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La Thatcher acuì le contraddizioni inglesi tra povertà e ricchezza, politica e lotta armata

di Michele Chicco - 10/04/2013

Fonte: Barbadillo



Margaret Thatcher 01Con i suoi abiti color pastello e i capelli cotonati, Margaret Thatcher provò a costruire la sua immagine pubblica calcando l’iconografia della perfetta dama inglese: il the alle cinque e la pasta scotta, però, non ne avrebbero fatto un leader politico, ma solo una donnina pronta a battersi nel suo piccolo collegio elettorale. Per scalare il vertice del partito conservatore britannico serviva altro e Maggie aggiunse alla sua ricetta una sostanziale dose di cinismo e parecchia altezzosità.

Nei suoi undici anni di governo, dal 1979 al 1990, la Thatcher prese in mano le redini del Regno Unito e ne modificò la struttura sociale, economica e politica seguendo ciecamente la sua strada: coccolò l’Inghilterra, terra ricca di voti, e fece cassa nelle periferie del Regno – in Scozia, Galles e Irlanda del Nord. Calcolatrice alla mano, il leader conservatore applicò negli anni il suo credo economico liberista con convinzione (come racconta qui, su Barbadillo, Leo Junior) e si mostrò senza troppi scrupoli anche quando in ballo c’erano la vita e la morte dei sudditi britannici. In Irlanda del Nord e nelle Falkland-Malvinas Margaret Thatcher diede vigore al suo gelido nickname e si mostrò impassibile davanti alle richieste di libertà e partecipazione che arrivavano dai lontani territori di periferia.

Le premesse c’erano tutte: nel 1979, pochi mesi prima delle General Election che la videro trionfare, la Thatcher partecipò con convinzione alla campagna referendaria per la devolution amministrativa in Scozia. Si spese per il “No” e quel primo marzo la sua fu una vittoria a metà: la maggior parte dei votanti avrebbe preferito salutare Westminster e per lei questo fu sufficiente per giurare vendetta – politica – a chi si era mostrato troppo poco fedele a Londra. E, ovviamente, tra questi non c’erano solo gli scozzesi.

Quando Bobby Sands morì, dopo sessantasei giorni di sciopero della fame nel carcere di Long Kesh, Margaret Thatcher lo definì «un criminale» e mai si pentì di non aver concesso lo status di detenuto politico al poeta e patriota nord-irlandese. La sua ferma ostinazione portò all’inasprimento dello scontro tra britannici e irlandesi; lei stessa divenne obiettivo sensibile dell’Irish Republican Army che lottava sul fronte militare per ottenere il riconoscimento politico da Westminster. L’Iron Lady si mostrò sorda a tutto questo ed anzi sfruttò con cinismo la lotta irlandese per fomentare, in Inghilterra, lo zoccolo duro del suo elettorato: i suoi “no” e le sue parole di condanna divennero slogan elettorali efficaci che aiutarono Maggie a vincere le elezioni nell’83 e quattro anni più tardi.

Quando nel 1990 la sua stella tramontò, John Major divenne Primo Ministro e sancì, con il suo “conservatorismo dal volto umano”, un periodo di transizione tra due epoche storiche profondamente diverse. Il decennio dell’Iron Ladymodificò gli equilibri britannici e con la politica della Thatcher emersero le contraddizioni di una nazione nella quale, come racconta Irvine Welsh nei suoi romanzi, convivevano a pochi passi ricchezza e povertà; rappresentanza politica e lotta militare. Dopo la rivoluzione thatcheriana, la consapevolezza di vivere in un paese complesso, con le sue diverse nazionalità, permise ai nuovi leader politici di compiere scelte radicalmente opposte e di rimettere in ordine i tasselli di una monarchia composita com’è quella britannica. Con Tony Blair, non a caso, le periferie del Regno tornarono al centro della politica nazionale ed ottennero, sul finire degli anni Novanta, i loro agognati riconoscimenti politici e istituzionali. Molti sostengono che questo sia il lascito più grande di Margaret Thatcher; sicuramente, come ha detto oggi Alex Salmond, primo ministro scozzese, le scelte dell’Iron Lady hanno «segnato un’intera generazione politica».