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Declino dell'architettura

di Roberto Ugo Nucci - 05/06/2013

 


 

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Nel Rinascimento la formazione degli architetti avveniva con un attento studio critico dei capolavori del passato e nel diciottesimo secolo l’Accademia di Francia dettava le regole del buon costruire con una formale investitura culturale. Oggi lo studio dell’ “antichità”, come usava chiamarla Norman Shaw, è del tutto superficiale e inconcludente, un semplice richiamo al passato senza alcuna mediazione storica e culturale che avvalori una presenza di continuità con la tradizione.  Come afferma Reginald Blomfield, docente e storico dell’architettura degli anni ’30, “sembra che la grande architettura non fosse mai esistita prima del ‘900, il modello di un municipio ora è un edificio lungo, basso, con una torre alta e magra ad una estremità e quello di una casa una scatola con dei buchi”. Una prefigurazione di quanto poi accadrà sistematicamente in uno scenario urbano monotono e deprimente, senza un’identità formale, anzi immiserito in una geometria elementare e ripetitiva.


La mancanza di una visione culturale attinta dalla storia, come diceva Blomfield, ha lasciato campo libero ad una architettura funzionale e utilitaristica, che ignora il significato del simbolo e che si inaridisce in edifici di culto con spazi privi di senso del sacro e di valore comunitario. L’architettura post illuminista si è piegata al dominio della tecnica e si è ridotta ad un’architettura banalizzata dalla tecnologia, mutando i fondamenti e i contorni del sapere in meri supporti di inconsistente e arida ricerca formale.
Nietzsche in una sua conferenza sull’avvenire delle nostre scuole stigmatizzava lo stato di disagio culturale chiedendosi: “Chi vi condurrà alla patria della cultura, se le vostre guide sono cieche e si spacciano per gente che vede? Chi di voi perverrà al vero sentimento della sacra gravità dell’arte, se venite viziati sistematicamente a balbettare soli laddove vi si dovrebbe guidare, a meditare e a filosofare soli sull’opera d’arte, laddove vi si dovrebbe costringere ad ascoltare grandi pensatori e tutto ciò con il risultato che rimarrete eternamente lontani dall’opera d’arte? Così resterete servitori dell’oggi”.

Il modernismo, come rarefatta ideologia del progresso, affonda le sue radici nell’intellettualismo frutto di un culto esclusivo della ragione: De Chirico ammoniva “che alcuni vogliono sembrare intelligenti senza alcuna predisposizione a capire, ma semplicemente desiderosi di seguire ogni tendenza"  
L’intellettualismo ha travolto il significato delle parole, ha creato un linguaggio di maniera, ha introdotto nuovi modi di rapportarsi con la realtà del commercio e del prevalente interesse economico, ha prodotto mestieranti della cultura affettati e sine nobilitate. I critici d’arte, moderne figure di operatori economici, hanno inventato un linguaggio confuso ed ermetico, hanno “visto” in certe opere quello che non vi era da vedere, esaltando cose straordinarie laddove non esisteva che il nulla. Il critico come il mercante d’arte si sono resi complici di operazioni di mercato abilmente orchestrate a danno di un pubblico ora incolto e impreparato, quindi facilmente suggestionabile. Una volta l’arte era per veri conoscitori e materia di riflessione di poeti e scrittori come Sainte-Beuve, Baudelaire e Apollinaire, che in alcuni loro scritti parlavano d’arte con lo spirito e la sensibilità della loro cultura.


Nella pittura come nell’architettura  modernismo e intellettualismo hanno percorso strade parallele. In Cezanne, che per un certo periodo della sua vita fu un mediocre pittore ottocentesco, la svolta interpretativa si determinò con la cubificazione delle forme in un modo spoglio, sfaccettato e geometrico. C’è chi aveva capito che la novità e la vera bruttezza avrebbero potuto sostituire con buon successo la falsa bellezza di quei tempi e l’intellettuale così avrebbe avuto buon gioco a manifestare il suo intellettualismo con rinnovata abilità incantatrice.
Non diversamente, appunto, si impose il modernismo nell’architettura del secolo XX con opere di ispirazione ingegneresca che la storiografia ufficiale celebrò come l’avvento di una nuova era. Si celebrano i nuovi materiali e le nuove tecnologie come espressione di nuove conquiste formali sino a riconoscere nella Tour Eiffel il simbolo-monumento della nuova epoca. Come afferma Blomfield il predominio del modernismo nell’architettura, “è una questione più seria delle sue incursioni nella pittura, scultura, musica e letteratura; essa presenta il suo fronte sfacciato nelle nostre strade e nella nostra campagna ed è troppo grande e troppo costosa perché la si possa distruggere completamente”.

Con l’imporsi dell’internazionalismo in architettura, contro ogni forma di autonoma ricerca progettuale legata al contesto del luogo, si afferma il concetto di standardizzazione, parallela al processo di industrializzazione dei materiali, con effetti invasivi nel territorio di anonimi contenitori più simili a scatole d’imballaggio che a opere degne di una minima qualità formale. Come contrappunto al grigiore ed alla melanconica monotonia di anonimi parallelepipedi residenziali si realizzano strutture di insolente e volgare fattura in omaggio al potere consumistico e commerciale. Le nuove “cattedrali” del consumo si contendono dimensioni sempre più grandi, da super a ipermercati sino a cittadelle del divertimento e dello svago, diventandolo il polo di attrazione di masse di individui destinate al più delirante spreco del tempo della  storia.
Il modernismo come una piovra assale il territorio e lo stravolge, mentre i centri storici restano nel museo della storia, consegnati al turismo cosiddetto culturale come simulacri di un passato inerte e impossibilitato a dialogare con il mondo contemporaneo. Il fondamentalismo ideologico della nuova architettura impone le sue regole, mutuate dalla diffusa  globalizzazione dei mercati e dal prevalere di  un’ urbanistica dettata da lobbies di potere sempre più aggressive.

A questo proposito significativo è l’amaro commento di Giorgio Locchi sui turisti in visita alla Tour Eiffel. Diceva Locchi che il loro esclusivo interesse era quello di sapere “quanto fosse alta e quanto pesasse”. Se questa è cultura democratica, non possiamo che rassegnarci.