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Nell’ebbrezza dell’uomo di farsi Dio la nemesi d’una intelligenza senza amore

di Francesco Lamendola - 20/03/2013




 

È di Immanuel Kant la più celebre e pregnante definizione dell’Illuminismo: «Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. […] Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. È questo il motto dell’Illuminismo».

L’uomo, dunque, è stato un minore, forse un minorato, per secoli e millenni; probabilmente lo sono stati anche Platone, Aristotele, Agostino e Tommaso d’Aquino. Poi sono arrivati i “philosophes” e hanno reso l’umanità adulta, spronandola ad usare in modo libero e spregiudicato il proprio intelletto, senza la guida di altri, cosa che mai era stata fatta prima; ma, per fortuna, è giunto il tempo dei “lumi” della ragione e, con esso, l’inizio di una nuova èra, apportatrice di progresso, benessere e felicità per il maggior numero possibile di persone.

Ma che cos’è l’intelletto di cui parla Kant, di cui parlano gli illuministi? Che cos’è quest’intelletto che Platone, Aristotele e gli altri possedevano in misura così scarsa, mentre Voltaire, Diderot e gli enciclopedisti possiedono in misura così eminente? Certo non coincide con la ragione, dato che la filosofia greca e quella scolastica, per non parlare di quella rinascimentale, di sicuro non si possono definire carenti di razionalità; semmai, corrisponde a una ragione particolare, una ragione tutta strumentale e calcolante, una ragione fredda e tagliente come un meccanismo, come la lama della ghigliottina. Una ragione che non ha tempo né posto per lo stupore, per la gratitudine, per il senso del bello; che non deve sentirsi piccola davanti a nulla, che non deve ringraziare nessuno, che non esita a misurarsi con qualunque mistero, riducendolo all’ordine di un semplice problema: infatti i problemi, a differenza dei misteri, prima o poi si risolvono.

È una ragione senza amore: nelle cose non vede che strumenti di cui servirsi, nella natura non vede che un grande meccanismo di cui scoprire e dominare le leggi, e in se stessa non coltiva che una inesausta sete di potere, di conquista, di dominio, secondo il motto di Francis Bacon: «Knowledge is power», «sapere è potere». Non è, dunque, una ragione spassionata, che ama la conoscenza per la conoscenza, che sa contemplare con meraviglia e ammirazione lo spettacolo del mondo; è una ragione aggressiva, dominatrice, che si considera in guerra con tutto e con tutti e che non riconosce dei pari negli altri enti, ma dei potenziali avversari da piegare, da incatenare, da sfruttare: piante, animali, uomini: tutti devono inchinarsi alla sua superiorità, tutti la devono adorare.

L’intelligenza senza amore produce una scienza cattiva e una tecnologia demoniaca: gli oscuri mulini satanici di cui parlava William Blake, in piena rivoluzione industriale. Galilei, Cartesio e Newton sono i suoi cattivi maestri: intelligenze vivaci, ma superbe; anime fredde, presuntuose, arroganti, convinte che a loro e a loro soltanto è riservato il compito di decifrare il grande libro della natura, scritto appunto in caratteri matematici.

Noi siamo i figli e i nipoti di quella scienza e di quella tecnologia, di quella superbia luciferina. La scissione dell’atomo, i viaggi spaziali, la manipolazione genetica, la clonazione degli esseri viventi hanno a tal punto inorgoglito l’uomo moderno, da fargli smarrire anche l’ultima ombra di prudenza, l’ultimo bagliore di umiltà: nulla gli sembra impossibile alla sua ragione, nessun obiettivo troppo arduo, perfino quello di sconfiggere la morte.

L’uomo moderno, figlio della Rivoluzione scientifica e dell’Illuminismo, si crede diventato un dio: uno ad uno, è riuscito a realizzare dei disegni che solamente un dio pareva in grado di compiere. Non era forse una proprietà divina, quella di regnare nei cieli? E lui ha sfondato la barriera del suono, è andato sulla Luna, ha inviato satelliti verso Marte, Giove, Saturno, Urano ed oltre, nello spazio profondo. Non era una prerogativa divina quella di dare la vita? Ed egli la sa ormai manipolare in maniera stupefacente: può rendere madre una donna di sessant’anni; può creare specie altamente selezionate, modificandone il patrimonio genetico; può fare in modo che un individuo morto abbia dei figli, fecondando una cellula-uova, anche in un utero artificiale, mediante lo sperma dell’individuo estinto, appositamente conservato in congelatore; può fabbricare delle repliche identiche di creature viventi, che sono, al tempo stesso, figlie e sorelle di quelle da cui ha prelevato una cellula-uovo.

