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È il meccanicismo galileiano all’origine del conflitto con noi stessi e con la natura

di Francesco Lamendola - 08/04/2013




 

Qual è il punto a partire dal quale abbiamo imboccato il sentiero sbagliato, ponendoci in perenne conflitto con la natura e, quindi, anche con noi stessi?

Si sarebbe tentati di rispondere: con la rivoluzione industriale; oppure: con l’avvento dell’era atomica; o anche: con l’inizio della manipolazione genetica degli esseri viventi; ma sarebbero risposte affrettate e fuorvianti, originate dalla semplice constatazione degli effetti, non dalla individuazione delle cause.

Si comprende un fenomeno quando si è capaci di collocarlo nella giusta prospettiva, quando se ne comprende l’origine, non confondendola con la sua manifestazione: quando, cioè, se ne comprende l’intima necessità, la causa profonda. Per il rapporto conflittuale tra l’uomo e la natura, bisogna risalire molto più indietro, perlomeno alla Rivoluzione scientifica del XVII secolo e alla concezione della natura formulata da Galilei, Cartesio, Hobbes e Spinoza.

Per questi scienziati e pensatori, l’universo non è più un essere animato, ma una macchina, composta da parti simili a ingranaggi e regolata da leggi fisse e immutabili; gli elementi che lo compongono sono paragonabili alle rotelle di un orologio e il loro movimento è riconducibile a una legge fondamentale, quella del movimento dei corpi: il meccanicismo, così, sfocia nel materialismo, perché in natura non vi sono altro che corpi, corpi senz’anima (con la sola eccezione dell’uomo: eccezione che, poco alla volta, verrà lasciata cadere).

Tutto è corpo, materia in movimento: e Newton ne era così convinto che, dopo aver sostenuto un’aspra polemica con Robert Hooke circa la natura della luce - che egli voleva corpuscolare e non ondulatoria -, dopo la morte del “rivale”, sfruttò senza vergogna la sua posizione di presidente della Royal Society per seppellire in ogni modo anche il ricordo di quello, spingendosi fino al punto di far rimuovere il suo ritratto dai locali di quella prestigiosa istituzione. Se la luce è fatta di onde, infatti, allora c’è qualcosa, in natura, che non è corpo, o che non è solamente corpo: ipotesi inammissibile, perché suscettibile di reintrodurre nel quadro del reale dei “pericolosi” elementi extra-materiali, il che farebbe vacillare la pretesa dello scienziato di essere potenzialmente onnisciente: «Hypotheses non fingo», per dirla con Newton.

Vale la pena di citare la famosa frase per esteso, contenuta nell’edizione del 1713 dei «Principia mathematica»: «In verità non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità, e non invento ipotesi. Qualunque cosa, infatti, non deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche, sia fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche»: dove, come si vede, Newton non si contenta di stabilire un principio di esclusione logica nel campo della scienza in senso stretto, ma anche in quello della filosofia e della metafisica.

Gli farà eco David Hume, nel 1748, con questa celebre affermazione contenuta nella sua «Ricerca sull’intelletto umano»: «Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi, che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità e sui numeri? No: Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie e inganni». Come dire che solo la matematica e le scienze sperimentali  hanno diritto di cittadinanza nella cultura umana: tutto il resto è da eliminare. Al confronto, l’Indice dei libri proibiti di cattolica memoria è roba da principianti.

Ma torniamo a Galilei. La natura, per lui, è come un grande libro, il libro dell’universo, scritto da Dio in caratteri matematici e tale, perciò, da poter essere decifrato solo dallo scienziato; senza la matematica e la geometria, nessuna lettura di tale libro è possibile: lo sostiene, assai vigorosamente, nel «Saggiatore» (1623), in astiosa polemica contro l’astronomo gesuita Orazio Grassi (scritto, sia detto fra parentesi, prendendo lo spunto dalla questione delle comete: nella quale egli aveva completamente torto, mentre il suo avversario era vicino al vero). «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intender se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto».

Galileo, dunque, sostiene un radicale meccanicismo, improvvisandosi anche filosofo: a partire da lui, la “filosofia della natura” cessa di essere un ramo della filosofia, quello che si occupa dei fenomeni naturali, e non solo diventa una scienza del tutto autonoma, ma tende a soppiantare la filosofia stessa, a sostituirsi ad essa, beninteso dopo aver separato la propria strada dalla teologia e dopo essersi sbarazzata dell’”inutile fardello” rappresentato dalla metafisica (quest’ultimo passo verrà compiuto da Hume e da Kant) e, alla fine, di tutto quanto non sia pura e semplice analisi del linguaggio (con Wittgenstein), per cui tutto quel che si può dire sul mondo sono delle proposizioni che abbiano un senso logico.

