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Creazionismo. Il dibattito antico da Anassagora a Galeno

di Marco Storni - 10/03/2013

Fonte: recensionifilosofiche




«Ciò che intendo per creazionismo – scrive Sedley in apertura del suo ultimo lavoro – [è] la tesi per cui la struttura e i contenuti del mondo possono essere adeguatamente spiegati solo postulando almeno un designer intelligente, un dio creatore» (p. 21). Raccogliendo in volume le Sather Lectures tenute a Berkeley nel 2004, infatti, obiettivo primario dell'Autore è di indagare le complesse tesi espresse nell'Antichità (da Anassagora a Galeno) sulle origini del cosmo e della vita. Il viaggio prende inizio dai filosofi Presocratici, 

i primi in ordine di tempo a interrogarsi su tali questioni, le cui dottrine sono però spesso e volentieri assai ardue da ricostruire: la mancanza di testi originali e la frequente problematicità delle testimonianze indirette rende il lavoro dello storico «qualcosa di simile a un campo minato» (p. 30). Contro l'opinione comune che vorrebbe il “programma presocratico” simile a una collezione di tesi materialiste affatto estranee alla teleologia (poiché per primo Platone – al limite preceduto da Diogene di Apollonia – avrebbe colto l'essenza finalistica del reale), Sedley spiega come ciò sia un fraintendimento bello e buono del pensiero greco delle origini: se è vero che da un lato una certa tradizione lato sensu esiodea (influenzata cioè dalle spiegazioni “genealogiche” dell'autore della Teogonia) tendeva a dare per scontata più che a spiegare razionalmente la presenza nel mondo di potenze superiori atte a governarlo, una diversa gamma di autori (comprendente in particolare Anassagora ed Empedocle) si interrogò invece in modo esplicito sui caratteri e modi dell'influsso divino sul mondo. Scrive infatti l'Autore: «che il mondo sia governato da una potenza divina è un presupposto che pervade il pensiero presocratico» (p. 24). 
Il primo capitolo è dedicato alla figura di Anassagora, il più antico campione del creazionismo, definito da Sedley «un pensatore rivoluzionario» (p. 30). La complessa fisica anassagorea descrive l'azione creatrice del nous (l'intelligenza divina) come esplicantesi sopra una preesistente materia (in principio omogenea); un primordiale moto vorticoso, infatti, avrebbe dato secondo il filosofo inizio a una progressiva separazione degli opposti elementi originariamente inclusi nel miscuglio, processo questo che mai però potrà aver fine nel tempo. Riguardo la materia che va a comporre l'universo, dunque, vale la celebre massima «vi è una porzione di tutto in tutto», nel senso che ogni ente ha sì dentro di sé tutte le innumerabili coppie di opposti che costituiscono il reale, ma viene d'altronde determinato nei suoi peculiari caratteri fisici dalle componenti di volta in volta dominanti nelle coppie (chiaro/scuro, leggero/pesante, ecc.). Aspetto interessante di tale teoria è che, in opposizione all'identificazione parmenidea di essere e pensiero, Anassagora radicalizza la separazione tra mente (nous) e mondo (dei corpi): spiega Sedley che «se l'intelligenza fosse “mescolata” […] avrebbe una certa temperatura, un certo grado di umidità, ecc. e ciò la renderebbe soggetta al mutamento fisico» (p. 33); definirla separata significa dunque concepirla libera da qualsivoglia proprietà fisica. Nel prosieguo della trattazione emergono poi molti altri punti di grande rilievo: argomenta l'Autore in modo convincente per la tesi che i ben noti “semi” anassagorei siano «ordinari semi biologici» (p. 35) e che in conseguenza il nous, responsabile del cosmo entro cui essi nascono e crescono (sviluppandosi in realtà per loro propria virtù), altro non possa essere che un agricoltore. Dalle testimonianze emerge perfino che la divina intelligenza crea e regge altri (infiniti) mondi, avendoli tutti in principio strutturati in forma analoga al nostro, per consentire alla vita di germogliare e autonomamente accrescersi al loro interno – facendo Sedley in tal modo comprendere il principio teleologico sotteso alla cosmologia (pur naturalisticamente orientata) del filosofo di Clazomene. Da tutto questo si può perciò concludere, spiega l'Autore, che «Anassagora è un creazionista in un senso molto più forte di quanto Platone sia disposto a riconoscergli» (p. 43).
