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«Per quattrocento bruti, morti brutalmente»: Dogali e la polemica su D’Annunzio

di Francesco Lamendola - 03/04/2013




 

Andrea Sperelli, il protagonista del romanzo di Gabriele D’Annunzio «Il Piacere», nonché alter ego dell’autore, a un certo punto, nel terzo capitolo del libro terzo, si imbatte nelle manifestazioni e negli incidenti verificatisi a Roma il 2 febbraio 1887, dopo che era giunta in Italia la notizia del sanguinoso disastro di Dogali:

 

«… Uscendo nel Corso, la carrozza fu costretta a procedere con lentezza perché tutta la via era ingombra di gente in tumulto. Dalla piazza di Montecitorio, dalla piazza Colonna venivano clamori e si propagavano come uno strepito di flutti, aumentavano, cadevano, risorgevano, misti agli squilli delle trombe militari. La sedizione ingrossava, nella sera cinerea e fredda; l’orrore della strage lontana faceva urlare la plebe; uomini in corsa, agitando gran fasci di fogli, fendevano la calca; emergeva distinto su i clamori il nome d’Africa.

- Per quattrocento bruti, morti brutalmente! – mormorò Andrea, ritirandosi dopo aver osservato allo sportello.

- Ma che dite? – esclamò la Ferentino.

Su l’angolo del palazzo Chigi il tumulto sembrava una zuffa. La carrozza fu costretta a fermarsi…»

 

Dogali è una località dell’Eritrea, a venti chilometri da Massaua, dove il 26 gennaio 1887 una colonna di 550 soldati italiani, al comando del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis, era stata attaccata da 7.000 guerrieri abissini condotti dal ras Alula, mentre era in marcia per soccorrere il forte assediato di Saati, venendo distrutta pressoché totalmente: i caduti furono 430 e l’eco in patria fu enorme.

D’Annunzio, che pure qualche giorno dopo i fatti aveva pubblicato un’ode in memoria dei caduti (che fu peraltro fonte di polemiche, perché accusata di plagio), nel suo romanzo, pubblicato nel 1889, dunque appena due anni dopo il fatto, fa pronunciare ad Andrea Sperelli, l’esteta raffinato e voluttuoso, l’implacabile conquistatore di donne, una frase sprezzante e oltraggiosa nei confronti di quegli sfortunati soldati caduti in terra d’Africa, vittime – come lo saranno, nel 1986, i ben 7.000 morti di Adua – di una politica coloniale incerta e pasticciona e di una strategia militare alquanto carente e improvvisata.

Lo steso D’Annunzio accoglierà entusiasticamente, anni dopo, la nuova impresa africana del governo Giolitti, pubblicando, nel 1912, il quarto libro delle «Laudi», ossia «Merope», dedicato appunto alla guerra di Libia (in cui raccoglieva una serie di poesie già apparse, fin dall’anno precedente, su «Il Corriere della Sera»): nessun dubbio, quindi, sulla sua adesione agli ideali nazionalisti, imperlasti e colonialisti, per i quali, a differenza di Pascoli - il Pascoli de «La grande proletaria si è mossa» - non cercava giustificazioni umanitarie e sociali, ma sventolava francamente e risolutamente la bandiera della politica di potenza.

Come spiegare, allora, quella frase di Andrea Sperelli, che tanto clamore suscitò all’epoca, cosa che – del resto – egli aveva previsto, e per cui l’editore lo aveva inutilmente messo in guardia, prima della pubblicazione de «Il Piacere»? La prima e più semplice spiegazione, nonché la più ovvia, è che Andrea Sperelli, alla fine, non è, in tutto e per tutto, il riflesso di D’Annunzio: l’io narrante prende spesso le distanze da lui e pronuncia nei suoi confronti giudizi severi, per mezzo dei quali l’autore prende si pone in maniera alquanto critica verso la sua creatura.

