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C’è una folla dentro ognuno di noi?

di Francesco Lamendola - 25/02/2013


 

 

Il 20 luglio 2002 un imprenditore milanese del catering, Ruggero Jucker, figlio di ricchi collezionisti, si alzò improvvisamente dal letto, inseguì nella stanza da bagno e uccise con ventidue coltellate la sua fidanzata che gli aveva dormito accanto, Alenya Bortolotto, facendone a pezzi il cadavere e spargendone i resti ovunque (una parte del fegato verrà ritrovata in giardino), per poi  precipitarsi in strada, nudo, brandendo un coltello con una lama lunga trenta centimetri e gridando ai passanti terrorizzati di essere Osama Bin Laden.

Non ha mai spiegato il suo gesto: quel che pare certo è che non c’entrassero né la gelosia, né altri motivi razionalmente comprensibili. Era affetto da una grave sindrome del disturbo bi-polare: in altre parole, coloro che ne sono affetti possono compiere atti imprevedibili, anche di violenza inconsulta, senza che la loro personalità cosciente e, chiamiamola così, abituale, se ne renda minimamente conto.

L’opinione pubblica è rimasta scandalizzata, e giustamente, per il fatto che un simile individuo sia già tornato un libero cittadino: evitato l’ergastolo con la scelta del rito abbreviato, condannato a trent’anni in primo grado, Jucker si è visto dimezzare la pena in appello e, da ultimo, con tre anni di condono e altri sconti per buona condotta, ha estinto il suo debito con la giustizia dopo soli dieci anni di carcere. Non è di questo, però, che vogliamo parlare: il discorso sarebbe lungo e, al di là delle facili strumentalizzazioni e degli sfoghi un po’ tropo emotivi, sarebbe anche dolorosamente necessario, se pure estremamente complesso. Ma richiederebbe uno spazio considerevole e si svilupperebbe in una direzione prevalentemente sociologica, che in questa sede, per adesso, non intendiamo approfondire.

E nemmeno vogliamo parlare del senso di responsabilità di quegli psichiatri i quali se la sentono di rimettere in circolazione un soggetto che ha fatto quello che costui ha fatto: della loro presunzione, della viltà giuridica dietro cui si rifugiano per far digerire alla società una decisione così palesemente indigeribile. Questo è un discorso che non riguarda solo l’arroganza della psichiatria e della psicanalisi, il loro statuto di false scienze e l’ipocrisia culturale sulla quale si reggono le loro assurde pretese; ma sulla classe intellettuale in genere, che ha perso ogni legame con il sentire comune delle persone normali e che si vanta di procedere innanzi, librata nelle altezze sublimi del proprio sapere autoreferenziale.

La riflessione che vorremmo fare è di natura filosofica, e riguarda quel soggetto misterioso che siamo soliti chiamare “io”, dando solitamente per scontato – ma forse un po’ troppo - di sapere che cosa esso sia, quali siano le sue caratteristiche e, soprattutto, che cosa non sia. Ne abbiamo già parlato altre volte (vedi, p. es., gli articoli «Lo spirito non s’identifica con l’io, ma è un ente sostanzialmente diverso da esso», in data 09/10/2009; e «Non si sa come?», in data 08/03/2012, sempre sul sito di Arianna Editrice), ma il caso clamoroso della scarcerazione di Jucker ci induce a tornarvi sopra.

C’è una folla di personalità dentro ciascuno di noi, ognuna ignara dell’altra, invece di un’unica personalità che sa quel che vuole, quel che sente e quel che pensa o che, se pure lo ignora, sa – o pensa di sapere – che nel suo subconscio (Freud) e nel suo superconscio (Jung) albergano altri sentimenti, altri pensieri, altri desideri, che possono venire alla luce in maniera spontanea - nel sogno, nella nevrosi - o che possono essere portati in luce mediante tecniche apposite? La sindrome della personalità multipla  (che gli psicologi preferiscono chiamare disturbo dissociativo di identità) è una realtà che si limita a pochissimi, sfortunati soggetti, oppure deve essere interpretata come una porta socchiusa sul mistero dell’anima umana in quanto tale, di qualunque persona, anche la più equilibrata, assennata e trasparente?