Che cosa non è capace di fare, davanti a quali ostacoli è costretto ad arrestarsi? Solo un dio poteva riportare in vita un uomo già afferrato dai tentacoli della morte; ma adesso la chirurgia, per esempio, è capace di impiantare un organo vitale, anche il più delicato, cuore compreso, nel corpo di un uomo condannato a morire, dopo averlo prelevato da un animale appositamente ucciso o da un altro essere umano, morto da così poco tempo che, forse, l’ultima scintilla di vita non lo aveva ancora del tutto abbandonato: ed ecco, la morte stessa deve arretrare, deve mollare la presa, e colui che stava già varcando i cancelli dell’Ade viene richiamato indietro, torna a vivere come se nulla fosse stato.

Forse era inevitabile che, davanti a tali successi, l’uomo moderno insuperbisse oltre ogni misura e giungesse alla conclusione che un dio, se mai è esistito, non può essere che lui; che lui solo ha la responsabilità della vita, della natura, del domani; che a lui e a nessun altri che a lui spettano le grandi decisioni relative al futuro, alla sopravvivenza o meno delle altre specie, al rimodellamento della superficie terrestre, alla costruzione del proprio destino.

Forse era inevitabile che l’uomo si sentisse solo in un universo disertato dagli dèi, e provasse la tentazione di riempire quel vuoto, collocandosi egli stesso nel suo proprio Olimpo, posto magari nella base spaziale di Cap Canaveral, oppure nelle basi nucleari sotterranee del New Mexico e del Nevada, oppure ancora nel grande impianto per l’accelerazione delle particelle presso il CERN di Ginevra. Dentro il suo camice bianco e davanti ai suoi supercalcolatori elettronici, egli si sente finalmente un dio: si sente finalmente uscito, come diceva Kant, dall’antico e prolungato stato di minorità, e proiettato verso le magnifiche sorti e progressive.

Forse era inevitabile; o, almeno, era inevitabile date le premesse: date, cioè, il tipo di ragione, il tipo di scienza e di tecnica che egli ha creato e messo a punto in Europa occidentale, a partire dal XVII secolo, per poi imporle al resto del mondo, nei quattro secoli successivi; forse, dicevamo, tutto ciò era inevitabile, ma certo ha creato in lui un delirio di onnipotenza, lo ha posto completamente fuori centro rispetto a se medesimo, e lo ha collocato in una posizione falsa, ambigua e pericolosa nei confronti della creazione.

Perché l’uomo non è Dio; e l’uomo che gioca a fare Dio, cessa di essere un uomo, per diventare una creatura dissociata e posseduta, alla lettera, da una forza più grande di lui, non benefica né benevola, anzi intimamente malvagia, che lo sospinge là dove egli nemmeno si rende conto di andare, che lo costringe a fare delle cose che egli crede di compiere liberamente, mentre è ormai diventato lo schiavo e lo zimbello di quella forza potente e malefica, alla quale non sa resistere perché non la riconosce e, forse, non sospetta nemmeno che esista.

Osservava, a questo proposito, lo scrittore e giornalista britannico Malcolm Muggeridge nel suo volume «Cristo riscoperto» (titolo originale: «Jesus Rediscovered», 1969; traduzione dall’inglese di Anna Ramacciotti, Milano, Rusconi Editore, 1971, pp. 133-43):

 

«… è Dio o siamo noi a dirigere la realtà che ci circonda e di cui facciamo parte?  Una percentuale considerevole e sempre crescente del pensiero moderno, anche “clericale”, che possiede in misura notevole potere e influenza negli affari terreni, ritiene che ora siamo NOI ad occuparcene. Mentre un tempo si pensava che lo scopo più alto dell’uomo fosse capire ciò che Dio si proponeva nei suoi riguardi, e si diceva che la più alta impresa  degli uomini era di realizzare questo proposito, ora siamo spinti a fare a meno completamente di Dio e ad assumerci noi stessi il controllo del mondo, dell’universo e del nostro stesso destino collettivo e individuale. Ci hanno detto che Dio, se è mai esistito, è morto; come concetto, non occorre più.  Noi ora conosciamo sufficientemente ciò che ci sta intorno  e le nostre condizioni; abbiamo un sufficiente controllo su di noi e sul mondo per succedere a Dio. Il nostro tirocinio è finito, l’umanità è diventata adulta  ed è giunto il momento di prendere legittimamente il comando di noi stessi e del nostro mondo. […]

