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Perché gli Stati Uniti non possono perdonare Chavez

di Melkulangara Bhadrakumar - 13/03/2013


542697Una tabella di marcia è pronta La storia, evidentemente, non si è conclusa in America Latina. Tra la tempesta del ‘sequestro’ che colpisce incessantemente il circuito politico Washington, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama potrebbe ancora vedere un alone argenteo fra le pesanti nuvole nere, affrettandosi ad esprimere interesse in un ‘rapporto costruttivo’ con il Venezuela, appena il presidente Hugo Chavez ha esalato l’ultimo respiro. Ma Obama, che non è mai a corto di parole, sembrava insolitamente brusco e incerto su come necessariamente presentare le sue condoglianze. Le élite politiche statunitensi, in qualche modo si sono unite, le élite sono così polarizzate che possono anche non essere d’accordo che la terra ruoti intorno al sole, ma subito serrano le fila scrutando attraverso il binocolo verso Caracas e gridando ‘Terra!’
Chavez evoca forti sensazioni nella mente statunitense. I repubblicani sulla collina gongolano, ritenendo una buona cosa che Chavez sia morto. Sia i democratici che i repubblicani vedono la possibilità di lasciarsi alle spalle il lungo periodo di tensioni USA-Venezuela e di aprire una nuova pagina. Tuttavia, con il passare delle ore, il dipartimento di Stato è intervenuto per tenere un briefing speciale, fornendo una sfumata reazione statunitense, forse nel tentativo di perfezionare le esplosioni d’intemperanza politica dei membri del Congresso, nonché per trasmettere una serie complessa di segnali alla leadership al potere a Caracas… Privo di retorica, il briefing del dipartimento di Stato ha segnalato la disponibilità di Washington a relazionarsi con il Venezuela post-Chavez, ma con l’importante avvertenza che le elezioni presidenziali dovrebbero tenersi entro 30 giorni, come previsto dalla Costituzione, assicurando “parità di condizioni” all’opposizione nel parteciparvi e tenendole in modo libero e leale, con gli osservatori stranieri, per essere convinti che “i principi democratici” sono rispettati.
Gli anonimi alti funzionari del dipartimento di Stato si sono lamentati che Chavez era solito usare lo Zio Sam come un «bersaglio, usandoci come una specie di spaventapasseri che può essere attaccato”, e hanno ammesso “quanto sia difficile cercare di avere un rapporto positivo con il Venezuela, ci piacerebbe… un più produttivo rapporto funzionale”. Hanno ripetutamente individuato aree specifiche in cui ci potrebbe essere dell’interesse reciproco, “dove i nostri interessi coincidono”, la lotta alla droga e al terrorismo, il commercio e le relazioni economiche, l’energia. Hanno detto che gli Stati Uniti “vedono se c’è qualche spazio per lavorare su queste cose… se c’è lo spazio per farlo da parte loro [del Venezuela], lo scopriremo”, anche se “almeno inizialmente, non vediamo questo grande cambiamento”. Nel complesso, quindi, gli Stati Uniti “adotteranno un processo lento durante il quale continueremo a parlare e a difendere i principi democratici… abbiamo stabilito una sorta di tabella di marcia, se volete, la via che ci piacerebbe seguire, una sorta di processo passo dopo passo”.
Leggendo tra le righe, l’amministrazione Obama sta cercando a tentoni una via d’uscita, data l’alta probabilità che il braccio destro di Chavez e Vicepresidente Nicolas Maduro possa essere il potere dominante emergente alle prossime elezioni presidenziali. Washington perseguirà un duplice approccio verso di lui, facendo pressione con il pretesto della sua preoccupazione ai “principi democratici”, mentre cerca un’apertura per un “rapporto costruttivo”. Si tratta di un ben noto approccio che gli Stati Uniti hanno illustrato nel corso del tempo, non solo in America Latina ma anche altrove. Ma se funzionerà nel Venezuela di oggi, resta da vedere. La dipartita di Chavez non significa la fine della sinistra in Venezuela. Né l’amministrazione statunitense ignora l’enorme importanza politica della fedeltà apertamente espressa a Maduro dai militari venezuelani.

