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Il caso dei due marò evidenzia la disfatta di una intera classe politica e militare

di Francesco Lamendola - 02/04/2013


 


 

Il caso dei due marò è la Caporetto dei nostri giorni, la disfatta di una intera classe politica e militare: mai si era vista una simile perdita di prestigio, una simile umiliazione nazionale, dai giorni foschi dell’8 settembre 1943.

Il signor Bersani si dice soddisfatto della decisione del governo di rispedire in India i due militari: contento lui, contenta tutta la sinistra. Questa è la loro cultura: condizionata da un antimilitarismo preconcetto e popolata da chissà mai quali sensi di colpa per le passate ignominie commesse dal nostro esercito a danno dei popoli coloniali. Solo che l’India di oggi, o il Brasile che ci assesta un’altra sberla rifiutando l’estradizione di Cesare Battisti, non è un Paese coloniale, ma una potenza emergente che reclama un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu e che ragiona e si comporta da superpotenza. Una sinistra che non ha mai fatto autocritica per i miti funesti della rivoluzione marxista, della lotta di classe e dell’invidia sociale eretta a sistema; e i cui cattivi maestri, dopo aver sobillato per decenni l’odio di classe, hanno indossato come niente fosse i vestiti buoni della domenica e si sono candidati a classe di governo borghese.

Gli uomini di Berlusconi si dicono turbati e rattristati, ma potrebbero risparmiarsi la commedia: durante il governo del loro capo, si sono create tutte le premesse per la situazione attuale; è stato allora che le azioni della nostra diplomazia internazionale, mai troppo brillanti, hanno cominciato a precipitare in caduta libera. Per merito di un leader da barzelletta, più interessato alle sue faccende private che al prestigio e all’onore dello Stato, e con un codazzo di adulatori a pagamento che lo applaudivano qualsiasi cosa dicesse o facesse, anche la più inconsulta, come i parassiti alla tavola di un Trimalcione dei nostri giorni. Una destra miserabile e cialtrona, che nessuna destra al mondo ha mai preso sul serio: come aveva puntualmente profetizzato un grande giornalista di destra, onesto e intelligente, quale Indro Montanelli.

Che cosa sarebbe accaduto se i due marò avessero indossato la divisa dell’esercito americano, o di quello britannico, o di quello tedesco? Si può stare ben certi che le cose avrebbero preso una piega totalmente diversa, e fin dall’inizio.

Si dirà che non è stata colpa del governo Monti se il peso internazionale dell’Italia non è lo stesso di quei Paesi. Vero. Ma è altrettanto vero che il governo Monti ha gestito l’intera vicenda come peggio non si sarebbe potuto e che ha collezionato una tale serie di errori madornali, da riuscire nel pur difficile compito di rendere quel peso ancor più leggero, quasi evanescente. Non che ci sia un mistero, in questo: è stato solo l’ennesimo pasticcio combinato dal governo dei “professori”, tanto arroganti quanto incompetenti, chiamati alla guida della nazione per salvarla nel momento più drammatico, e dimostratisi penosamente incapaci sul loro stesso terreno. Benché disponessero, per molti mesi, di un sostegno parlamentare quale mai si sera visto negli ultimi vent’anni, sono stati capaci di sprecare tutte le buone occasioni per rimettere l’Italia in pista, perseguendo pervicacemente politiche sbagliate e suicide. Invece di tagliare la spessa pubblica, il professor Monti e i suoi “esperti”, fin dal primo giorno, non hanno saputo far di meglio che inventare nuove tasse, distruggendo i ceti medi e mandando il Paese in recessione. Per fare una politica economica così, non c’era bisogno di scomodare i migliori cervelli della “Bocconi”, bastava chiamare quattro scalcinati ragionieri di provincia. E per sbagliare i conti come ha fatto il ministro Fornero sul capitolo esodati, non c’era bisogno di ricorrere ai servigi di simili geni, bastava chiamare qualche studente somaro, di quelli bocciati e rimandati in continuazione. Eppure quei signori si sono insigniti da se stessi delle onorificenze di salvatori della Patria: asinus asinum fricat, gli asini si strusciano l’uno con l’altro, perché si riconoscono a prima vista.

Ora, l’India ha commesso una serie di violazioni del diritto internazionale, sia nella sostanza che nella forma, da giustificare l’ipotesi che abbia voluto sfruttare la morte di quei due pescatori per montare un caso dalle proporzioni gigantesche, a uso interno ed estero, per delle ragioni tutte sue, che hanno a che fare sia con la politica mondiale, sia con le beghe fra il governo centrale di New Delhi e gli Stati dell’Unione, primo fra tutti l’irrequieto Kerala, uno degli ultimi bastioni sul pianeta Terra in cui sventola ancora la bandiera del marxismo, con le sue velenose e deliranti dottrine.