Il secondo capitolo è invece dedicato ad Empedocle, il quale conduce la questione su di un «territorio più apertamente religioso» (p. 51). Il filosofo siciliano, infatti, teorizza l'esistenza di un ciclo cosmico regolato (a fasi alterne) da due principi divini di natura opposta: Philia (Amore) e Neikos (Contesa); ciascuno di essi è inoltre responsabile di una diversa zoogonia (si parla infatti a proposito di una “doppia zoogonia”). L'azione aggregante di Amore produce in primo luogo un'infinità varietà di viventi (comprendente persino ibridi, demoni, ecc.), parte dei quali viene in seguito dissolta dall'opposta azione di Contesa (l'Autore si occupa poi di chiarire quali siano concretamente i prodotti delle due zoogonie e in quale senso agli occhi di Empedocle il nostro mondo rappresenti una fase del ciclo retta da Neikos). Punto nodale dell'analisi di Sedley è tuttavia il fatto che nel sistema empedocleo la teleologia abbia un ruolo essenziale, notando egli come nei frammenti «Amore [venga] ripetutamente rappresentato come il professionista di un'arte» (p. 67) (più precisamente un carpentiere), i cui prodotti creativi «sono atti chiaramente intelligenti e finalizzati a uno scopo»; allo stesso modo «la creazione da parte di Contesa […] si presenta sotto il segno della disgregazione intelligente» (p. 74). In ultima analisi, Empedocle appare dunque un «creazionista consapevole» (p. 75), nonostante a tratti introduca nel suo modello l'elemento della casualità (il culmine della creazione di Philia parrebbe in effetti presentarsi come un assemblaggio casuale di tutti gli elementi precedentemente creati in modo intelligente e benevolo): si può perciò con certezza concludere come il filosofo presocratico sia contemporaneamente «un pensatore scientifico e religioso» (p. 76).
Il terzo capitolo è incentrato sul creazionismo di Socrate. Dopo un preambolo volto a ridimensionare l'importanza di Diogene di Apollonia nell'elaborazione prima dell'idea di teleologia, Sedley passa al vaglio diverse testimonianze sul personaggio di Socrate, al fine di comprendere in modo soddisfacente l'apporto di questi alla tesi creazionista: punto d'avvio sono dunque i Memorabilia senofontei. «Il Socrate di Senofonte è fondamentalmente un creazionista antiscientifico» (p. 92): a differenza di (e in polemica con) Anassagora ed Empedocle, il celebre ateniese ha infatti proposto una prospettiva più marcatamente antropocentrica e legata all'idea di un benevolo disegno divino atto a reggere le sorti del mondo («non abbiamo qui – si chiede Sedley – il primo caso […] dell'Argument from Design?» [p. 98]); obiettivo di Socrate è quello di dimostrare non solo che un dio esiste, ma che pure è assolutamente buono, e ciò si concretizza in un'agguerrita difesa dell'alternativa creazionista. La testimonianza del Fedoneplatonico pare sostanzialmente accordarsi al racconto senofonteo, se non altro per la presa di distanza di Socrate – esplicita in entrambi i testi – dalle spiegazioni presocratiche, le quali sono accusate dipensare in termini meramente fisici l'origine del cosmo. Si aggiunga soltanto, seguendo l'argomentazione di Sedley, che l'innovativo modus operandisocratico trae fondamentalmente le sue radici dall'ideale etico del filosofo: «fu a partire dalle sue indagini etiche, con la loro concentrazione sull'intelligenza o sulla saggezza come autentica essenza della bontà umana che Socrate propose la sua descrizione teoretica della bontà divina» (p. 103).