Giocando un gioco lungo
Chiaramente, la sinistra è penetrata profondamente nella società venezuelana e nel breve termine almeno, Maduro erediterà il mantello della leadership. L’opposizione venezuelana, che rappresenta in generale gli interessi della classe media, non ha oggi il peso per mutare l’equilibrio di potere a suo favore. Anche i detrattori ammettono che Chavez si è ripetutamente assicurato dei mandati legittimi governando attraverso genuine elezioni democratiche. In breve, la “tabella di marcia” eil  “passo dopo passo” degli statunitensi si propongono, da un lato di far tremare il governo Maduro, imponendogli una risposta “costruttiva” alle aperture di Washington, mentre dall’altra parte gioca un  gioco lungo. Le due parole agghiaccianti espresse al briefing del dipartimento di Stato, “tabella di marcia” e “lento processo”, suggeriscono che lo Zio Sam ha tutta l’intenzione di screditare il Chavismo, gli insegnamenti di Chavez, ora che il bizzarro e avvincente populista socialista dall’immenso carisma ha lasciato libero il palco. Evidentemente Washington non ha nessuna intenzione di lasciare che il Venezuela cerchi da solo la via, in un momento cruciale della sua storia. Tanto è in gioco.
Prima di tutto, vi è il petrolio. Chavez ha preso di nuovo nelle mani nazionali il controllo delle vaste risorse petrolifere del Venezuela. Nel 2007 ha iniziato a spingere per un controllo nazionale dell’industria petrolifera del Paese. Le sue azioni hanno portato all’abbandono dei grandi progetti nell’Orinoco di Exxon Mobil e ConocoPhillips. Eppure, raffinerie statunitensi continuano a importare più di un milione di barili di petrolio venezuelano al giorno, la seconda fonte più importante delle importazioni di petrolio degli Stati Uniti, superate solo dalle cessioni dal Canada. Ma altre aziende internazionali si sono insediate, in particolare, dalla Russia e dalla Cina. A dire il vero, si attende una lotta cupa con Big Oil che cerca di recuperare almeno parte del terreno perduto, oltre alle sgomitate con i concorrenti, essendo un’aspettativa diffusa che il Venezuela possa probabilmente aumentare la sua produzione di petrolio.
Il Venezuela ha dimostrato di avere riserve di greggio per 297.570 milioni di barili, secondo un rapporto del 2012 dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio. Tuttavia produce solo 2,9 milioni di barili al giorno e ne esporta 1,6 milioni  al giorno. (In confronto, l’Arabia Saudita, il più grande produttore dell’OPEC, ha minori riserve accertate, 265.410 milioni di barili, anche se produce 9,3 milioni di barili al giorno e ne esporta 7,2 milioni al giorno, secondo l’OPEC.) La vendita di petrolio del Venezuela alla Cina è salita alle stelle e Chavez ha firmato un accordo per 40 miliardi di dollari di prestito con Pechino, confermando la garanzia dell’accesso della Cina al petrolio venezuelano. Inoltre Chavez ha fornito Cuba di tutto il petrolio di cui aveva bisogno, linfa vitale per l’economia di quel Paese in lotta per trovare la sua strada nella difficile transizione nel periodo post-guerra fredda, di fronte all’ostilità implacabile di Washington. Il petrolio venezuelano ha forgiato l’asse Cuba – Venezuela, che si è rivelato un punto di svolta nella politica regionale. L’Avana ha inviato migliaia di operatori sanitari in Venezuela che hanno contribuito a realizzare il progetto sociale per i poveri di Chavez. I consulenti di sicurezza cubani hanno aiutato Chavez a neutralizzare le macchinazioni degli Stati Uniti contro il suo governo.
Inoltre, ancora una volta il petrolio ha spinto Chavez verso il suo iniziale obiettivo diplomatico di rilanciare il cartello dei paesi esportatori di petrolio, conosciuto come la OPEC [Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio] con l’ordine del giorno di incrementare i proventi per il Venezuela. E questo, a sua volta, lo mise in contatto con un leader che gli Stati Uniti vogliono ostracizzare totalmente, l’iraniano Mahmoud Ahmadinejad. La vicinanza tra i due è sbocciata in una stretta amicizia e alleanza in pochissimo tempo, nutrita dalla comune antipatia verso le politiche degli Stati Uniti. Basti dire che il petrolio rimarrà un fattore chiave per le politiche degli Stati Uniti verso il Venezuela. Ma alla fine l’eredità di Chavez non può essere ridotta a quella di un venditore di petrolio. Il punto è che ha colpito in profondità i principali interessi degli Stati Uniti a livello regionale e globale, divenendo difficile per Washington perdonarlo facilmente, e possibilmente per sempre.

