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Quando il calcare dell’acquedotto divenne marrone

di Miguel Martinez - 04/03/2013

Fonte: kelebeklerblog


Thomas Homer-Dixon, in The Upside of Down,  racconta di come si è trovato, un giorno, a riflettere sull’acquedotto romano, nella Languedoc, che culmina nel famoso Pont du Gard.

Portava quarantamila metri cubici di acqua al giorno alle fontane, ai bagni pubblici, ai laboratori e alle ville di due grandi città.

Incredibilmente, la pendenza era di appena 25 centimetri al chilometro – e pensare che gli ingegneri, i calcoli li dovevano fare con i numeri romani.

L’acqua trascinava con sé molto calcare, che si depositava lentamente lungo le pareti del canale.

Quando la manutenzione era curata, lo strato era di un lieve grigio pulito; ma quando veniva trascurata, il canale si sporcava e le piante mettevano radice nel calcare, creando uno strato marrone e spugnoso.

L’acquedotto si inseriva in un immenso dispositivo.

Migliaia di campi a scacchiera con i loro fossi – così dritti da andare spesso contro l’andamento naturale del terreno – , tasse su quei campi, strade costruite con quelle tasse che portavano grano e vino verso i porti mediterranei, proprietari terrieri fedeli all’impero e protetti da un esercito sempre più costoso. Uno Stato, più o meno.

Poi tutto questo sistema entrò in crisi. Prima si fermò l’espansione agricola, poi si iniziarono ad abbandonare i campi.

Questo processo si legge anche negli strati di calcare, sempre più marroni: sempre meno soldi per pagare la manutenzione, che viene delegata sempre di più ai proprietari terrieri. I quali ne approfittano per tagliare buchi sempre più grandi nell’acquedotto, deviando l’acqua verso i propri campi. Finché non cessa del tutto la manutenzione, e non c’è più acqua da rubare, né campi da irrigare.

L’impero romano l’abbiamo sempre visto sulle mappe come una macchia, in genere rosa. Un netto confine lo separa dal bianco nulla a nord e sud.

Proviamo invece a guardare all’impero romano in tutt’altro modo.

Come un’idrovora, con canali che si estendono fin nell’Africa Nera, al Baltico e all’Asia Centrale, e anche al sud dell’India.

Ai confini, risucchiati dal vortice come stracci su una griglia, precariamente tenuti fuori dal dispositivo militare, si affollano mille bande di ogni sorta. Queste bande, all’inizio molto piccole, hanno il sogno di “diventare romani”, o quantomeno di deviare a proprio favore qualcosa del grande flusso.

Dietro a loro, premono altre bande, che ambiscono a conquistare il posto sulla frontiera; e i romani si giocano incessantemente gli uni contro gli altri.

Le bande non sono cosa diversa dall’impero.

A volte diventano i suoi soldati, a volte impongono tributi all’impero, a volte sono costretti ad accettare i capi imposti loro dai romani. Ogni banda è forte quanto ciò che riesce a ottenere da Roma – con le buone o le cattive – perché questo permette la ridistribuzione tra i propri seguaci.

Un sistema che regge bene, quasi fino alla fine, quando Roma perde il granaio africano, e quindi la principale risorsa con cui si paga tutto il sistema. Ed ecco che tagli su tagli, abbandonando gli acquedotti, i lavori pubblici e tutto il resto, molto lentamente, Roma inizia a perdere anche il consenso dei latifondisti. Alla fine sono spesso gli stessi grandi proprietari che decidono di porsi sotto la protezione di qualche banda, che così riesce a realizzare il suo sogno di “farsi romano”.

La storia non si ripete mai, e si ripete sempre. Molte cose sono simili, altre diversissime. Assieme al collasso tanto simile, assistiamo a un altro fenomeno opposto, che non ha paralleli nella storia antica: il ciberdominio, cioè l’integrazione del corpo umano in un vasto dispositivo di controllo.

Ma questa storia ci aiuta a capire qualcosa di ciò che sta succedendo lungo i vari tubi dell’idrovora dei nostri tempi: merci, migranti, aerei, oppure bande che lottano per il controllo delle grandi vie dei traffici  illegali, dal Mali al Messico.

I dominatori momentanei degli snodi hanno necessariamente certe caratteristiche.

Devono essere terribilmente ambiziosi; devono imporre il proprio potere in maniera sommaria, e quindi uccidere; e devono accettare con una certa serenità il fatto che con ogni probabilità finiranno uccisi anche loro, quando saranno ancora giovani.

Devono imporsi per carattere – ispirando insieme terrore e fiducia; e devono accumulare molta ricchezza e ridistribuirla rapidamente. Straordinario vedere emergere nei narcocorridos di oggi, tante tematiche dell’età di Beowulf.

C’è il crollo dall’interno di un sistema enorme, per eccesso di complicazione e per eccesso di crescita.

Il sistema costituisce un immenso dispositivo di vita, non riusciamo nemmeno a immaginarci di viverne senza. Eppure tocca farlo.

Chi è forte, si impone – la forza si ottiene attraverso la ricchezza, e le grandi ricchezze si formano, non nella produzione, ma nei punti di passaggio, nello sfruttamento dei dislivelli. E’ un gioco di frontiere, che rendono più interessanti i prezzi di qua, o gli investimenti di là, o il costo della manodopera, oppure il fatto che certe merci siano affascinanti perché proibite.

In questo contesto, perde di senso buona parte dell’idea del vecchio conflitto tra privato e Stato, tra statalisti e liberali.

Un po’ perché il privato e lo Stato diventano sempre più un unico complesso (quello militare-industriale negli Stati Uniti o quello TAV in Italia, per dare due esempi immediati); un po’ perché anche chi non vuole subire la prepotenza dei ricchi, è costretto a pensare a se stesso, non potendo più contare sulle istituzioni.

Le persone iniziano a formare comunità nei luoghi in cui vivono, in grado di prendere in mano i beni comuni e di gestirli in un mondo molto più barbaro di quello in cui siamo nati.

E’ una cosa che sta succedendo, sempre di più. Coloro che lo mettono in atto, essendo persone pratiche, in genere non fanno tutto questo ampio ragionamento: si trovano a farlo, per l’evidenza delle cose:

“pianteremo il seme che hanno salvato per noi, bene comune e suolo comune.”