Il quarto capitolo è dedicato poi alla figura di Platone; oggetto principale dell'analisi di Sedley è il famoso mito sulla creazione che Timeo narra nell'omonimo dialogo. La disamina dell'Autore parte perciò da una spinosa questione di cosmologia timaica, cui per secoli gli interpreti hanno tentato di rispondere: il dio platonico, ossia il Demiurgo, compie realmente «un atto di creazione» (p. 112)? Dal testo pare emergere – spiega Sedley – che la divinità avrebbe invero dato inizio al cosmo con un atto di ordinamento globale e che le stesse difficoltà concernenti l'idea di una creazione nel tempo (così come, in realtà, di una creazione del tempo) non gettano alcun dubbio sull'assunto di fondo testé accennato: «non è un'esagerazione dire che la risposta affermativa a tale domanda [se il Demiurgo cioè realmente crei il mondo] diventa la base indispensabile per l'intera cosmogonia che ne segue» (p. 119). Il dio è in effetti concepito da Platone come un artigiano, che dà forma perfetta al caos precosmico, le ragioni della cui opera sono nel Timeo ricostruite attraverso dei ragionamenti a priori: il fatto che, ad esempio, esista un solo mondo ed esso sia il migliore di tutti i possibili non trova le sue motivazioni nel modo d'essere di ciò che è creato, ma piuttosto nell'unicità del modello ideale sulla base del quale il mondo stesso è stato plasmato (la “Forma di Animale”). La stessa tendenza (pur circoscritta) della materia bruta ad essere recalcitrante nei confronti del dominio intelligente, nonché il gran problema dell'esistenza del male, non devono essere considerate come falle nel complessivo piano del Demiurgo, disegno che infatti inesorabilmente tende al meglio e ingloba in sé ogni aspetto del reale. Ma dunque il cosmo è perfetto? In certo senso – scrive Sedley – no, perché «tutti gli oggetti generati [sono] mere copie delle Forme e nessuna copia [può] pienamente corrispondere al suo originale» (p. 137), tuttavia in altro senso sì, dal momento che il nostro mondo fisico è certamente «il migliore che si sarebbe potuto creare» (p. 138). Un ultimo paragrafo è dedicato da Sedley alla questione dell'origine delle specie in Platone. Il processo che governa la storia naturale è (al contrario del moderno evoluzionismo) un processo di involuzione e decadimento, nel corso del quale tuttavia le specie possono modificarsi e mutare nei loro caratteri specifici («Empedocle aveva già introdotto la nozione per la quale peli, piume e squame erano equivalenti quanto alla funzione, ma ciò che Platone aggiunge è l'idea di peli che diventano nel corso dell'evoluzione» [pp. 140-1]). Ciò che lega tutte le creature viventi è una ciclica trasmigrazione delle anime in diversi corpi, a seconda dei caratteri specifici della loro condotta nell'esistenza corrente: le anime che più tendono al divino (ossia sono più “filosofiche”) potranno così man mano elevarsi di grado nella grande scala naturae, sino alle soglie della divinità. L'Autore può così concludere che la zoogonia proposta nel Timeo dev'essconsiderata «più scienza che mito», poiché rappresenta «un corrispettivo scientifico miti comuni in quanto colloca la punizione dopo la vita non in un altro mondo mitico ma nello stesso regno naturale» (p. 143). 
Il quinto capitolo tratta invece gli Atomisti (da Democrito a Epicuro e Lucrezio), i primi filosofi che – a dire di Sedley – «elimina[no] a livello primario la causalità intelligente» (p. 145). In opposizione alla tradizione socratica, postulante l'esistenza di un creatore divino (e l'intrinseca bontà di questo), l'atomismo più antico tentava di spiegare l'intero mondo fenomenico attraverso strutture complesse di atomi: il solo ulteriore fattore esplicativo era il vuoto, inteso come posizione positiva del “non-essere” parmenideo. E quali sono dunque, sul piano cosmologico, le concrete conseguenze di simili idee? Spiega l'Autore che «l'universo atomista è infinito in quanto consiste di vuoto infinito che ospita un infinito numero di atomi» (p. 148) e che dunque il casuale aggregarsi di tali atomi nel vuoto produce infiniti mondi, nel cui numero necessariamente ne esisteranno di «infiniti […] » (p. 149). Tale ragionamento, però, non è a livello logico del tutto convincente: un rilevante aggiustamento in questo senso verrà in effetti operato dai più tardi Epicurei. Prima di esporre «l'alternativa epicurea al creazionismo» (p. 161), Sedley passa tuttavia in rassegna le diverse obiezioni rivolte da Epicuro (e dal suo corifeo Lucrezio) alla