Ben diversa era stata l’idea circa la natura del mondo coltivata dai filosofi prima di Galilei.

Se per la filosofia cristiana l’universo era il frutto della creazione divina, per Platone esso era un grande organismo vivente (teoria panpsichistica) e tale concezione era stata ripresa dai filosofi neoplatonici dell’Umanesimo, specialmente da Marsilio Ficino.

Anche i filosofi naturalisti del Rinascimento – Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella –, pur muovendo da altri presupposti, riguardo alla natura del mondo procedevano sullo stesso ordine di pensieri dei neoplatonici: l’universo, per loro, era (come afferma Campanella)  «un animal grande e perfetto».

San’Agostino, da parte sua, aveva  sostenuto che Dio ha offerto alla nostra conoscenza, insieme ai libri della Sacra Scrittura, anche il libro della natura: è sua, quindi, e non di Galilei, come comunemente si crede, l’immagine del «gran libro della natura» (o meglio Galilei, di suo, da buon seicentista ci mette il «grande»). Per Agostino, però, la prospettiva è esattamente all’opposto di quella che sarà di Galilei: anche l’uomo ignorante può leggere nel libro della natura, «in toto mundo legit et idiota», mentre solo le persone colte sono capaci di leggere le Sacre Scritture: «non ea legunt nisi qui litteras noverunt» .

Anche per la concezione cristiana medievale è più facile leggere nel libro della natura che nella Bibbia: perché il primo lo si conosce per mezzo dei sensi, e dunque tutti sono in grado di farlo; il secondo richiede il saper leggere e, inoltre, il retto discernimento delle cose sacre, cosa che non è possibile fuori dal magistero della Chiesa. Tutti possono vedere che il sole sorge, culmina in cielo e poi tramonta, ma solo pochi hanno gli strumenti per leggere e comprendere il significato delle Scritture. L’esperienza dei sensi non inganna, ma la mente può vaneggiare in falsi ragionamenti; inoltre, se un errore nella conoscenza della natura è sempre rimediabile, un errore in ambito teologico può condurre all’eresia e alla dannazione dell’anima.

L’idea di Sant’Agostino, dunque, è stata ampiamente condivisa per tutti i secoli della cultura medievale. Ugo di San Vittore, per esempio, riteneva che il mondo sia come un libro «scriptus digito Dei», scritto dalla mano di Dio; e sosteneva che i fenomeni della natura debbano venire interpretati con gli stessi criteri con cui si deve leggere la Bibbia. Ecco perché la filosofia naturale del Medioevo va continuamente alla ricerca dei significati riposti, morali e religiosi, insiti nei fatti e negli enti della natura.

Del resto già il «Fisiologo», un libro composto ad Alessandra d’Egitto fra il II e il IV secolo, probabilmente in ambiente gnostico, ma che continuò a fare testo per moltissimo tempo, aveva sostenuto che la Sacra Scrittura «non ha detto nulla senza una precisa ragione intorno agli uccelli e alle fiere»: si trattava, quindi, di cogliere le relazioni nascoste esistenti fra gli animali e quanto scritto nella Bibbia. L’unicorno e il pellicano, ad esempio, erano simboli di Cristo e del suo sacrificio in favore degli uomini, l’uno perché si lascia catturare da una vergine, l’altro perché sfama i suoi piccoli offrendo loro la propria stessa carne.

Una “curiositas” scientifica vera e propria, nel senso moderno del termine, nel Medioevo non esisteva; come aveva affermato Sant’Ambrogio, gli uomini fanno bene a concentrare i loro sforzi nelle cose dell’anima, più che nello studio dei misteri della natura; e ancora Agostino, nelle «Confessiones», aveva lamentato che gli uomini vanno ad ammirare le cime dei monti, esplorano le profondità dell’oceano e studiano gli astri del firmamento, però trascurano di prendersi cura di ciò che è essenziale, ossia di se stessi. Ma non aveva sostenuto anche Socrate qualche cosa di simile, allorché aveva detto che l’uomo deve innanzitutto sforzarsi di conoscere se stesso, mentre il mistero dell’universo è al di là della sua portata?

