Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La Chiesa che si adegua al mondo cessa di interessare i credenti

La Chiesa che si adegua al mondo cessa di interessare i credenti

di Andrea Cascioli - 13/03/2013

Fonte: barbadillo



Franco CardiniHa osservato molte tempeste della Storia, Franco Cardini. Coltivando passioni da irregolare, dal guevarismo al sogno dell’Europa nazione di Thiriart, e tuttavia mantenendo la “navicella dell’ingegno” ben salda nella rotta di un solido cristianesimo, mutuato in gioventù dalla lezione di Attilio Mordini.

Non poteva dunque non colpirlo il grande passo di Benedetto XVI. Occasione, per lui, di rivisitare perfino la misteriosa profezia di Malachia sulla prossima fine della Chiesa, che l’erudito fiorentino interpreta piuttosto come un passaggio epocale nel “lungo duello tra la tendenza monarchica papale e quella conciliaristica” in cui riassume l’intero cammino della Chiesa di Roma.

 

Il Conclave si aprirà oggi: c’è chi afferma che la divisione in seno al Collegio cardinalizio non sia più tra “conservatori” e “progressisti”, ma piuttosto tra sostenitori e oppositori della “purificazione” avviata dal Papa abdicante. E’ un’ipotesi plausibile?

Tradizionalmente esistevano due chiavi di lettura: la divisione per blocchi nazionali o continentali e quella tra “curiali” e “non curiali” che forse regge un po’ di più. Si usava parlare anche di “tradizionalisti” e “innovatori” rispetto al Concilio Vaticano II. Categorie che possono tuttora esistere, ma riguardano di più i cardinali anziani, molti dei quali non votano in Conclave. Oggi siamo di fronte a una frammentazione più ampia, che è stata probabilmente tra le ragioni della rinuncia di Ratzinger, il principale protagonista dell’itinerario della Chiesa post-conciliare.

Come mai invece la distinzione tra curiali e non curiali continua a pesare?

Perché attorno ad essa si gioca la sostanza dei concili ecumenici. Il problema della gestione collegiale della Chiesa li ha attraversati tutti fino al Quattrocento, dopodiché è subentrata la lunga stagione del monarchismo pontificio, sancito dal Concilio di Trento e rafforzato nel Vaticano I. Ora siamo in un momento propizio per la rinascita di istanze conciliari, a fronte del disaccordo sui temi fondamentali, della distanza ormai abissale tra le gerarchie e il popolo dei fedeli, e del rarefarsi delle pratiche religiose tra gli stessi credenti, a parte le aree dell’Africa e dell’America Latina in cui la Chiesa rimane forte.

Proprio in quelle aree, tuttavia, il cattolicesimo è insidiato dal dilagare dei movimenti evangelici

E’ il frutto di una manovra avvolgente: penso all’azione della United Fruit in Guatemala nel periodo in cui le sette protestanti conquistavano il paese. L’egemonia statunitense nella storia dell’America Latina si è accompagnata in maniera evidente a processi di protestantizzazione.

Il ritorno al collegiarismo ecclesiale potrebbe avvicinare la Chiesa al modello della cristianità ortodossa, e magari favorirne l’avvicinamento?

Non è ciò che auspico, limitandomi ad osservare che, se la conduzione monarchica della Chiesa è in tale crisi da obbligare un Papa ad andarsene, o si forma una maggioranza cardinalizia così compatta da dare avvio ad un papato energico, oppure dal Conclave uscirà un Papa debole e gli attuali dissidi potranno risolversi solo in sede conciliare.

A volte è accaduto che un Papa ritenuto malleabile avviasse processi rivoluzionari: si ricorda, su tutti, il caso di Giovanni XXIII

Ci sono sempre delle sorprese: come ci ha stupiti Giovanni XXIII, non ci aspettavamo Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e nemmeno Benedetto XVI, che pure pensavamo di conoscere. Proprio da lui, il Papa più “istituzionale” dopo Pio XII, è venuta la sorpresa più grande.