Un’alternativa al Consenso di Washington
L’eredità di Hugo Chavez è una cosa meravigliosa. Il Venezuela è un Paese con una popolazione di circa 30 milioni dalla limitata forza nazionale, ma la morte di Chavez è stata osservata e discussa come un evento internazionale di grande importanza. Nonostante la campagna sostenuta dall’occidente per demonizzare Chavez come ‘dittatore’, l’opinione pubblica mondiale in generale lo prende seriamente come un uomo del destino, come è confermato dalla lode smaccata profusa dalle leadership di Brasile, Russia, Cina, India e così via. Infine, ciò che conta è che, nonostante il suo stile autoritario, nella tradizione latinoamericana del caudillismo o del governo forte, Chavez era un leader eletto e ogni elezione che ha affrontato, ne è uscito vincente in modo schiacciante sui suoi rivali.
Cosa spiega questa straordinaria popolarità tra il suo popolo? In poche parole, è stata la Rivoluzione Bolivariana, la visione di Chavez a fare del Venezuela uno Stato socialista. Ha intrapreso numerosi ‘missioni’ sociali al fine di promuovere l’alfabetizzazione di massa, fornendo sicurezza alimentare e assistenza sanitaria in tutto il Paese. Il risultato è evidente. Chavez è riuscito in buona misura nella ridistribuzione della ricchezza del Venezuela, migliorando il tenore di vita del popolo oppresso. Secondo le Nazioni Unite, la Commissione economica per l’America Latina, la povertà in Venezuela è scesa di ben il 20,8 per cento, dal 48,6% al 27,7, nei soli otto anni tra il 2002 e 2010, e la portata del successo di Chavez nel colmare il divario tra ricchi e i poveri è stato tale, che il Paese oggi ha il più basso coefficiente di Gini di tutta l’America Latina: 0,394. La Banca Mondiale stima che nel corso del periodo 2003-2009 la percentuale di venezuelani che vive sotto la soglia di povertà sia scesa dal 62% al 29%. In sei anni, dal 2001 al 2007, l’analfabetismo è sceso dal 7% al 5%. Chiaramente, Chavez ha portato il Venezuela a un elevato livello di uguaglianza socio-economica. Questo e solo questo spiegherebbe la massiccia dimostrazione di sostegno, di elezione dopo l’elezione da parte della classe operaia del Paese. Ma ancora più importante, gli ha dato una voce, un senso di dignità, un’assertività nel rivendicare i propri diritti e anche il diritto a sognare una vita migliore.
In effetti, questo ha funzionato anche in altri modi. In primo luogo, Washington era ‘bloccata’ con Chavez. Tutti i trucchi sporchi nell’armeria della Central Intelligence Agency non potevano destabilizzare il regime di Chavez. Né poteva scherzare con il caudillismo come con il peronismo. In altre parole, non era una questione di personalità o cojones soltanto. In circostanze diverse, Washington avrebbe sminuito Chavez per la sua mancanza di istinti democratici. Ma, al contrario, Chavez ha mantenuto costantemente il Venezuela sul percorso democratico. Le violazioni dei diritti umani erano una rara occorrenza. La libertà dei media in disaccordo o critici del governo non è mai stata minacciata. Le elezioni si sono svolte regolarmente e sono state assai eque secondo gli osservatori imparziali, e la prospettiva di un trasferimento pacifico del potere non è mai stata messa veramente in dubbio. Il fatto è che Chavez ha vinto la sua rielezione di ottobre con il 54% dei voti. Con la sola forza della sua personalità e delle sue politiche, Chavez ha assicurato che il ‘sinistrismo’ si radicasse nella politica del Venezuela. Così, nelle elezioni di ottobre, anche il principale candidato dell’opposizione Henrique Capriles Radonski finì praticamente con l’approvare le missioni di Chavez, sostenendo che avrebbe avuto la possibilità di poterle gestire meglio e in modo più efficiente.