Ha arrestato i due marò con il tradimento e con l’inganno, attirandoli in una trappola: la Guardia costiera ha domandato alla “Enrica Lexie” di entrare nel porto di Kochi per collaborare alla individuazione dei pirati e poi li ha arrestati come due malfattori, benché fossero a bordo di una nave italiana, vestissero l’uniforme dell’esercito italiano e avessero agito nel pieno esercizio delle loro funzioni. Che i nostri soldati abbiano ucciso, per errore, due pescatori indiani, è tutto da dimostrare; ma, se anche così fosse stato, l’incidente avrebbe avuto luogo in acque internazionali e ciò significa che la giurisdizione sul caso spettava automaticamente alle autorità italiane. E che l’incidente si sia svolto in acque internazionali, lo ha riconosciuto perfino la Corte Suprema dell’India, avocando a sé il processo, e dando torto, su questo punto fondamentale, alla Corte del Kerala. Salvo sentenziare, contraddittoriamente, che i due marò li avrebbe processati lei.

Intanto sono passati i giorni, le settimane, i mesi. Davanti a un caso di tale gravità, per le sue implicazioni giuridiche e politiche internazionali, ci si sarebbe potuti aspettare, almeno, la massima celerità: invece, un rinvio dopo l‘altro, il processo si è trascinati per più di un anno: per più di un anno l’Italia ha sopportato l’obbrobrio di vedere due suoi militari tenuti sotto sorveglianza e dati in pasto, ogni giorno, all’odio dell’opinione pubblica indiana.

I passi compiuti da ministro Giulio Terzi e dal sottosegretario Steffen de Misura sono stati timidi, esitanti, del tutto inadeguati. È stato chiesto un arbitrato internazionale: richiesta respinta dall’India. Sono stati sborsati un bel po’ di quattrini alle famiglie dei due pescatori, a titolo umanitario e non di riparazione per un delitto mai provato: nessun risultato; anzi, continue interviste e riprese televisive che mostrano la disperazione e la sete di vendetta di quei parenti. Passi all’ONU, nessuno; passi nei confronti dell’Unione Europea, nessuno. Del resto, sia l’ONU che l’Unione Europea si sono affrettati a chiamarsi fuori, lasciandoci soli come cani. Eppure, per decenni, l’Italia è stata uno dei maggiori contribuenti delle Nazioni Unite: molto più dell’India e più degli stessi Stati Uniti; per non parlare delle costose e sanguinose missioni militari all’estero compiute sotto la bandiera dell’ONU. ai quattro angoli del mondo. C’è da chiedersi a cosa sia servito aver speso tutto quel denaro e aver sacrificato la vita di decine di nostri militari, per giungere a un bilancio così fallimentare. Il deficit di diplomazia è stato totale, inescusabile. Ma anche questo è logico: per trarre qualche vantaggio da un così intenso impegno internazionale, bisogna avere una politica estera: bisogna aver chiaro, cioè, quale sia l’interesse dell’Italia nel complesso delle relazioni mondiali. E i governi italiani della Repubblica democratica e antifascista non hanno mai avuto chiaro tale interesse, non hanno mai saputo nemmeno cosa sia la politica estera.

È vero che ha giocato contro di noi anche, e soprattutto, un fattore culturale. Noi siamo un popolo, ma non siamo una nazione. Il sentimento nazionale, il sentimento del bene comune, il sentimento dello Stato, sono l’ultimo dei pensieri dell’italiano medio. L’italiano medio è molto più interessato alle lotte di fazione, agli odi campanilistici, e, naturalmente, a farsi i suoi affari privati, leciti o illeciti, che a prendersi a cuore il bene comune.

La classe dirigente rispecchia questa mancanza di amor patrio, di gelosa difesa dell’onore nazionale: una classe dirigente che non dirige nulla, che occupa semplicemente le poltrone per spremerne il massimo del vantaggio personale. Con poche, luminose eccezioni, tale è stato il quadro della nostra classe dirigente nell’ultimo mezzo secolo; e gli altri lo sanno, lo vedono, lo annusano. Solo così si spiega il disprezzo con cui gli altri governi si relazionano con l’Italia: dalle intromissioni della Merkel in piena campagna elettorale italiana, alle minacce della Turchia al tempo dell’affare Ocalan (qualcuno se lo ricorda ancora?), ai continui dispetti e sgambetti che la “cugina” Francia ci rifila, ad ogni occasione possibile e immaginabile. Per non parlare del rapimento di un imam in pieno centro a Milano, da parte di agenti segreti americani, come se il nostro Paese contasse meno di una colonia dell’Impero a stelle e strisce; e mettiamoci dentro anche la vergognosa assoluzione della cittadina statunitense Amanda Knox, condannata per omicidio in primo grado, alla cui “ingiusta” detenzione aveva così calorosamente protestato la signora Hillary Clinton, numero uno della diplomazia statunitense. Del caso Cermis, quando due baldi aviatori americani della base di Aviano tranciarono, per gioco, il cavo di una funivia e causarono la morte di venti persone, chissà che qualcuno abbia memoria: era capo del governo Massimo d’Alema e si trovava in visita negli Stati Uniti. Non fece una piega quando i nostri “alleati” avocarono a sé l’inchiesta e sottoposero i colpevoli a un processo-farsa, in cui l’Italia non ebbe nulla da dire.