tradizione creazionistica di matrice socratico-platonica; la disamina che l'Autore conduce (e che in questa sede non può purtroppo essere riproposta) prende avvio da due semplici domande: «in che modo dio avrebbe potuto concepire un mondo prima della sua creazione?» e inoltre «che cosa mai potrebbe aver motivato atto divino di creazione?» (p. 153). Le risposte epicuree consisteranno nel negare qualsiasi atto divino di originaria creazione, nonché ogni benevolo interesse del dio (o degli dei, residenti negli intermundia)verso il cosmo o l'umanità. L'origine dell'universo consisterà allora in un assemblaggio casuale di atomi che daranno per forza di cose luogo a infiniti mondi (secondo il principio distributivo dell'isonomia): ritengono gli Epicurei che «qualsiasi cosa sia possibile è anche reale perlomeno in alcuni infiniti mondi esistenti» (p. 169). E dove sta allora la differenza rispetto al modello democriteo? Posta l'infinità varietà degli atomi ammessa da Democrito, nel suo universo «rimane la reale possibilità che, fra l'infinità dei mondi, neppure due siano composti esattamente degli stessi tipi di atomi nelle stesse proporzioni numeriche» (p. 171) (e così uno spiraglio resterebbe aperto all'ingresso di principi esplicativi extra-materiali); Epicuro e i suoi seguaci, invece, stabilendo un numero finito di possibili forme per gli atomi (o meglio «asserendo che vi è una grandezza matematicamente minima» [p. 172]), riescono dal canto loro a mantenere il numero delle possibili combinazioni atomiche finito. Sedley può perciò concludere: «date le sole premesse che vi è un numero finito di tipi possibili di mondo e che per tutto un universo infinito questi tipi saranno distribuiti secondo uno schema più o meno regolare e reiterato all'infinito, la cosa sembra concludersi felicemente: perfino in assenza di una creazione intelligente, dovevano esserci mondi come il nostro» (p. 176).
Il sesto capitolo ha per oggetto Aristotele e la sua «teleologia cosmica» (p. 203). Nonostante lo Stagirita non sia a rigore un creazionista, Sedley sottolinea vigorosamente l'influsso delle cosmologie (e cosmogonie) socratica e platonica sull'elaborazione delle fondamentali idee metafisiche e biologiche del filosofo. Aristotele, in questo influenzato dal racconto del Timeo (e anzi apparendo in tal circostanza «più platonico dello stesso Platone» [p. 179]) concepisce dio come essere massimamente felice e dunque (platonicamente) dedito alla sola contemplazione: ciò lo conduce però a negare alla divinità il ruolo di amministratore e concreto reggitore del mondo; i viventi terreni, dal canto loro, semplicemente si sforzano di emulare la perfezione di quel modello supremo. Malgrado la natura non sia creazione divina (l'universo nella sua interezza è infatti eterno), tuttavia essa «è sufficientemente analogaa un'opera nel suo funzionamento da far sì che molta della luce diffusa da Platone [con la sua dottrina creazionista] si conservi» (pp. 183-184). Analizzando i principi della fisica aristotelica (e in primis dottrina delle quattro cause), l'Autore riesce perciò a mostrare che – nonostante i grossi limiti e debolezze dell'analogia medesima – lo Stagirita riesce in fondo a sostenere efficacemente «la presenza in natura di strutture non deliberative ma nondimeno finalistiche» (p. 191). Dopo aver sviscerato gli argomenti anti-atomistici tramite cui Aristotele cerca di mostrare la compatibilità di “necessità” e “caso” (o “fortuna”) con l'elemento teleologico, Sedley si sofferma sul rapporto tra strutture finalistiche universali e particolari (ossia tra quelle proprie del cosmo e quelle invece peculiari all'individuo) argomentando in favore della netta priorità delle prime sulle seconde (e pervenendo dunque all'idea – anch'essa di matrice platonica – che «la teleologia biologica dipende da una precedente teleologia cosmica» [p. 205]). Una speciale attenzione è rivolta infine alla teorizzazione aristotelica di una scala naturale nettamente antropocentrica, la quale parrebbe a tutta prima collocarsi in una prospettiva più ristretta di quella (“universalizzante”) precedentemente posta come prioritaria (Sedley si prodiga in ogni caso a illustrare la non conflittualità di ciò con il «livell[o] di spiegazione globale»). L'Autore può così concludere che, in generale, l'eccezionale contributo dello Stagirita «alla filosofia della biologia deve la sua prima ispirazione alla teoria creazionista che egli studiò nella scuola di Platone» (p. 210).