È noto che, per alcune correnti di pensiero orientale, come il buddismo Theravada, noi non abbiamo un “io”, ma un complesso di operazioni mentali sempre mutevoli. Questa visione è ancora più estrema di quella ipotizzabile a partire dal disturbo bipolare, o multipolare, della personalità: in base ad essa, noi non soltanto non abbiamo una sola ed unica personalità, ma non ne abbiamo nemmeno più di una; non ne abbiamo affatto: al posto della personalità, in noi c’è il fluire della vita, che sente, vede, pensa, in costante e inafferrabile progressione, ma senza che noi possiamo mai dire chi sia il “testimone” di tali sensazioni, di tali visioni, di tali pensieri. Certo non ne è il soggetto, non ne è il protagonista; è solo, appunto, un testimone: o forse non si dovrebbe neanche dire così, perché un testimone fa pensare comunque ad un soggetto, per quanto passivo. Forse dovremmo limitarci a dire che c’è una testimonianza, anzi una serie di testimonianze, una serie di frammenti di testimonianza sulla realtà che si avvicenda sullo schermo del caleidoscopio.

Lasciamo perdere l’ovvia obiezione che una testimonianza presuppone un testimone; immaginiamo che sia possibile una specie di palcoscenico, sul quale si muovono gli attori, senza che nessuno li guardi - eppure è chiaro che qualcuno li sta guardando, altrimenti noi non ne sapremmo nulla; e lasciamola perdere per la buona ragione che dovremmo addentrarci su di un terreno talmente rarefatto, da confinare con l’evanescenza concettuale. Se noi non abbiamo un “io” e se il testimone che è in noi non è veramente un testimone, ma una specie di schermo sempre acceso, che registra gli eventi senza tuttavia “esserci”, a rigore non potremmo nemmeno incominciare questo discorso, né altri, perché non ci sarebbe nessuno che sta scrivendo e nessuno che sta leggendo; non ci sarebbe niente di niente. Ma allora da che cosa nascerebbe il pensiero, da cosa nascerebbe il nostro attuale interrogativo: chi siamo noi e “quanti” siamo?

Accontentiamoci di vedere, allora, se la teoria della folla che si muove dentro di noi, con ciascuno dei suoi membri ignaro dell’esistenza degli altri, possa presentarsi come un’ipotesi di lavoro percorribile. Supponiamo che io non sia “io”, ma una pluralità di “io”, nessuno dei quali può ambire, con qualche fondamento, all’esclusiva, o anche solo a svolgere un ruolo primario, nel contesto della “mia” personalità. Allora la personalità B che è in me, per esempio, e che viene fuori di tratto in tratto, o magari anche una volta sola nella vita, però – supponiamo – in maniera decisamente clamorosa, magari commettendo un delitto inspiegabile e totalmente privo di movente, non avrebbe niente a che fare con la personalità A, quella che gli altri solitamente conoscono (già, ma quali “altri”?; in teoria, dovrebbe esservi una “mia” personalità per ciascuno dei miei conoscenti, se non addirittura per ciascun minuto in cui quelle persone si relazionano con me); né con le personalità C, D, E, F, eccetera, che giacciono in qualche piega nascosta sotto la superficie, ma che potrebbero venir fuori quando meno lo si potrebbe immaginare.

Non è un ragionamento per assurdo: di fatto, in alcuni casi clinicamente accertati, sono state “contate” una buona dozzina di personalità “secondarie”, ciascuna caratterizzata un proprio stile, da una propria concezione del mondo e perfino con un proprio linguaggio. Si tratta di capire se si tratti solo di casi-limite, di casi aberranti e gravemente patologici, o se tali casi aberranti siano rivelatori di una condizione che è latente, e potenzialmente esistente, in ciascun essere umano. È noto che lo scrittore portoghese Fernando Pessoa (1888-1935) fu autore, sotto diversi pseudonimi, di una quantità fluviale di opere di vario genere, e ognuno di essi esprimeva una diversa personalità artistica, una diversa concezione filosofica, uno stile letterario diverso dagli altri; ma che fu solo dopo la sua morte, quando il mistero di quei sedicenti “autori” venne chiarito e fu possibile ricondurli tutti all’opera di un unico scrittore, che si comprese l’enigma abissale di Ferdinando Pessoa, l’autore che aveva voluto essere non un uomo, ma una intera letteratura.

È anche noto che Pessoa era un occultista, che possedeva straordinarie conoscenze nel campo della magia e che fu direttamente in relazione con il (tristemente) celebre Aleister Crowley, il quale, con il suo aiuto, simulò il proprio suicidio. Questo potrebbe significare che l’occultismo sia in grado di fornire una chiave d’accesso al mistero delle personalità multiple o che, addirittura, possa svilupparle, potenziarle e farle vivere, sempre più, di vita propria, ma in base ad una volontà intenzionale e a un progetto consapevole della personalità “principale”, sì da far impallidire, al confronto, l’audacia concettuale di Pirandello in «Sei personaggi in cerca d’autore»?