E non è questa anche la concezione di Dante, che punisce la “curiositas” di Ulisse non sorretta dall’umiltà e dalla fede in Dio, dunque dalla “virtus” cristianamente intesa, ma imperniata sull’orgoglio umano, cioè sulla ribellione della creatura all’ordine di cose stabilito dal Creatore? Notiamo, di passaggio, che alcuni veicoli spaziali allestiti dalla NASA recano nomi altamente emblematici di tale orgoglio umano puramente “laico”, come «Challenger» (ossia «Lo Sfidante») e, appunto, «Curiosity» (ma è bene ricordare che «Challenger» è anche il nome di un vascello della Marina britannica messo a disposizione della Royal Society di Londra per una spedizione scientifica effettuata tra il 1872 e il 1876).

Poi, tutto è cambiato con la Rivoluzione scientifica del XVII secolo e con la concezione meccanicista di Galilei, Cartesio e Newton.

Certo, Galilei aveva “ragione”, come scienziato, nel separare la teologia dalla scienza e nel negare che la Bibbia sia uno strumento utile per la conoscenza della natura; però la sua pretesa di ridurre la conoscenza della natura a un fatto puramente matematico ha avuto conseguenze funeste, non solo per il giusto rapporto fra l’uomo e la natura stessa, ma anche per l’unità interiore dell’uomo stesso, per la coesione del suoi io.

Dimenticando che l’uomo è parte della natura ed escludendo, sia pure implicitamente, che esistano anche altri piani di realtà, oltre a quello naturale, e altre modalità di conoscenza, sia della natura medesima, sia della realtà extra-naturale (la modalità religiosa, quella spirituale, quella artistica, quella poetica, per non parlare di quella filosofica), ha creato le premesse per quella assolutizzazione della scienza che ha causato una scissione dell’io, relegando nei locali meno nobili e meno luminosi del conoscere tutto ciò che non è suscettibile di formulazione matematica, di osservazione e misurazione scientifica, di esperimento, di previsione.

La Rivoluzione scientifica del XVII secolo, dunque, ha iniziato quella distruzione dell’unità della coscienza, quella schizofrenia tra l’uomo e il mondo, quel brutale utilitarismo verso gli enti naturali e quel disprezzo verso i saperi non scientifici, che sono alla base non solo della crisi ecologica planetaria che stiamo vivendo, ma anche della crisi spirituale e morale dell’uomo moderno, sempre più alienato dal proprio centro interiore e sempre in guerra con se stesso.

Se la natura è solo una macchina, infatti, e se solo gli scienziati e i matematici sono in grado di comprenderne il funzionamento, non resta che sfruttarla senza misura e, nello stesso tempo, non resta che affidare tutto il potere agli scienziati e ai tecnici, come aveva immaginato, nella sua funesta utopia scientista «Nuova Atlantide», Francesco Bacone (pubblicata nel 1627, un anno dopo la morte dell’autore, ma composta nel 1626).

Il dramma dell’uomo contemporaneo è tutto qui: da un lato, guerra senza quartiere contro la natura, vista come una nemica da soggiogare e da sfruttare senza pietà; dall’altro lato, totalitarismo della scienza e dittatura dei “tecnici”, gli unici depositari del vero sapere e gli unici in grado di stabilire quale sia il bene dell’umanità.

L’uomo contemporaneo è perennemente in guerra contro se stesso, perché si sforza di reprimere ottusamente la sua parte spirituale,  secondo i dettami della ragione strumentale e calcolante; ed è sottomesso, nel medesimo tempo, ad una forma di totalitarismo quale, forse, nemmeno Francesco Bacone, nei suoi sogni più audaci, avrebbe osato immaginare: si manipola il patrimonio genetico degli esseri viventi, si clonano gli animali, si fabbricano delle “chimere”, mescolando i geni di specie diverse: il tutto senza che quasi nessuno osi sollevare un dubbio, avanzare una perplessità, accennare una critica; tale è la paura di incorrere nella scomunica che attende quanti manifestano diffidenza o riserve verso le meraviglie del “progresso”.

Se vuole fare la pace con se stesso, se vuole fare la pace con la natura, l’uomo deve riconoscere di aver imboccato la strada sbagliata, traviato da cattivi maestri, e ritornare sui suoi passi. Non si tratta certo di mettere il bavaglio alla scienza o di ripristinare il tribunale dell’Inquisizione; più semplicemente, si tratta di recuperare una visione ampia e spirituale del reale, in cui vi sia posto per ogni forma di conoscenza, ma dove quella scientifica non pretenda di esercitare una egemonia totalitaria su tutte le altre, né di riservare a se stessa una sorta di cambiale in bianco per quanto riguarda le scelte future dell’umanità, che riguardano tutti e non solo gli scienziati ed i tecnici.

Ma, per fare questo, l’uomo deve anche tornare a guardare nella propria interiorità e riscoprire, al centro della propria anima, il bisogno e la nostalgia dell’infinito…