Ma è una spiegazione che non soddisfa del tutto: resta il fatto che Andrea Sperelli, pur coi suoi limiti e i suoi difetti, anche con la sua “inettitudine” di fondo, che ne fa un perdente piuttosto che un superuomo (il primo dei grandi “inetti di Italo Svevo, Alfonso Nitti di «Una vita», si presenta al pubblico italiano, passando peraltro quasi del tutto inosservato, già nel 1892), non può aver pronunciato quella frase del tutto a caso

Più la si rilegge, e la si confronta con il contesto nel quale è pronunciata, più ci si rende conto della sua totale gratuità, che nulla toglie e nulla aggiunge alla vicenda: non resta altro da concludere, allora, che D’Annunzio abbia voluto con ciò ulteriormente caratterizzare l’animo del conte Sperelli, evidenziandone il cinismo e la “mostruosità” morale. Questi, infatti, non possiede affatto una natura insensibile, tutto al contrario, è quasi patologicamente ipersensibile, di una sensibilità addirittura femminea (il che spiega il suo travolgente successo con le donne: le seduce irresistibilmente perché ne conosce alla perfezione la psicologia e il temperamento). Pertanto, se gli sfugge istintivamente un tale commento sulla strage di Dogali, ciò non dipende da mancanza di sensibilità, ma da mancanza di senso morale: come, del resto, ci si può aspettare da un personaggio che gioca la sua vita in duello – e per poco non la perde - senza alcun intimo travaglio e non per un senso del dovere, sia pure malinteso, ma così, solo per rispettare, si direbbe, le regole di un gioco di società, in questo caso particolarmente crudeli.

Ma sentiamo il parere di un illustre critico letterario, Giansiro Ferrata (nella introduzione a G. D’Annunzio, «Il piacere», Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1951, 1988, pp. 33-35):

 

«Una grossa polemica fu suscitata attorno al “Piacere” dalla frase pronunciata da Andrea Sperelli, sui tumulti avvenuti a Roma il 2 febbraio 1887 dopo la strage di Dogali: “Per quattrocento bruti, morti brutalmente!”. Mettendo insieme personaggio ed autore come a molti riusciva spontaneo, qualcuno attribuì a D’Annunzio quantomeno il compiacimento per quella frase, e la polemica rimbalzò fino a un notissimo cenno di Croce nella sua “Storia d’Italia dal 1871 al 1915” (pubblicata nel ’28).

“Con [D’Annunzio] risonò nella letteratura italiana una nota, fin allora estranea, sensualistica, ferina, decadente, chiarissima anche in quelli dei suoi primi versi e delle sue prime novelle che imitavano le forme del Carducci e dei veristi. Si preannunziava nelle fantasie l’eroe voluttuario Andrea Sperelli, che doveva schiudere il fondo della sua anima, definendo i soldati italiani caduti a Dògali, quel primo sangue italiano versato in guerra dopo anni di pace e pel quale tutta l’Italia patriottica dolorava e chiamava vendetta [sic]: “quattrocento bruti, morti brutalmente”.

L’editore Emilio Treves si era preoccupato in anticipo della questione, aveva insistito perché la frase venisse almeno modificata. D’Annunzio gli scrisse quando il libro stava per uscire, il 5 maggio ’89: “Caro Signore, - Avete ragione. Ogni consiglio è inutile! Quella frase è detta da Andrea Sperelli, non da Gabriele D’Annunzio, e sta bene in bocca di quella specie di “mostro”. Voi avete capito che studiando quello Sperelli,  io ho voluto studiare, nell’ordine morale, un “mostro”. Perché mai i critici dovrebbero insanire?  Io, Gabriele D’Annunzio, per i morti di Dogali ho scritto una ode molto commossa, pubblicata a suo tempo. Quella frase è molto significativa, per il carattere dell’uomo. Quindi permettetemi di lasciarla”.

Ma anche l’ode uscita nel  febbraio ’87 – sul “Capitan Fracassa” -  provocò rimproveri a catena.  Quasi subito fu rilevato che una parte di quel componimento   fra affettuoso e accademico, “Per gli Italiani morti in Africa”, c’erano echi precisi di una poesia del Tommaseo: “Gli Italiani morti in Ispagna”, 1837. Ne approfittò Enrico Thovez vari anni dopo per chiamare l’ode su Dogali addirittura  “una copia” di quella del Tommaseo – le presentava entrambe  ridotte a una quindicina diversi -, della “poesiola”  del T. scrisse poi Croce  discutendo con Thovez l’ampia questione dei plagi dannunziani. Solo in coda a un lunghissimo dibattito nella “Tribuna” ecc. del 1912 (in cui “Febea” cioè Olga Ossani intervenne rivendicando con emozione l’aver essa medesima stimolato D’Annunzio a comporre quella poesia), Roberto Forcella, già intrepido e zelante postillatore, ridimensionò la faccenda. La “poesiola” di Tommaseo occupa 63 versi, quella di D’Annunzio 105, e il rapporto fra i due componimenti sta oltre che nei titoli  in una scopertissima imitazione limitata  a quindici versi, cinque strofe su trentacinque in D’Annunzio; più che di un plagio si tratta qui evidentemente di un richiamo  letterario-culturale sottolineato dal titolo, ma pur stonato in un’occasione come questa.  L’ode “molto commossa” aveva poco di spontaneo.