Il settimo capitolo è incentrato sugli Stoici. L'attenzione di Sedley è principalmente rivolta alle argomentazioni stoiche «sulla creazione intelligente e sul governo del mondo» (p. 211), dal momento che molti di questi – rifacendosi in particolare al pensiero di Socrate e di Platone – hanno variamente sostenuto che il mondo esistente sia il migliore possibile e che in esso sia sempre operante una divina causalità teleologicamente orientata. La prospettiva – comune ai maggiori filosofi della Stoà – che accosta una materia assolutamente inerte ed un principio immanente di carattere e razionale, il quale opera a tutto campo su di essa (idea che notoriamente conduce ad un rigido determinismo, se non al fatalismo), deve in gran parte le sue origini – spiega l'Autore – ad una rilettura e reinterpretazione di alcune tesi socratico-platoniche sull'origine del cosmo; il formidabile passo concettuale operato dagli Stoici è da Sedley illustrato (secondo un procedimento difficilmente riproducibile in questa sede) all'interno dei paragrafi: «Appropriarsi di Socrate» (p. 218) e «Appropriarsi di Platone» (p. 229). Allo stesso tempo significativo è anche il pensiero espresso dai filosofi stoici sui beneficiari ultimi della creazione, gli uomini: assai complesso è infatti, nota Sedley, conciliare una prospettiva fortemente antropocentrica del cosmo («l'identificare i beneficiari ultimi del disegno del mondo nei suoi residenti umani è senz'altro una caratteristica primaria del pensiero stoico» [p. 233]) con l'altrettanto essenziale idea che «i nostri interessi individuali non sono mai chiusi in se stessi ma sempre uniti in modo inestricabile a quelli del mondo nel suo complesso» (p. 237). Nonostante tuttavia su questo specifico punto sia difficile trovare una soluzione che non conduca la dottrina stoica in contraddizione (in tal senso illuminante è l'obiezione dello scettico Carneade), Sedley conclude il suo resoconto notando come «il comune lascito degli Stoici e degli avversari loro contemporanei» sia piuttosto l'articolazione del dibattito sulla creazione «in una rete abilmente ragionata di argomenti e controargomenti» (p. 240).
L'Epilogo del volume presenta alcune considerazioni sul creazionismo svolte da Galeno nel trattato De usu partiumAncora una volta riprendendo Platone e Aristotele, il celebre medico sviluppa la tesi (ancora una volta in polemica con l'“empia” tradizione atomistica e materialistica) che qualunque cosa ci sia stata fornita – l'esempio addotto è quello dei peli sul corpo – «riflette la migliore decisione possibile da parte del nostro creatore» (p. 243). Lo scienziato e filosofo, tuttavia, richiamandosi stavolta all'esempio di Socrate, trova in fondo privo di senso addentrarsi in una speculazione filosofica intorno alle origini dell'universo e alla struttura causale della realtà: «Galeno conosce, sfrutta e porta avanti la tradizione del creazionismo pagano come nessuno prima di lui e lo fa con tutta l'abilità e la perspicacia di un esperto scienziato. Eppure nel suo ritorno al distacco socratico delle scienze teoretiche, nello stesso tempo, sta ripensando il vero significato di quella tradizione» (p. 245). Ciò vuole probabilmente indicare che l'interrogazione sulla generazione di tutte le cose, nonostante le ragioni (soprattutto scientifiche) che possano favorire l'una o l'altra idea, resta una questione aperta, un vivo problema, la cui soluzione mai potrà dichiararsi con sicurezza definitiva e mai potrà fondarsi su una certezza assoluta. Il serbatoio concettuale e argomentativo che contraddistingue il mai concluso dibattito antico intorno alle origini dell'universo è perciò un modello filosofico e scientifico cui anche al giorno d'oggi è utile guardare quale modello di ricerca aperta e di impegno intellettuale: un dibattito ricco di perspicaci ragionamenti e profondissime intuizioni sull'uomo e la realtà che lo circonda. Scrive infatti Sedley, in chiusura del volume: «per questi doni rimarremo sempre in debito con loro [gli Antichi]» (p. 246).
L'edizione italiana di Creazionismo è arricchita inoltre da una Postfazione (Il debito con gli antichi) di Francesco Verde (traduttore e curatore del volume), attraverso la quale è reso al lettore un affresco complessivo delle principali tesi proposte da Sedley nel volume. Verde ripercorre i principali nodi concettuali del testo, corredando tale esposizione di preziose (e numerose) indicazioni bibliografiche. Nel congedarsi dal lettore, egli poi a pieno titolo afferma: «la chiarezza esplicativa, la densità delle tematiche affrontate, nonché la ricca e aggiornata nota bibliografica finale rendono quest'opera un indiscutibile punto di riferimento per chiunque intenda seriamente approfondire la genesi del creazionismo e le sue radici antiche» (p. 263).