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L’autonomia dei Karen è dei popoli

di Francesco Marotta - 29/05/2013

Fonte: destra

Una nazione del Sud-est asiatico, la Birmania, è costretta ad ingerire frettolosamente bocconi amari rifilati dalla centralità di un popolo. Lo Stato Kayin (Stato Karen), lembo di terra sud orientale incuneato fra cielo e terra al confine con la Thailandia in una pacifica convivenza, peculiarità di uno Stato che si dovrebbe definire tale, muovendosi a suo agio nella scelta libera della propria gente di adottare più credi religiosi: tra cui, le più importanti dottrine monoteiste, riuscendo a schivare magistralmente l’impeto virulento del puritanesimo occidentale, contemporaneamente vive e lotta. Avendo la meglio persino contro l’uniformità di un giudizio e di una cronaca giornalistica, pressoché inesistente. Il popolo Karen non è appetibile per i grandi gruppi dell’informazione globale. Le verità e il coraggio di un popolo non rientrano nelle mete più gettonate (studiate a tavolino), forse a causa del clima tropicale in questo periodo? Da giugno ad ottobre monsonico, con piogge torrenziali dall’elevata umidità, preferibilmente auspicabile grazie all’inchiostro versato nei pitali della servilità. L’imperdonabile imborghesimento di un resoconto particolareggiato, meteo, dovuto all’integerrima consacrazione del mondo incivilito dei colonnelli e generali birmani, anacronisticamente distanti dal celebre chansonnier delle previsioni italiane, Edmondo Bernacca.

 

L’oppressione militare dell’anti-società birmana, alle prese con la “delittuosità” riposta fra le vallate e le montagne che non intendono piegarsi alla modernità del Governo di Rangoon. Sette milioni di sconosciuti sulla platea della crescita incondizionata che, dal 1949, combattono per la propria indipendenza, vittime da sacrificare al tavolo della diplomazia europea stretta dalle briglie statunitensi e dall’espansionismo cinese. Nonostante tutto, il circolo delle “Arti e dei Mestieri” dell’ unione di Myanmar, così nel 1989 la giunta militare decise di rinominare la Birmania sulle sponde deformate del fiume Irrawaddy, continua imperterrito l’opera di eliminazione fisica di un’intera comunità. Sensazioni rievocanti l’epoca del periodo coloniale inglese del XIX secolo, dall’aberrante inclusione di un centinaio di etnie birmane, inglobate duramente dall’irresponsabilità dei “Pith helmet” per poi essere riadattata con maggior vigore nel 1962 dalla giunta videliana di Rangoon.

 

 L’apertura odierna è l’evoluzione negli accordi congiunti tra due consorelle, sostenute dalla Banca di Sviluppo Asiatica, desiderose entrambe di rinforzare i legami di trasporto sulla frontiera Birmano-Thailandese, in primo luogo, sul passaggio Myawaddy — Mae Sot, nodo strategico dell’ importantissimo commercio tra i due paesi che si spartiscono 1800 chilometri di frontiera — e l’appeal mondialista. Myawaddy è la cittadina sul versante birmano (Karen !) collegata da un ponte alla sua gemella thailandese Mae Sot. Il punto focale dove diverse delegazioni cinesi del governo di Xi Jinping hanno stabilito da tempo la possibilità, realizzabile, di fare affari coi due stati confinanti, avendo in concessione l’usufrutto della frontiera. Il tutto sotto la vigile e caldeggiante operosità “dell’impiegato” della banca di Sviluppo Asiatico James Lynch. Il quale, guidato da leve ispiratrici e, come immaginabile, da una visione “spiccatamente” subcontinentale, dichiara senza troppe esitazioni sulla questione: “Questo corridoio è la cosa più ragionevole dal punto di vista economico delle connessioni via terra verso le nazioni vicine nel breve e medio periodo.” Un’implicita pluralità nelle dichiarazioni esplicite dell’allargamento e dei lavori in corso ad Est, coinvolgenti l’intero comparto dei trasporti e l’annientamento delle rimostranze di una Nazione, quella dei Karen, alle prese con una rivisitazione omnicomprensiva, includente la Subregione del Grande Mekong; congiungendo, secondo le mire del mercato globale, delle cattedrali bancarie, delle multinazionali e del libero scambio, Moulmein in suolo birmano a Da Nang in terra vietnamita.

 

La corruzione è globale e non fa distinzione neppure tra l’etnia Karen. Davvero molti sono i segnali in tal senso giuntici dall’instancabile Comunità Solidarista Popoli Onlus. La popolazione è alle prese con la rielezione di una leadership: parecchi delegati hanno ceduto al fascino corroborante del “fiume di denaro” riversato nelle tasche dei più deboli, docili sostenitori della causa derivante dal narcotraffico del capitalismo governativo birmano (http://www.comunitapopoli.org/site/. Leggasi Birmania: mondialismo esemplare) e, purtroppo non sono pochi i rappresentanti di distretto della K.N.U. (Karen National Union) ed alcuni comandanti di Brigata del Karen National Liberation Army, in aggiunta a numerosi responsabili dei dipartimenti a cadere nella trappola ben oliata. Possiamo, dunque, legittimamente dar voce all’autodeterminazione e all’indipendenza di un popolo? L’autonomia, nonostante tutto, è ancora raggiungibile per i Karen. Tenacemente propensa all’anti-evoluzione della dottrina classista: intrisa dell’amalgama ideologica, liberale, economica e mercantile, concernente la macro-evoluzione. Ristabilendo le problematiche dimostrative di un Italia e di un’Europa poco adiacente alla sua cittadinanza ma all’UE, dove le rendite private, prevaricano il compimento dell’attività pubblica. Ripartendo da quella voce di un’originalità asiatica trasudante le separazioni di intenti europei.

Nei cannoni mediatici, anziché sparare fiori a forma di false contrapposizioni unificatrici tra diversi nostalgismi destorsi, è ora di elevare l’autonomia e il vigore della volontà di una Nazione. D’altra parte, le decisione di colonnelli e generali, da Videla a Thein Sein, abbiamo visto dove hanno portato. Cosa aspettiamo ?