L’India, dunque, sta portando avanti, e sta gonfiando oltre misura, il caso dei nostri due marò, per ragioni tutte sue, che niente hanno a che fare con la giustizia e con il diritto internazionale. E lo ha fatto capire fin da subito, rifiutando l’istituzione di una commissione d’inchiesta congiunta italo-indiana e rifiutando categoricamente, poi, ogni proposta di arbitrato internazionale. Perché sa benissimo di aver torto, e torto marcio. Ciò non toglie che l’annuncio del ministro Terzi che i due marò non sarebbero rientrati in India ci ha messo in una posizione falsa e sgradevole, facendoci passare, agli occhi del mondo, dal lato del torto; peggio ancora, pochi giorni dopo, la decisione di fare dietro-front e di rimandare a Kochi i due sfortunati militari, e sia pure dietro garanzia scritta che non sarebbero stati condannati a morte. Grazie tante! C’è proprio da considerarsi soddisfatti. A questo punto, se anche - per ipotesi – i due marò venissero assolti, lo sputtanamento dell’Italia è già stato raggiunto, e in maniera irreparabile. Tutto il mondo ha visto come la nostra nazione si lascia trattare, perfino quando ha ragione; figuriamoci se avesse torto.

In un Paese serio, qualcuno dovrebbe rendere conto della propria incapacità, del proprio dilettantismo, della propria insipienza. A che cosa serve pagare un governo, pagare fior fiore di ambasciatori, pagare agenti segreti che ci tengano aggiornati sullo stato delle cose negli altri Paesi, se ogni volta che capita il minimo imprevisto veniamo sorpresi come la Bella addormentata? È già accaduto cento volte. In Libia, per esempio, dove erano in gioco interessi vitali del nostro Paese, e dove la Francia ci ha fatto l’ennesimo sgambetto, mentre noi, anime candide, non sapevamo nulla, non avevamo capito che Gheddafi aveva le ore contate. Noi che siamo al centro del Mediterraneo, e che dovremmo essere meglio informati di chiunque altro su quel che vi succede. Noi che stiamo recitando la parte dei perfetti estranei rispetto a quel che è accaduto e sta accadendo in Egitto, in Siria, perfino in Tunisia.

I due marò stanno portando la loro croce con estrema dignità, da oltre un anno: c’è da chiedersi se l’Italia se li merita, degli uomini così. No, l’Italia di Bersani, Berlusconi e Monti non se li merita; così come non si merita i milioni di cittadini, lavoratori e pensionati che in silenzio, ogni giorno, tra mille sacrifici, compiono il loro dovere e anche più del loro dovere: osservano le leggi dello Stato, pagano le tasse, svolgono il loro mestiere o la loro professione con passione e competenza, assistono i figli disoccupati o i genitori invalidi, fanno i salti mortali per far quadrare il bilancio familiare, continuano a credere nel domani e, nonostante tutto, impediscono che il tracollo dell’economia, della politica, della morale pubblica, spazzi via quel che rimane dei nostri risparmi, del nostro lavoro, dei nostri sogni.

Sono le maestre  che potano a suola la carta igienica perché le scuole pubbliche non la forniscono; sono gli infermieri che fanno i turni straordinari per offrire un minimo di assistenza nei disastrati ospedali pubblici; sono i volontari che corrono a spegnere gli incendi o che si prodigano al fianco dei disabili, per puro spirito di generosità.

Per questi Italiani, vale ancora la pena di credere, sperare e lottare. Non per l’Italia ufficiale, quella di Bersani, Berlusconi e Monti, che ogni giorno ci sprofonda nel ridicolo e ci seppellisce sotto una montagna di debiti, senza saper far valere le nostre ragioni sui tavoli della politica internazionale, magari battendo i pugni, qualche volta.

Certo, è dura da spiegare ai nostri figli. È dura spiegar loro che bisogna ancora aver fede in un Paese così, cercarsi un lavoro senza andare all’estero; restare e lottare per cambiar le cose in meglio.