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Santità e rifiuto di procreare nella riflessione tendenziosa di E. M. Cioran

di Francesco Lamendola - 10/04/2013




 

Gli ideali della santità, della spiritualità, della virtù, sono sostanzialmente incompatibili con la vita nel mondo e, in particolare, con la propensione a procreare, a trasmettere la vita attraverso la catena delle successive generazioni?

E, per converso, un forte desiderio di procreare rappresenta, di per sé, l’espressione di un rapporto fiducioso e armonioso con la vita, di un autentico amore verso di essa, di un atteggiamento accogliente e benevolo nei suoi confronti?

Le apparenze possono ingannare.

Nel Medioevo le figure del santo, dell’asceta, dell’anacoreta, erano altamente stimate e apprezzate; eppure ciò non si tradusse in un atteggiamento di scarsa fiducia nella vita e di scarso amore per essa; semmai, di un amore che si manifestava in maniera diversa da come la nostra sensibilità (o la nostra patologia) di moderni ci porta ad immaginare.

Oggi tali figure sono quasi scomparse dal nostro immaginario e i pochi monaci o suore di clausura suscitano curiosità mista a una punta di compatimento, se non di aperto disprezzo; eppure, non si può affermare che la società odierna sia innamorata della vita, visti anche il crollo della natalità e l’aumento esponenziale delle tecniche contraccettive e delle pratiche abortive.

La confusione nasce se si mescolano i differenti piani. L’ideale della santità non è un ideale “sterile”, perché la sterilità è un fatto materiale, la santità un fatto spirituale: si può essere santi anche procreando e ci si può astenere dal procreare anche senza essere sterili, anzi, amando la vita e incrementando l’amore per la vita. La procreazione è un fatto biologico e indica amore della vita solo a certe condizioni, non in se stessa: è evidente, ad esempio, che una vita concepita in seguito a uno stupro non ha origine da un atto di amore per essa, ma di pura violenza.

Nel Medioevo la santità veniva esaltata e l’ideale ascetico veniva ammirato, ma ciò non significa che la famiglia fosse disprezzata o che la procreazione fosse mal vista, tutto il contrario. Il santo, il santo vergine, l’idea che Cristo non si fosse mai spostato, tutto ciò non equivaleva a un indebolimento dell’istinto vitale, anche se è probabile che un certo numero di vocazioni monastiche abbiano avuto origine dalla paura e dalla fuga nei confronti del sesso e della prole; ma questi casi non ci aiutano a capire il fenomeno della società medievale. A meno di cadere nell’errore di Freud, che fa della psiche malata il metro di giudizio di quella sana e che scorge ovunque, più o meno dissimulati, i segni della nevrosi e della dissociazione, sostenendo che i più malati di tutti sono proprio quelli che non si riconoscono tali.

L’ascetismo e l’aspirazione alla santità non sono, almeno nella cultura cristiana, una espressione di disamore per la vita e di sterilità spirituale, ma, al contrario, di fecondità interiore - altro discorso si deve fare per la cultura buddista, nella quale essi sono effettivamente la manifestazione di una strategia per uscire dalla vita, identificata con il dolore e con il male. Non vi è nulla di lugubre nella personalità dei maggiori santi cristiani, niente di contrario alla vita, se li si considera con animo spassionato e libero da pregiudizi. Si prenda il caso di San Francesco d’Assisi: tutta la sua opera non è che un inno alla vita, una celebrazione dell’amore e della fratellanza con tutte le creature viventi, specialmente con quelle più deboli e sofferenti. Oppure si prenda il caso di Santa Teresa d’Avila (ma anche di Ildegarda di Bingen, di Caterina da Siena, di Brigida di Svezia): il suo misticismo non l’allontana dalla vita, se essere dentro la vita significa amare, donarsi, offrirsi interamente allo splendore divino.

Viceversa, si possono avere molti figli, si possono scrivere poesie o trattati sulla bellezza della procreazione e delle famiglie numerose, ma essere intimamente disamorati della vita, inariditi spiritualmente, irrimediabilmente chiusi e, per così dire, murati vivi in un circolo vizioso di egotismo nichilista e individualismo esasperato.

