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Usa e Birmania, i nuovi amici

di Michele Paris - 22/05/2013


    


Per la prima volta dal 1966, un presidente in carica della ex Birmania (Myanmar) è stato ricevuto nel corso di una visita di stato alla Casa Bianca dal proprio omologo statunitense. L’arrivo a Washington del generale Thein Sein ha suggellato un percorso diplomatico durato due anni, durante i quali la giunta militare al potere nel paese del sud-est asiatico ha portato avanti una serie di “riforme” in gran parte cosmetiche per sganciarsi dalla dipendenza dalla Cina e offrirsi come strumento degli interessi strategici ed economici occidentali.

Lunedì scorso, dunque, il presidente Obama ha riservato un’accoglienza calorosa a Thein Sein, elogiato senza riserve per avere mostrato la sua leadership nell’indirizzare “il Myanmar su un cammino di riforme politiche ed economiche”. Inoltre, ha aggiunto l’inquilino della Casa Bianca, a convincere gli Stati Uniti sarebbero state anche “elezioni credibili” e la formazione di un Parlamento che procede verso un processo di “inclusione e maggiore rappresentanza dei vari gruppi etnici” del paese.

Lo stesso impiego da parte di Obama del nome “Myanmar” - assegnato ufficialmente al paese dal regime militare nel 1989 - è apparso altamente significativo, dal momento che gli Stati Uniti negli affari ufficiali continuano ad utilizzare la precedente definizione di “Birmania”.

Dietro le pressioni delle organizzazioni a difesa dei diritti umani e di alcuni gruppi di manifestanti di fronte alla Casa Bianca, Obama allo stesso tempo è stato costretto a sollevare pubblicamente la questione della repressione delle minoranze etniche e dei numerosi episodi di violenza ai danni soprattutto della popolazione birmana di fede musulmana, nelle quali le forze di sicurezza del regime sono ampiamente coinvolte.

“Lo sradicamento e le violenze dirette contro le minoranze devono cessare” ha affermato il presidente americano, aggiungendo, non senza una certa dose di cinismo, che per prosperare “gli stati devono trarre beneficio dal talento di tutta la popolazione e garantire il rispetto dei diritti umani”.

Da parte sua, Thein Sein ha promesso una maggiore attenzione a questi problemi, ricordando però che il suo paese è guidato da “un governo democratico da soli due anni” e che servirà quindi “maggiore esperienza” per superare “gli ostacoli e le sfide che si presenteranno nel corso del processo di democratizzazione” del Myanmar.

A rappresentare un gravissimo motivo di imbarazzo per gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali che negli ultimi due anni hanno ristabilito i rapporti con la ex Birmania sono state in primo luogo le violenze che in due occasioni nel corso del 2012 hanno visto frange estremiste buddiste perseguitare la minoranza musulmana (Rohingya) nello stato occidentale di Rakhine.

Questi episodi hanno fatto più di 250 vittime e costretto decine di migliaia di persone ad abbandonare le proprie abitazioni e i propri villaggi. Come hanno confermato svariate indagini indipendenti, le forze di polizia hanno spesso mancato di intervenire per mettere fine alle violenze, mentre in altre occasioni hanno partecipato direttamente alle persecuzioni. I musulmani Rohingya, oltretutto, sono tradizionalmente soggetti a discriminazioni e, essendo originari del Bangladesh, non vengono nemmeno considerati cittadini del Myanmar pur risiedendovi da varie generazioni.

Altre violenze che hanno preso di mira i musulmani sono state registrate più recentemente anche nel mese di marzo in una regione centrale del paese, mentre proseguono tuttora le campagne militari del governo centrale contro svariate minoranze etniche, in particolare i ribelli Kachin al confine settentrionale con la Cina.

La ONG americana “US Campaign for Burma”, poi, in concomitanza con la visita di Thein Sein a Washington ha ricordato come nell’ultimo anno il regime abbia aggiunto ai detenuti politici già nelle carceri del paese oltre 1.100 birmani di etnia Rohingya e 250 Kachin. Lo stesso Dipartimento di Stato USA, sempre nella giornata di lunedì, ha infine pubblicato il proprio rapporto annuale sulle violazioni del diritto alla libertà di religione nel mondo, indicando il Myanmar come uno degli otto paesi più repressivi in questo ambito.

