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Indiani: loro lo sono, noi li facciamo

di Gianni Petrosillo - 13/03/2013


Erano molto meglio le barzellette, le pacche sulle spalle, le corna nelle photo opportunities e i cucù di Berlusconi, alternati agli accordi favorevoli con Mosca, Tripoli, Algeri, Teheran ecc. ecc. (se non altro finché pure il Cavaliere non si è adoperato per ricadere nell’antico vizio italico del tradimento degli alleati, copyright del made in Italy almeno dal 8 settembre 1943) rispetto al dilettantismo dei tecnici che si sono fatti organizzare l’ evasione dei nostri soldati, illegittimamente detenuti per accuse di omicidio, pretestuose e mai provate, dagli stessi carcerieri sudasiatici. Giusto per ricoprirci, ancora una volta, di imbarazzo al cospetto del mondo.

Siamo il Paese della commedia dove tutto si sta concludendo in tragedia.

Dopo il caso dei Marò, “rilasciati” dagli indiani con uno stratagemma che fa ricadere su di noi l’onta di non stare ai patti, possiamo mettere la parola fine sulla nostra credibilità internazionale.

L’episodio è stato gestito malissimo da personaggi la cui impreparazione politica è pari all’ingiustificata vanità accademica e diplomatica. Sia chiaro che non è la vicenda in sé a decretare la nostra inconsistenza sullo scacchiere planetario, semmai questo è l’ennesimo schiaffo mondiale che ci riporta con i piedi per terra, a guardare in faccia la triste realtà, conseguente a scelte strategiche di corto respiro e di nessuna autonomia geopolitica. E come chiunque non conti nulla ci pregiamo di essere compartecipi di una civiltà migliore che può fare benissimo a meno di noi.

I professoroni di fuga e di governo hanno messo la ciliegina sugli intortamenti ai nostri danni da parte di Potenze emergenti che dal terzo mondo stanno passando velocemente nel primo, iniziando a distanziarci di molte lunghezze.

Questo perché, molto semplicemente, Roma non ha più una politica estera, delibera accodandosi ai suoi partner atlantici (sarebbe meglio dire che essa ratifica accordi presi da altri senza consultarla), si lancia alla cieca in conflitti dai quali non trae nessun profitto e non è in grado di proteggere ed assicurare il business all’estero delle sue multinazionali, per cui chiunque, e per qualsiasi motivo, si permette di disdire i contratti con noi sbeffeggiandoci impunemente.

Si dice che New Delhi abbia chiuso un occhio e ci abbia fornito questo fasullo salvacondotto – per ben due volte, infatti, ci hanno rispedito i marò a casa con licenze simili a licenziosità derivanti da arbìtri giuridici – in cambio di chiarezza sulla faccenda delle tangenti pagate da Finmeccanica sul loro territorio, pretendendo ed ottenendo la defenestrazione del suo presidente Orsi (vittima anche di altri intrighi nostrani e stranieri). Prima incassano e poi ci scassano. Motivo per il quale la finta indignazione dei vertici indiani brucia ancora di più in faccia agli italiani, cornuti e mazziati.

Se è vero che il modo in cui si esprime e si fa sentire la potenza di uno Stato deriva dalla sua capacità di imprimere una direzione autonoma al suo destino, fornendosi di una specifica visione politica, economica, sociale, tanto dei processi storici in corso che del livello dei rapporti di forza complessivi, sui quali occorre avere incidenza, allora noi siamo muti e ciechi.

A ciò si aggiunga che soltanto quando vi è “tranquillità interna”, frutto dell’abilità egemonica di élite dirigenziali consapevoli delle scommesse epocali e del loro ruolo sul resto della società, che si affermano proprio per l’autorevolezza e l’indipendenza delle prospettive di cui sono depositarie, è possibile rintuzzare le crisi e le provocazioni esterne. Unicamente seguendo questa direzione si acquista importanza nei teatri globali e si conquista il rispetto delle grandi potenze. A noi manca l’una e l’altra poiché difettiamo di una vera classe politica con tali caratteristiche.