Il filosofo E. M. Cioran, che ha goduto di forti consensi alcuni decenni or sono, sembra essere caduto in pieno, per amore del paradosso e per pregiudizio ideologico antireligioso, nell’equivoco di cui abbiamo detto, confondendo il piano dell’ideale con quello della vita pratica e mescolando la realtà delle cose dette con quella delle cose sentite e pensate in profondità. Lo ha fatto, tra gli altri scritti, nel suo «Sommario di decomposizione» (titolo originale: «Précis de décomposition», Paris, Gallimard, 1949; traduzione dal francese di M. A. Rigoni e T. Turolla,  Milano, Adelphi, 1996, 161-63), in un capitolo intitolato, significativamente «La santità e il ghigno dell’assoluto», là dove identifica la santità con il rifiuto di procreare:

 

«Colui che, avendo consumato i propri appetiti, si avvicina a una forma limite di distacco, non vuole più perpetuare se stesso; detesta sopravvivere in un altro, al quale d’altronde non avrebbe più niente da trasmettere; la “specie”  lo sgomenta: è un mostro – e i mostri non generano più. L’”amore” continua ad affascinarlo: un’aberrazione in mezzo ai suoi pensieri. Egli vi cerca un pretesto per ritornare alla condizione comune, ma il “figlio” gli sembra inconcepibile, come la famiglia,  come l’eredità, come le leggi della natura. Senza professione né discendenza, egli attua – ultima ipostasi - il proprio compimento. Ma, per quanto lontano sia dalla fecondità, è superato da un mostro ben più audace: il santo, esempio insieme fascinoso e ripugnante,  rispetto al quale ci si trova sempre a mezza strada e in una posizione falsa; la sua, per lo meno, è chiara: più nessun gioco è possibile, più nessun dilettantismo. Giunto sulle cime dorate dei propri disgusti, agli antipodi  della Creazione, il santo ha fatto  del proprio nulla un’aureola. La natura non ha mai conosciuto una simile calamità:  dal punto di vista della perpetuazione egli segna una fine assoluta, un epilogo radicale. Essere tristi, come Léon Bloy, perché non siamo santi, significa desiderare la sparizione del’umanità… IN NOME DELLA FEDE! Quanto sembra invece positivo il diavolo che, costringendosi a inchiodarci alle nostre imperfezioni, opera – suo malgrado, tradendo la propria essenza – per la nostra conservazione! Sradicate i peccati: la vita appassisce bruscamente. Le follie della procreazione svaniranno in un giorno – per stanchezza piuttosto che per santità.  Più che per aver teso alla perfezione l’uomo si esaurirà  per essersi dissipato: assomiglierà allora a un “santo vuoto”, e sarà altrettanto lontano dalla fecondità della natura di quanto lo è questo modello di compimento e di sterilità.

L’uomo procrea soltanto restando fedele  al destino generale. Se si si avvicina all’essenza del demonio o dell’angelo, diventa sterile o produce aborti.  Per Raskol’nikov, per Ivan Karamazov o Stavrogin l’amore non è più che un pretesto per accelerare la loro perdita  e questo stesso pretesto viene meno per Kirillov, il quale non si misura più con gli uomini, ma con Dio.  Quanto all’Idiota o ad Alësa, il fatto che l’uno scimmiotti Gesù  e l’altro gli angeli colloca immediatamente entrambi fra gli impotenti…

Ma sottrarsi alla catena degli esseri umani e rifiutare l’idea di ascendenza o di posterità  non significa tuttavia rivaleggiare con il santo,  il cui orgoglio supera ogni dimensione terrestre.  In effetti, dietro la decisione con la quale si rinuncia a tutto,  dietro l’incommensurabile impresa di questa umiltà si cela un’effervescenza demoniaca: il punto iniziale, l’avvio della santità assume l’aspetto  di una sfida rivolta alla specie; successivamente il santo ascende la scala della perfezione, incomincia a parlare d’amore, di Dio, si volge verso gli umili, incuriosisce le folle - e ci irrita. Ciò non toglie che egli ci abbia lanciato il guanto…

L’odio della “specie” e del suo “genio” rende simili agli assassini,  ai dementi,  alle divinità e a tutti i grandi sterili. A partire da un certo grado di solitudine, bisognerebbe cessare di amare  e di compiere l’affascinante sozzura del’accoppiamento.  Chi vuole perpetuare se stesso a ogni costo si distingue a malapena dal cane: è ancora “natura”; non capirà mai che si possa subire il dominio degli istinti e ribellarsi a essi, godere dei vantaggi della specie e disprezzarli: fin de race – “con appetiti”… Ecco il conflitto di chi adora e abomina la donna, supremamente indeciso fra l’attrazione e il disgusto che ella ispira. Perciò - incapace di rinnegare totalmente le specie -  risolve questo conflitto sognando, sopra un seno, il deserto,  e mescolando al tanfo di troppo concreti sudori un profumo di chiostro. Le “insincerità della carne” lo avvicinano ai santi…