Apparentemente la scienza ha raggiunto traguardi altissimi: siamo in grado di viaggiare alla velocità della luce, presto visiteremo la Luna ed esploreremo la Via Lattea.  Possiamo lanciare le nostre parole, persino i nostri sorrisi nell’aria e sfarli pervenire in un luogo distante diecimila chilometri; possiamo modificare il corso dei fiumi, fare coltivazioni nel deserto e soddisfare abbondantemente e senza sforzo ogni esigenza umana,  dalle patatine fritte ai grattacieli, dalla pappa reale ai giganteschi computer. Tutto ciò è accaduto in una sola generazione. Come può meravigliarci, allora, che coloro che sono gli artefici di un tale progresso tecnico non si considerino  semplici mortali, ma veri dèi?  Che assumano le funzioni di un dio, reclamando il diritto di decidere  di volta in volta se protrarre o interrompere la vita di un individuo, se permettergli di riprodursi oppure sterilizzarlo; operando sulla mente e la psiche con le droghe e le tecniche psichiatriche e modellandole in modo da conformarle ai nostri propositi; selezionando i geni, sostituendo organi ammalati e inutilizzabili con altri appena presi dalla carne viva; fantasticando, forse, che anche la mortalità alla fine sarà abolita, così come si può mantenere efficiente un vecchio cami0on, sostituendo continuamente le candele, la dinamo e il carburatore? Non è meraviglioso? E, naturalmente questo è solo il principio. Scrittori come Aldous Huxley e George Orwell hanno immaginato il tipo di utopia scientifica che sta per realizzarsi; ma ormai le loro fantasie da incubo sono disperatamente antiquate. Comincia a prendere forma una grande fattoria d’allevamento in vetro e cromo, con l’aria condizionata e luci al neon, nella quale gli eugenisti selezionano i migliori gruppi da fecondare e vigilano l’embrione in sviluppo per assicurarsi che tutte le possibilità di errore e distorsione siano eliminate. C’è ancora bisogno di Dio in questi casi? O bisogno di una legge morale? Quando l’uomo è capace di modellare e di controllare il suo ambiente e il suo essere, allora può anche convincersi di poter creare il suo paradiso in terra, e viverci per sempre.

Ma ne è capace? È proprio a questo punto che sorge il dubbio. Diamo un’occhiata veloce e spassionata al mondo che hanno realizzato questi uomini simili a dèi. È un mondi di violenza e distruzione che non ha uguale nella stria.  Non siamo nemmeno in grado di ricordare quante vite umane si sono perdute o sono state sradicate nei feroci conflitti del nostro tempo; quanti edifici, tesori d’arte e d’ingegno sono stati distrutti inutilmente; quali miserie e privazioni, e quali degradazioni hanno accompagnato questi sconvolgimenti. E che cosa dire della situazione attuale? È degna di uomini che si credono dèi, con una parte del mondo saziata e rimpinzata di cose necessarie e superflue (anche se vengono imposte come indispensabili dai persuasori occulti) e con il resto de mondo sempre più affamato, sempre più privo  delle cose di prima necessità? […] Immaginiamo qualche futuro storico che di qui a qualche migliaio d’anni analizzi le nostre follie, fantasie e credulità. Quali conclusioni trarrà, vedendoci imprigionati in fantasticherie di nostra creazione, in un sogno come quello di Calibano? […]

