderà; e chi vuole ritrovarsi, deve lasciarsi andare: deve lasciarsi andare alla forza dell’amore, che non è quella dell’«io voglio», ma quella del «tu sei»; deve assecondare il movimento dell’essere, che non è capriccioso ed instabile, non è cieco e compulsivo, ma nasce da un ordine e rispecchia un ordine superiore: l’ordine del Tutto, l’ordine dell’Amore. Le cose esistono perché vi è l’amore; e, se non vi fosse, non esisterebbero; nulla esisterebbe. Noi siamo chiamati a dire “sì” o a dire “no” alla legge eterna dell’amore, cioè a fare buon uso della nostra libertà. Questo è il nostro vero compito: tutto il resto è secondario.

Il guaio è che ci lasciamo continuamente distrarre da ciò che è secondario, ci lasciamo continuamente deviare dalla strada principale, per inseguire beni parziali o illusori, per tentar di afferrare quante più cose, quanto più potere e quanto più piacere possiamo. Siamo infedeli agli altri, siamo infedeli alla vita, perché siamo infedeli a noi stessi: non rispettiamo la nostra verità profonda, non ci adeguiamo al progetto armonioso di cui facciamo parte. Pretendiamo di farci norma a noi stessi, ma non sappiamo né dove stiamo andando, né perché: siamo come dei ciechi che pretendano di vederci benissimo; abbiamo la goffaggine dei ciechi, ma anche la presunzione e l’arroganza di chi si crede un’aquila.

Da ultimo, l’errore più grave che abbiamo commesso, quello veramente madornale, è stato di affidarci alle macchine: di pensare che  le macchine avrebbero risolto i nostri problemi, che ci avrebbero reso la vita più facile - confondendo la comodità con il bene. E abbiamo conferito ad esse un tale potere nei confronti di noi stessi, che assai a stento, ormai, se anche lo volessimo, potremmo toglierlo loro e riprenderlo nelle nostre mani.

Ma è chiaro anche ad un bambino - e dunque doveva essere chiaro a tutti fin dal principio, a noi tutti che ci crediamo tanto intelligenti - che nessuna macchina può rendere la vita migliore, se colui che l’ha progettata e che la utilizza non diviene un uomo migliore; anzi, è chiaro che una macchina, nata per moltiplicare gli effetti delle nostre azioni, se progettata e utilizzata da una intelligenza che non conosce l’amore, provocherà danni incalcolabili.

Siamo giunti a un bivio, e lo sappiamo; pure, andiamo avanti per la strada sbagliata, benché sappiamo che essa è tale. E qui, in questa tendenza autodistruttiva, è difficile vedere solo presunzione e ignoranza; è difficile non vedervi anche un principio attivo, il principio del Male, di cui tante intelligenze senza carità si sono fatte schiave, probabilmente in maniera inconsapevole, o solo in parte consapevole. È difficile, cioè, non pensare che, giunti al punto in cui siamo, non vi sia anche una volontà attiva, una azione positiva dell’uomo verso la propria perdizione; anche se la perdizione non viene riconosciuta come tale, anzi, è chiamata progresso.

Possiamo ancora sottrarci al destino fatale cui stiamo andando incontro? Forse: se avremo la forza e l’umiltà di risollevarci e di riconoscere i nostri errori; di riconoscere, in particolare, il primo e più grave di tutti, quello da cui ogni altro errore ha avuto inizio: la presunzione di una intelligenza che gira a vuoto, perché ha smarrito le vie dell’amore.

È l’antico peccato di Adamo ed Eva: la presunzione. Ma come!, dirà qualcuno, ancora con queste storielle mitiche e pseudo-sapienziali, ancora con questi oscurantismo religiosi? Eppure c’è più saggezza in quella pagina biblica sul racconto del peccato originale, che in cento e cento tomi di filosofia “moderna”. Diceva lo scrittore e filosofo colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994): «L’intera umanità si può dividere in due categorie: quella di coloro che credono al peccato originale, e quella degli sciocchi».

È un pensiero profondo, che vale la pena di meditare a lungo.