Solitudine dell’odio… Sensazione di un dio volto alla distruzione, un dio che calpesta le sfere, sbava sull’azzurro e sulle costellazioni, un dio frenetico, sudicio e malsano - demiurgia che proietta, attraverso lo spazio, paradisi e latrine; cosmogonia da delirium tremens; apoteosi  convulsiva in cui il fiele corona gli elementi… Le creature si protendono verso un archetipo di laidezza e agognano un ideale di deformità… Universo del ghigno, giubilo  della talpa,m della iena e del pidocchio… Non c’è più orizzonte, se non per i mostri e la canaglia. Tutto si avvia verso la turpitudine e la cancrena: questo globo che suppura mentre i viventi mostrano le loro piaghe sotto i raggi di quel cancro luminoso…»

 

Cioran non è un filosofo: non per la voluta frammentarietà e a-sistematicità del suo pensiero – se così fosse, neppure Eraclito, Pascal o Nietzsche lo sarebbero – ma per il suo compiacimento della parola, per il suo perenne narcisismo intellettuale, per l’evidente voluttà con cui si abbandona e resta irretito nella trama stessa del suo delirio iconoclasta. Come tutti i maestri dell’ironia, egli può sempre respingere ogni addebito, rifugiandosi dietro l’alibi dello scherzo: è colpa vostra se mi avete preso troppo sul serio, io stavo solo giocando.

Ma proviamo ugualmente a estrapolare un ragionamento dalla selva lussureggiante dei suoi paradossi, delle sue immagini barocche, dai suoi fuochi d’artificio linguistici, a metà strada fra «Il battello ebbro» di Rimbaud e lo «Zarathustra» nietzschiano, fra i surrealisti del ‘900 e i grandi moralisti del XVII secolo, un po’ Alfred Jarry e un po’ Michel de Montaigne. Cioran non sostiene soltanto che l’ideale della santità è “innaturale” e, dunque, contrario alla perpetuazione della specie e alla vita in quanto tale; ciò non sarebbe affatto particolarmente originale: lo aveva già detto la psicanalisi freudiana, il santo come alienato e come “monstrum”, come impotente e come schizofrenico. Né si limita a suggerire che il grande movente del santo, tuttavia segreto e inconfessabile, sia il rancore; anche ciò non sarebbe affatto una novità: lo aveva già detto Nietzsche, il Nietzsche della «Genealogia della morale», con la sua implacabile denuncia della morale del “ressentiment”. Anche se, bisogna dirlo, tolto Freud e tolto Nietzsche, non resta molto di originale nel pensiero di Cioran, una volta che sia stato sfrondato dei vezzi e dei lazzi linguistici, nei quali è maestro, pur essendo un romeno che ha appreso il francese solo come seconda lingua.

Comunque, di suo egli ci mette un’altra e più provocatoria riflessione: cioè che il santo è un adoratore del nulla, del “cupio dissolvi”, un campione del nichilismo fiammeggiante, un odiatore del genere umano e dell’universo intero; e che, dal punto di vista pratico, egli è qualche cosa di meno, e non qualche cosa di più, del mistico sensuale, innamorato e disgustato della donna al tempo stesso, capace di sprofondarsi nei torbidi bollori della carne e di provarne schifo, ma con tanta più voluttà e con tanto più delizioso senso di colpa, dunque con tanta più “saggezza” di vita.

Ebbene, nemmeno questa è una riflessione del tutto originale, anche se va oltre i suoi due grandi maestri, portando fino alle estreme conseguenze la loro lezione del “sospetto”: non bisogna mai credere a quel che gli uomini dicono di amare o di odiare, la realtà è che essi amano e odiano esattamente il contrario, perché sono falsi e bugiardi per natura. Non vera originalità, dunque, ma piuttosto fanatica coerenza alla lezione ricevuta e applicazione rigida, intransigente, testarda della stessa; e, insieme – questo sì, tutto suo -, un languore segreto, un compiacimento a malapena dissimulato, una segreta fratellanza con i mistici decadenti alla Léon Bloy, dei quali Cioran è tanto più segretamente fratello, in quanto ne è oltremodo attratto e affascinato, ad onta della veemenza polemica con la quale si scaglia contro di loro – o meglio, appunto per questo.

Comunque, come tipo psicologico Bloy resta superiore al suo irriducibile nemico e segreto ammiratore, Cioran: infatti, essere tristi perché non si riesce ad essere santi, non significa desiderare la sparizione dell’umanità, ma la sparizione di QUESTA umanità: egoista, viziosa, feroce, abbrutita dalla ricerca piacere; e sperare nella sua rinascita: trasfigurata dalla bellezza, dalla bontà, dalla luce.