In futuro, quando si cercherà di capire il nostri secolo,  sembrerà tutto più buffo di quanto non sembri oggi, e immagino che il nostro storico sarà in qualche modo imbarazzato nel tentativo di comprendere ciò che ha provocato la nostra mostruosa fantasticheria. Essi non possono aver creduto davvero, dirà a se stesso,  che quell’idea del Progresso, che sbandieravano dappertutto, significasse qualcosa; che la felicità si trovasse sulle autostrade e il benessere in un crescente Reddito Nazionale Lordo; che le pillole antifecondative, il divorzio ottenuto facilmente, e l’aborto portassero alla felicità familiare, e il sesso e i tranquillanti a notti tranquille. Ci deve essere, concluderà, qualche altra spiegazione; quella civiltà deve essere stata posseduta da un tale desiderio di morte, da cercare con assiduità e ingegno la propria estinzione: fisicamente, impiegando gran parte della ricchezza, della conoscenza e dell’abilità che aveva, per creare i mezzi utili a distruggere  se stessa e tutta l’umanità;  economicamente, sviluppando una economia di consumo, grazie alla quale si creavano artificialmente e si stimolavano artificialmente bisogni sempre più numerosi per sostenere una produzione in espansione senza sosta; moralmente, abolendo completamente l’ordine morale e cercando il fuoco fatuo della felicità per mezzo della sazietà; spiritualmente, negando Dio stesso e facendo l’uomo stesso arbitro del proprio destino. A questo punto il nostro storico si farà una sonora risata, osservando che gli uomini della nostra generazione  hanno dato una pessima prova come dèi,  rivelandosi incapaci più di ogni altra generazione di affrontare  le complessità e i dilemmi del loro tempo. Ma allora non è possibile liberarci da questo mostruoso mondo di fantasticherie che abbiamo creato? Non possiamo opporci ai mezzi d’informazione che continuamente ci ripetono che il denaro, il sesso e il successo sono le sole cose da ricercare nella vita e che la violenza è il condimento  di ogni esistenza? Nel “Dottor Živago di Pasternak il protagonista osserva a un certo punto che in una società comunista la libertà esiste solo nei campi di concentramento; in altre parole, che il solo modo di essere liberi è di essere in origine. Lo stesso concetto di trova nel cristianesimo, quando spiega che il solo modo di vivere è morire. Esiste perciò una via di salvezza,  ma si trova nella direzione esattamente opposta ai pregiudizi della società dei bisogni artificiali: essa consiste nel liberarsi dal condizionamento del proprio io e delle passioni e nell’essere attenti alle verità permanenti. […] La Via comincia là dove la vita mortale finisce,  così come avvenne per Cristo stesso; sula croce. Là, da soli, abbandonate tutte le nostre difese e le nostre pretese terrene, possiamo finalmente valutare le reali condizioni del nostro essere.; là, da soli, afferiamo la volgarità di queste nostre imprese in apparenza tanto maestose, come andare sulla Luna, selezionare i nostri geni, trapiantare cuori, fegato e reni. A questo punto, contemplando Dio sotto l’aspetto umano, possiamo comprendere quanto sia folle e inetto l’uomo quando si illude di essere Dio.»

 

I nostri predecessori, i nostri avi, i nostri nonni lo sapevano, con saggezza istintiva, anche se non avevano frequentato le moderne università, dove si forgia l’uomo-dio e dove gli si inculcano i falsi principî della sua onnipotenza: sapevano che il giunco resiste alla forza delle onde perché vi si piega e la asseconda, mentre la quercia viene scalzata e rovesciata, perché pretende di opporvisi; sapevano che nulla può fare l’uomo contro la natura, ma solo in sintonia con essa; e che il massimo della debolezza è il voler vincere sempre, il voler trionfare su tutto, sottomettere ogni cosa, imporre ovunque la propria supremazia: credersi, appunto, un dio.

I nostri nonni sapevano che l’uomo, così accecato dall’orgoglio, va incontro a una durissima punizione; e sapevano che solo quando egli si riconosce piccolo e fragile, solo quanto si riconosce misero e peccatore, solo allora egli diventa degno di ricevere il mistero della Grazia: la forza benefica e soprannaturale che si contrappone a quell’altra forza, di natura demoniaca, che lo trascina verso il basso e lo conduce sulla via dell’autodistruzione, dopo averlo reso folle di orgoglio e di superbia.

Dobbiamo recuperare, finché siamo in tempo, quella saggezza; dobbiamo riscoprire quel senso del limite, senza il quale la vita umana diventa un delirio, una funesta allucinazione; dobbiamo inginocchiarci nella consapevolezza della nostra impotenza e chiedere, con profonda umiltà, di imparare a rimetterci all’Amore che ci ha generati, e senza il quale nulla esisterebbe.

L’uomo che si crede un dio non è solamente infelice, è anche votato alla morte, proprio perché crede di poter trionfare di ogni cosa, anche della morte stessa; invece solo accettando la morte, l’uomo diventa veramente umano; e solo passando attraverso la porta stretta della morte, con animo umile e rasserenato, diventa degno di accedere al regno della Vita.