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Thatcher, la mediocrità fatta Premier

di Michele Paris - 10/04/2013


    


La morte dell’ex primo ministro britannico Margaret Thatcher ha prevedibilmente prodotto un numero infinito di necrologi e commenti sui media di tutto il mondo, quasi sempre all’insegna della celebrazione della lunga carriera politica della prima e finora unica donna installatasi al numero 10 di Downing Street. Anche i giornali con un approccio più critico all’eredità politica della “Lady di ferro” hanno spesso offerto il riconoscimento di una presunta indiscutibile statura politica che, a ben vedere, appare del tutto ingiustificato.

Gli onori tributati dai giornali e dalla classe dirigente britannica appaiono in ogni caso in netto contrasto con le spontanee manifestazioni popolari di gioia esplose in decine di città del Regno Unito alla notizia del decesso dell’87enne Thatcher in seguito ad un ictus.

In grado di raggiungere il successo e la stabilità economica quasi esclusivamente grazie al matrimonio nel 1951 con l’uomo d’affari ultra-reazionario Denis Thatcher, Margaret Hilda Roberts deve la sua ascesa ai vertici del Partito Conservatore e del governo britannico alle condizioni storiche createsi in seguito all’esplosione del conflitto di classe in tutta Europa tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo.

Convinta sostenitrice del liberismo di Milton Friedman e dell’economista austriaco Friedrich von Hayek, la Thatcher è stata lo strumento per l’avanzamento della borghesia britannica più reazionaria e dedita all’arricchimento personale, nonché la rappresentante della fazione del suo partito più critica nei confronti della precedente leadership - da Winston Churchill a Anthony Eden, da Harold Macmillan a Alec Douglas-Home - e della cosiddetta “politica del consenso”, basata sull’accettazione del crescente ruolo dello stato nell’economia e su concessioni relativamente generose alla classe lavoratrice.

I suoi tre mandati alla guida del governo vanno dal 1979 fino alla sommaria estromissione dalla leadership del partito nel 1990 per evitare ai conservatori un disastro elettorale alla luce della sua calante popolarità nel paese.

L’impronta della Thatcher sull’economia della Gran Bretagna è stata caratterizzata fondamentalmente dalla rimozione di ogni limite possibile all’accumulazione di ricchezza nelle mani dell’upper middle-class, da raggiungersi attraverso la deregulation del settore finanziario, la svendita delle aziende pubbliche, i tagli alle tasse per il business e i redditi più elevati, il contenimento dei sindacati e, più in generale, lo smantellamento delle conquiste sociali ottenute nel secondo dopoguerra dalla classe operaia.

Una politica marcatamente di classe e spesso associata a quella messa in atto negli stessi anni in America dal presidente Reagan, le cui conseguenze più drammatiche e durature furono la distruzione di interi settori industriali, disoccupazione di massa e impoverimento diffuso. Inoltre, il confronto diretto con i sindacati e la classe lavoratrice provocò il riesplodere di violente tensioni sociali nel paese, come risultò evidente dallo sciopero dei minatori del 1984-85, conclusosi con due morti, migliaia di arresti e di feriti, nonché con la sconfitta di questi ultimi. Quello che emergeva, tra le righe della sua decantata "durezza", era non tanto una convinzione fortissima nelle teorie economiche che gli spiegavano, quanto un odio di classe feroce, che si miscelava con una tenacia irriducibile e che vedeva nei diritti sociali una sfida all'autorità, prima ancora che alle compatibilità economiche.

La lunga permanenza al potere di Margaret Thatcher, nonostante la profonda ostilità di ampie fasce della popolazione, fu possibile anche grazie al definitivo abbandono in quegli anni delle politiche volte alla difesa della working-class da parte del Partito Laburista, incapace di tenere insieme il filo della difesa delle classi lavoratrici con le necessità di porsi alla guida della Gran Bretagna. Prevalse la seconda opzione e non erano certo i Kinnock di turno a poter invertire una tendenza internazionale che vedeva l'affermazione della reaganomics anche in ragione del sostegno che offrì la Thatcher.