I presunti scrupoli per i diritti democratici manifestati da Obama - il quale era stato anch’egli protagonista di una storica visita in Myanmar lo scorso novembre - nascondono in ogni caso soltanto il timore di vedere smascherate le vere ragioni che hanno portato allo sdoganamento di un regime ancora dominato dai vertici militari.

Dopo il soffocamento da parte dei militari del movimento democratico esploso nel 1988, il Myanmar aveva visto interrompersi ogni contatto con gli Stati Uniti e l’Occidente, nonché l’imposizione di sanzioni punitive. Gli anni successivi sarebbero stati segnati perciò da un inesorabile avvicinamento alla Cina, diventata di gran lunga il principale partner economico e strategico della ex Birmania nonostante i sospetti dei decenni precedenti.

Proprio la necessità di liberarsi da questo rapporto esclusivo con Pechino, assieme probabilmente ai timori per le crescenti tensioni sociali in un paese piagato da una povertà diffusa e alla lezione appresa dalla sorte di paesi - come la Libia - coinvolti in “rivoluzioni” orchestrate dall’Occidente, un paio di anni fa il regime ha intrapreso una storica svolta diplomatico-strategica.

Una volta assicuratosi il dominio politico con una nuova costituzione e con le elezioni del novembre 2010, i militari hanno così lanciato segnali inequivocabili agli Stati Uniti e ai loro alleati, come quello del settembre dell’anno successivo, quando è stato improvvisamente cancellato un progetto cinese per la costruzione della mega centrale idroelettrica di Myitsone, nello stato di Kachin, citando come motivo ufficiale della decisione la diffusa ostilità della popolazione locale verso l’impianto.

Punto centrale nel processo di distensione con l’Occidente è stata poi la fine degli arresti domiciliari della cosiddetta icona del movimento democratico birmano, Aung San Suu Kyi, e il via libera garantito alla sua Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) all’ingresso in Parlamento di una manciata di deputati in seguito ad un’elezione speciale tenuta nell’aprile dello scorso anno.

Il ruolo di San Suu Kyi in questi mesi è stato quello di dare legittimità al regime, così da giustificare l’allentamento delle sanzioni internazionali e favorire una serie di “riforme” nel paese che facilitino l’apertura del mercato interno al capitale occidentale e giapponese. Come corollario, inoltre, il presidente Thein Sein e il governo birmano hanno accettato di liberare un certo numero di detenuti politici, ma anche di attenuare o cancellare alcune leggi repressive, ad esempio sulla libertà di stampa e sulla formazione di organizzazioni sindacali indipendenti.

La limitata apertura alla società civile si è però accompagnata all’intensificarsi dello scontro con quelle sezioni della popolazione tradizionalmente emarginate, mentre le divisioni e le contraddizioni irrisolte della storia del Myanmar sono riesplose proprio mentre il regime sta cercando di unificare il paese in una delicata fase di transizione, rivelando clamorosamente la persistente natura repressiva della cerchia di potere birmana.

Per gli Stati Uniti e gli altri governi occidentali, comunque, il nuovo rapporto con il Myanmar ha poco o nulla a che fare con il presunto percorso democratico che il regime avrebbe intrapreso, bensì esclusivamente con la possibilità, da un lato, di trasformare questo paese in una fonte di manodopera a basso costo e, dall’altro, di indebolire l’influenza cinese in un’area strategicamente fondamentale per gli interessi di Pechino.

Quello che, prima di lasciare il Dipartimento di Stato, l’ex segretario Hillary Clinton aveva definito come il principale successo diplomatico dell’amministrazione Obama - vale a dire la riconciliazione con il Myanmar - per stessa ammissione del presidente rappresenta anche una sorta di esempio per quei paesi, come ad esempio la Corea del Nord o l’Iran, che sono tuttora sulla lista nera di Washington.

Per questi regimi come per la ex Birmania, infatti, gli Stati Uniti saranno prontissimi a chiudere un occhio sulla violazione dei diritti democratici e a stendere il tappeto rosso alla Casa Bianca per i loro leader in cambio di “riforme” di facciata e, soprattutto, di un allineamento agli interessi strategici dell’imperialismo americano.