È in tutt’altra sede che il distacco fra autore e protagonista del romanzo si dimostra intimo,  quanto agli atteggiamenti “mostruosi”  dello Sperelli verso la realtà  e idealità evocate dalla tragedia di Dogali.  La sede che dico è “L’Armata d’Italia”, opuscolo di una settantina  di pagine che uscì nel 1888 riunendo articoli pubblicati fra maggio e luglio da D’Annunzio sulla “Tribuna”; miglior titolo poteva essere “I marinai italiani”, dato che sono essi il tema più caratteristico di un’analisi molto seria, intelligente e vigorosa sui problemi della marina in Italia a quel tempo. […] Lo si è quasi sempre trascurato e ingiustamente. Queste annotazioni critico-polemiche  intorno alle contingenze tecniche dirigenziali e d’equipaggio (“più che di ‘marinai militari’ noi abbiamo bisogno di buoni ‘operai militari’…”, termine usato qui in merito  a una “cultura” specifica degli equipaggi moderni), nella marina italiana anni ’80, prefigurano tutto il meglio del D’Annunzio attivo con la propria  persona fisica e umana nel ’15-18 e subito dopo, l’uomo al quale molti compagni  di guerra furono amici per istinto più che “devoti”. La retorica delle “Odi navali” qui è anticipata poco o nulla. La belluinità stessa riesce ora marginale, una specie di voice del sangue tenuta in brevissime parole. Quel che si estende per quasi tutto l’opuscolo è il rapporto logico-pratico con un ordine di fatti più o meno ben interpretati, a livello delle situazioni marinare nei vari paesi europei, - ed è in modo principale in rapporto con la gente che vive sulle navi da guerra. Ma torniamo alla relazione più diretta con “Il Piacere”. Nell’epilogo – così chiamato – di questo pressoché eluso scritto dannunziano, l’autore viene a giustificare il proprio lavoro con una dichiarazione interessante per noi:

“… Io non sono e non voglio essere un poeta mero. Al perfetto rimatore Théodore de Banville piacque confessare, nel ritornello d’una delle trentasei ballate mirabili: “Je ne m’entends que’a la métrique!”. A me, invece, codesta perpetua professione di prosodismo non va. Tutte le manifestazioni della vita e tutte le manifestazioni dell’intelligenza mi attraggono ugualmente”.

Da questo punto di vista si può davvero riconoscere un’antitesi D’Annunzio-Sperelli recisa e conclusiva.»

 

Benedetto Croce, dunque, a D’Annunzio quella frase non l’ha perdonata: paziente e vendicativo, ha atteso quasi quarant’anni per sferrare l’affondo, nascondendolo dietro la maschera della critica letteraria; ma adopera un pugnale avvelenato, perché deliberatamente suggerisce che Gabriele D’Annunzio e Andrea Sperelli siano le due facce di una stessa medaglia. E, per rendere ancora più velenosa l’insinuazione, parla di una nota «sensualistica, ferina, decadente», dicendola fino ad allora «estranea» alla letteratura italiana.

Ma che cosa vuol dire “estranea”? Sarebbe più giusto dire, semplicemente, “nuova”: come nuova, ad esempio, è la nota poetica risuonante nel 1891 con le «Myricae» del Pascoli; che senso avrebbe avuto definirla “estranea”? Croce suggerisce che D’Annunzio è un alieno nel panorama letterario italiano; e che è un alieno perché vi ha portato quella tale nota sensualistica, ferina e decadente: ma ciò dipende dai pregiudizi del filosofo napoletano, non dalla realtà dei fatti. È dovuto alla sua personale incomprensione del fenomeno del Decadentismo, che evidentemente gli ripugna e non capisce, né si sforza di capire; così come, fin dopo il 1945, con Mussolini ormai morto e sepolto, continuerà a non capire  e a non voler capire il fenomeno del fascismo, che pure al principio aveva guardato con favore, consigliando gli Italiani a fidarsi di Mussolini ancora nei mesi successivi al delitto Matteotti. Per Croce il fascismo è stato una “malattia” della società italiana; e allo stesso modo egli guarda a quelle tendenze artistiche e letterarie che ripugnano al suo razionalismo di stampo hegeliano: ciò che non capisce, ciò che non si prende il disturbo di comprendere, lo muove a sdegno, ed egli lo pone fra parentesi, come una malattia destinata a passare. Non gli viene in mente che un corpo sano non si ammala tanto facilmente.