Sia come sia, poniamo che tali personalità secondarie (chiamiamole così, ma si danno casi in cui la personalità secondaria ha preso il sopravvento su quella principale) esistano, o che siano disponibili ad esistere, in ciascun essere umano. Che cosa le ha destate, ad un certo punto? Non si sa, impossibile dirlo con precisione. Forse una frase, forse un odore, forse un raggio di sole che cade in un certo modo sulla superficie di una finestra, in inverno, accendendola di bagliori corruschi, un minuto dopo l’alba o un minuto prima del tramonto.

Ma queste personalità erano lì da sempre, o sono nate d’improvviso, sotto l’effetto di qualche potente stimolo, anche – forse – del tutto casuale? Anche questo è impossibile saperlo: se ci sono sempre state, “noi” (cioè la nostra personalità A) non ne sapevamo nulla. Non che ne sappiamo molto di più, per dirla tutta, allorché ipotizziamo che si siano formate nel corso del tempo, ma sempre a “nostra” insaputa, sempre ad insaputa della personalità A. Se le diverse personalità si ignorano a vicenda, e se prendono consapevolezza delle altre, magari in competizione e in conflitto reciproco, solo quando la patologia psichica si fa molto avanzata, allora è chiaro che nessuno, nemmeno la personalità principale, potrebbe comprendere da che cosa abbiano avuto origine: non più di quanto essa sia capace di spiegare l’origine della realtà esterna. Siamo arrivati in un vicolo cieco; meglio tornare indietro e tentare un’altra strada.

Cominciamo, allora, con l’ipotizzare che la psiche, che noi facciamo oggetto di studio, è solo una parte dell’anima: la parte che crediamo di conoscere, o che crediamo di poter conoscere. Ma l’anima è molto più di essa, perché consiste in una struttura originaria sulla quale si innesta la psiche; e quando diciamo “originaria”, intendiamo dire che, se è possibile - fino a un certo punto - individuare le tappe di formazione della personalità, questo non è possibile per l’anima, perché essa è il presupposto di qualunque ragionamento sull’”io”, che poi è la personalità fattasi cosciente di se stessa. Alcuni filosofi ipotizzano, fin dall’antichità, che l’anima non sia individuale, ma che si origini da un’Anima universale e che passi attraverso successive incarnazioni. È un’ipotesi che merita rispetto, dato che vi hanno aderito pensatori della statura di Platone; ma, checché se ne dica, nessuna “prova” definitiva e incontrovertibile è mai stata portata a sostegno di essa.

L’anima, a sua volta, è l’involucro dello spirito: e questo è legato direttamente alla dimensione cosmica, fa parte della vita universale; se il corpo, per l’anima, non è che un veicolo temporaneo, l’anima, per lo spirito, non è che il livello base di consapevolezza. Lo spirito sa tutto, perché in relazione con tutto; ma l’anima non è in grado di cogliere che poche cose e solo le grandi anime, elevandosi molto al di sopra delle comuni possibilità, riescono a cogliere qualche cosa di più. Esistono anche delle anime assetate di potere, che riescono ad acquisire le tecniche per mettersi in comunicazione con lo spirito e impadronirsi del suo sapere e dei suoi poteri: ma la tecnica non potrà mai sostituire il “fare anima”, ossia il quotidiano lavoro di perfezionamento spirituale, per cui tali anime rimangono imprigionate nel circolo chiuso della loro brama di potere e, pur capaci di facoltà straordinarie, non evolvono, non si elevano, tendono anzi a sprofondare nei livelli oscuri e satanici della vita spirituale. È la parabola degenerativa di Lucifero.

Ora, la psiche è una piccola stanza nell’immenso palazzo dell’anima, e questa, a sua volta, è solo la dimora parziale dello spirito non ancora pienamente consapevole di se stesso e della realtà universale. La realtà universale è Amore: l’anima sempre più si innalza e si fonde con lo spirito, quanto più si abbandona al richiamo dell’amore. Nella piccola stanza chiamata psiche, germoglia la personalità: la quale, quando insuperbisce, crede di essere la sola realtà dell’uomo; ma a ricordarle la sua piccolezza e la sua stolta presunzione intervengono le personalità secondarie, nate dalla mancata comprensione della psiche di essere parte dell’anima, e questa parte dello spirito, e questo parte del Tutto. È un peccato di superbia e come tale viene punito: quell’io che ha preteso di dire: “Non c’è altra realtà al di fuori di me”, si vede costretto a lottare per non farsi sopraffare da altri “io” che insorgono con la stessa pretesa, che gli contendono la carta d’identità, che lo dichiarano un impostore e un millantatore. La superbia si cura con l’umiltà.

In ultima analisi, tutti i mali dell’uomo si possono ricondurre a un solo peccato fondamentale: la presunzione di essere autosufficiente; l’oblio della sua posizione creaturale e della sua relazione necessaria con il Tutto, cioè con l’Essere, dal quale un atto d’amore lo ha generato, gratuitamente…