La moltitudine di poveri, che sono stati ignorati e dimenticati, hanno riacquistato il rispetto di sé durante l’era Chavez e, anche senza di lui, sono tenuti a richiedere la partecipazione al sistema politico e sociale del Paese. Il fervore delle masse almeno in parte compensa il pericolo che il sistema che Chavez ha lasciato non sia così radicato come dovrebbe essere. Così, nel breve periodo, il suo partito è del tutto certo di mantenere il potere. A dire il vero, Chavez ha lasciato un segno indelebile nel panorama politico non solo in Venezuela, ma anche nel continente latino-americano nel suo complesso. Ha ispirato l’ondata politica di sinistra in tutto il continente. Diversi paesi hanno ‘oscillato’ negli ultimi 14 anni, Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Ecuador, Perù, e hanno continuato a eleggere leader di sinistra. Ciò che li accomuna è l’accento che questi leader hanno posto sulla lotta alla povertà, la giustizia sociale e l’opposizione pronunciata all”imperialismo’ USA. Avviando questa sinergia, Chavez ha svolto un ruolo fondamentale nel creare nuovi organismi regionali con una concertata integrazione regionale, L’Unione delle nazioni sudamericane [Unasur], l’Alleanza Bolivariana per le Americhe [Alba] e la Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi [ Celac]. Si tratta di una strategia accorta, in quanto ha creato un ‘muro di fuoco’ contro un eventuale intervento degli Stati Uniti nella regione. La realtà per cui l’Organizzazione degli Stati Americani [OSA], che gli Stati Uniti hanno utilizzato come strumento di egemonia regionale, è stata relegata in secondo piano perdendo la sua preminenza. La conseguente perdita di influenza degli Stati Uniti nella regione, potrebbe rivelarsi il lascito più importante di Chavez.
Dal punto di vista di Washington, il culmine della sua influenza regionale è stato nel dicembre 1994 a Miami, quando il presidente Bill Clinton ospitò il primo vertice delle Americhe nel tentativo di lanciare in America Latina l’immagine degli Stati Uniti. Da allora in poi, è stato un costante declino. Il pendolo ha cominciato oscillare praticamente dall’altra parte dal 1998, quando Chavez andò al potere. Oggi la regione riverbera il modello socialista che Chavez ha esposto, e non la zona di libero scambio delle economie di mercato, dall’Artico alla Tierra del Fuego, che Bill Clinton immaginava. Chavez ha stabilito che l’America Latina non ha bisogno di seguire l’esempio di Washington e in effetti farebbe meglio a non farlo. È vero, il modello Chavez non è diventato un modello uniforme dell’America Latina, ma il suo progetto ha dimostrato in modo generale che ci sono alternative alla visione di sviluppo economico e politico di Washington. La lungimiranza di Chavez sta nella sua generosità nel mettere il petrolio venezuelano a disposizione degli altri Stati poveri della regione, salvandone le economie in modo che fossero abbastanza forti da scontrarsi con il diktat di Washington. Vide che, aiutando i vicini piccoli, rafforzava la capacità del Venezuela nel resistere alle pressioni degli Stati Uniti. A sua volta, la sua posizione abrasiva contro l’imperialismo degli Stati Uniti, sulla scena internazionale, ha anche fornito lo spazio politico per altri Paesi dell’America Latina, meno ‘militanti’, per poter negoziare con Washington. Nel frattempo, questo emergente clima politico latinoamericano ha aperto la porta ad altri grandi giocatori comparsi sulla scena, che era fino ad allora dominata dagli Stati Uniti, in particolare la Cina.
Infatti, attraversando una fase critica, quando tutto questo stava accadendo in America Latina, gli Stati Uniti erano occupati dal tentativo di districarsi dal pantano in Iraq. Ma in ultima analisi, sono state le iniziative di Chavez, nel creare un’unione economica e un’unità politica regionale, che praticamente hanno ricacciato il potere degli Stati Uniti sulla regione. In aggiunta a questo, il suo atteggiamento provocatorio sulla scena mondiale, rimproverando l’imperialismo degli USA, ha colpito le corde profonde della psiche popolare latino-americana. L’effetto valanga di tutto questo era evidente nel fallimento degli Stati Uniti nell’avere il sostegno di molti Paesi dell’America Latina per l’invasione dell’Iraq, nel 2003. Guardando indietro, Chavez è riuscito nella sua missione di minare l’influenza degli Stati Uniti in tutta l’America Latina e probabilmente c’è riuscito su una scala che neanche Fidel Castro e Che Guevara, nel loro periodo di massimo splendore, potevano avere…

La ripubblicazione è gradita con riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation.

Traduzione di Alessandro Lattanzio - SitoAurora