Alcuni credono che Ratzinger verrà ricordato soprattutto come il successore di un grande Papa. E’ la verità, o è possibile che la Storia lo rivaluti, anche rispetto a Wojtyla, per il maggior impulso che ha dato alla moralizzazione della Chiesa, dallo Ior agli scandali dei Legionari di Cristo e della pedofilia?

La Storia intesa come svolgersi di eventi non ha alcuna ragione immanente. Come cattolico penso semmai che abbia una ragione trascendente, nota solo a Dio. E la Storia come esegesi degli eventi è ugualmente irrilevante, non già perché cambino gli eventi ma perché cambiano le interpretazioni che se ne danno.

Di recente ha scritto, citando Maritain, che l’”inginocchiarsi della Chiesa di fronte al mondo” nel Concilio Vaticano II ha accentuato, anziché alleviare, la crisi delle vocazioni e della religiosità. La riaffermazione dell’identità cristiana può essere una risposta forte all’individualizzazione della fede?

La Chiesa è nata come comunità dei fedeli che intende preparare il ritorno del Cristo alla fine dei tempi. Se dichiara invece che il suo fine ultimo è adeguarsi ad una modernità oltretutto già conclusa, almeno nella forma che Bauman chiama “solida”, abbandona in buona fede il suo intendimento originario e diventa una società di mutuo soccorso o una multinazionale umanitaria come già ve ne sono altre, e come a volte dà l’impressione di essere. La Chiesa che si adegua al mondo cessa di essere interessante per i credenti.

Vorrebbe insomma un cattolicesimo tradizionale negli aspetti dottrinali e “sociale” sul piano pratico?

La tradizione in ambito dottrinale serve appunto ad affrontare la realtà: senza adattarsi ai parametri di chi non è Chiesa, ma interpretando le necessità del genere umano odierno. Anche prendendo in considerazione i dilemmi del celibato ecclesiastico, del sacerdozio femminile, dell’eutanasia. O il fatto che, come ripetono gli esponenti della cristianità orientale, la Chiesa di oggi è perseguitata in molte zone del mondo perché è avvertita come un supporto del neocolonialismo occidentale e delle ingiustizie sociali che ne derivano. Il cristianesimo è realtà sociale o non è nulla: è una religione non individuale ma personale, e la persona si qualifica sulla base delle sue relazioni sociali.

Ha citato le comunità cristiane del Medio Oriente, ritrovatesi, tra le guerre di Bush e gli esiti incerti delle “primavere arabe”, in lotta per la loro stessa sopravvivenza. La Chiesa ha fatto abbastanza per denunciarne il dramma all’opinione pubblica mondiale?

La Curia romana non ha posto a sufficienza il problema, perché al suo interno ci sono correnti che non hanno interesse a farlo. Ne ho parlato di recente con un amico, membro della Curia, il quale mi portava ad esempio dei medesimi dissidi le reazioni contrastanti che hanno accolto in Vaticano la notizia della morte di Chávez. Un episodio, tra tanti, delle rivalità profonde che attraversano il Sacro Collegio.

Chávez dichiarava di ispirarsi ad un socialismo “bolivariano e cristiano, non marxista-leninista”. Quale cristianesimo è stato il suo?

Il cristianesimo di quella gran parte di Chiesa latinoamericana che si è schierata con gli sfruttati: nel basso clero, ma anche in esponenti della gerarchia come monsignor Câmara. Il tenace anticomunista Giovanni Paolo II ha testimoniato questo ripensamento riabilitando, vent’anni dopo la condanna della “teologia della liberazione”, i sacerdoti guatemaltechi ammazzati dalla Cia. La sua parabola comprende tanto le relazioni diplomatiche col Cile di Pinochet quanto lo storico viaggio pastorale a Cuba. E Chávez non ha commesso l’errore di perseguire una politica antiecclesiastica, come avevano fatto il primo Castro e l’ultimo Perón.