Una svolta, quella del “Labour”, che segnò la totale accettazione del libero mercato, dimostrata qualche anno più tardi dalla sostanziale continuazione del thatcherismo da parte di Tony Blair e del “New Labour”, e che, come sostenne Hugo Young, il biografo della “Lady di ferro”, concretizzò quanto quest’ultima aveva affermato in un’occasione, cioè che la sua “missione non sarebbe stata completata finché il Partito Laburista non sarebbe diventato come quello Conservatore: un partito del capitalismo”.

Le conseguenze rovinose e le fragili fondamenta delle politiche della Thatcher sarebbero state testimoniate non solo dalla devastazione sociale prodotta in Gran Bretagna ma anche dal continuo ripresentarsi di gravi crisi finanziare, risultato della deregulation selvaggia e dello svincolo pressoché totale dell’accumulazione del capitale dalla produzione di beni.

Sul fronte della politica estera, oltre ad avere sostenuto la dittatura cilena di Pinochet e il regime dell’apartheid in Sudafrica, la Thatcher fu allineata agli interessi dell’imperialismo americano, distinguendosi per una risoluta avversione nei confronti dell’Unione Sovietica, almeno fino all’arrivo al potere a Mosca di Mikhail Gorbachev, correttamente identificato come l’uomo che avrebbe finito per riaprire il suo paese al capitalismo internazionale.

Donna dalle passioni decise, soprattutto quando del tutto impresentabili ed ingiustificabili, s'identificò notevolmente proprio con il macellaio cileno Pinochet, al punto da difenderlo anche quando ormai si era ritirata a vita privata, non rinunciando a sostenere il boia cileno anche intervenendo pesantemente sulla magistratura inglese, che aveva promosso iniziative concrete per giudicarlo con l'accusa di crimini contro l'umanità.

L’evento che, secondo le commemorazioni ufficiali, diede alla Thatcher la reputazione di vera statista fu però la guerra delle Falkland (Malvine) nella primavera del 1982. Il conflitto esplose ai primi di aprile in seguito all’invasione delle isole al largo dell’Argentina ordinata dalla giunta militare al potere a Buenos Aires.

La dura risposta di Londra provocò complessivamente oltre 900 morti, tra cui 323 membri dell’equipaggio dell’incrociatore argentino ARA Generale Belgrano, deliberatamente affondato da un sottomarino nucleare britannico nonostante si trovasse al di fuori della cosiddetta “Zona di Esclusione Totale”, dichiarata arbitrariamente dagli inglesi, e stesse facendo ritorno alla terraferma.

Né le posizioni assunte sulle questioni internazionali più controverse né tantomeno le scelte di politica economica furono mai oggetto di qualche ripensamento da parte di Margaret Thatcher dopo l’addio alla vita pubblica e prima del sopraggiungere dei primi sintomi di demenza senile, destino del resto comune al suo grande amico Reagan.

Tra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, anzi, l’ex primo ministro diede ad esempio il proprio sostegno sia all’intervento occidentale nella ex Yugoslavia che all’invasione illegale dell’Iraq di Saddam Hussein e al principio della guerra preventiva, ideato dall’amministrazione Bush, contro quei paesi indicati come sostenitori del terrorismo.

In definitiva, però, l’eredità lasciata dal thatcherismo risiede principalmente nell’aver contribuito a gettare le basi dell’esplosione della gravissima crisi economica del 2008 e tuttora in atto, così come nella promozione di politiche di austerity e di impoverimento di massa, perseguite indistintamente anche dalla classe politica odierna, espressione unica, come la “Lady di ferro”, dei grandi interessi economici e finanziari responsabili della regressione sociale che ha segnato gli ultimi tre decenni in tutto l’Occidente.