Evidenziare la tendenziosità e la disonestà intellettuale delle critiche di Croce a D’Annunzio non significa, ovviamente, che si debba accettare per buono tutto quel che D’Annunzio ha scritto e tutto quel che ha portato nella scena della letteratura italiana. Vi è molta zavorra, insieme alle cose buone; vi sono molte pietre false, in mezzo a degli autentici diamanti. Questo, però, se si vuole essere giusti, non vale solo per D’Annunzio: vale anche per Pascoli, che pure è poeta più grande e più vero di D’Annunzio, ma che, nondimeno, si è fatto prendere assai la mano, specie nelle ultime raccolte, dalla retorica e dalla smania declamatoria; ed é vero anche, e a maggior ragione, per Carducci, così facilmente portato a scivolare nell’enfasi del poeta “vate”.

Ma il punto non è questo.

Il punto non è se D’Annunzio sia stato, o meno, un grande ed autentico poeta: su ciò, i pareri possono essere discordi; il punto è se sia legittimo attaccarlo su una presunta questione morale, facendo di lui il cinico rappresentante di un tipo umano che irride al sacrificio dei soldati caduti sul campo di Dogali. Il punto è se sia legittimo tirare in ballo i sentimenti patriottici e la commozione dell’Italia del 1887 per mettere D’Annunzio-Sperelli sul banco di un tribunale ideale, quale denigratore e sprezzatore di quei caduti.

Sembra che il modo in cui D’Annunzio ha voluto costruire la propria immagine pubblica, mescolando l’uomo e il poeta, gli abbia, in questo caso, nuociuto: perché l’uomo, dopotutto, era forse di altra stoffa, e assai migliore, di quella di tanti suoi personaggi di eroi decadenti, con i quali il pubblico e la critica finirono per identificarlo.

Non Croce, soltanto, come si è visto, ma anche altri critici letterari si gettarono avidamente su quella frase, «quattrocento bruti, morti brutalmente», per imbastire una specie di processo morale al romanzo e al suo autore: romanzo non eccelso e autore non irreprensibile; ma la loro polemica era strumentale e farisaica.

Strumentale e farisaica è anche la critica letteraria che si ostina a denunciare “l’incoerenza” di Pascoli, poeta umanitario, per aver celebrato la guerra di Libia; e così pure l’”incoerenza” di Carducci, poeta ribelle e democratico, per aver assunto posizioni conservatrici. Pascoli pensava quel che pensavano milioni di italiani: che la conquista di nuove colonie avrebbe dato sfogo alla nostra emigrazione e assorbito tanti poveri contadini disoccupati; e che essa non era affatto in contrasto con l’umanitarismo e la collaborazione fra le classi. Perfino alcuni leader marxisti, come Antonio Labriola, la pensavano esattamente in questo modo; anche se, poi, la cosa è stata nascosta e rimossa dagli storici, perché disturbava i comodi schemi mentali dei nostri intellettuali, eterne mosche cocchiere e maestri della saggezza del poi.

La storia è sempre più complessa e sfaccettata di come ce la vorrebbero presentare costoro.

È anche più complessa di come la vede Giansiro Ferrata, che pone un pudibondo “sic” di disapprovazione allorché riporta la frase di Croce sul desiderio di vendetta degli Italiani per la strage di Dogali. Sì, vendetta: e non fa nulla se l’Italia, invadendo l’Eritrea e spingendosi verso l’Abissinia, andava a molestare altri popoli in casa loro; il massacro di Dogali suscitò uno scalpore non inferiore a quello che aveva provocato, nel pubblico americano, il massacro di Custer a Little Big Horn. Mostrare se una guerra è legittima o illegittima, è affare della coscienza del singolo; ma che i popoli reagiscano emotivamente alla notizia del massacro dei propri soldati, è cosa talmente ovvia che non andrebbe nemmeno spiegata.

Questo, però, i nostri signori critici, tutti debitamente “progressisti” e quindi politicamente corretti, non arrivano a capirlo: si sentono in dovere di mettere le pezze per correggere gli errori del passato, per far vedere che loro hanno un più retto discernimento di quanto ne ebbero i contemporanei di quei fatti. Giudicano, invece di sforzarsi di comprendere. E, se la storia non piace loro, parlano di strane malattie che colpiscono la società e che fuorviano i loro concittadini, magari per qualche decennio.