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Manning, il processo-farsa

di Michele Paris - 05/06/2013

 
    


Dopo più di 1.100 giorni di detenzione preventiva, l’ex analista dell’esercito americano Bradley Manning ha assistito all’avvio del proprio processo di fronte ad una corte marziale dove è sostanzialmente accusato di avere contribuito a far conoscere a tutto il pianeta alcuni dei crimini dell’imperialismo americano e la segretezza con cui Washington conduce i propri affari nel mondo.

Il procedimento a suo carico viene utilizzato dal governo USA per impartire una lezione inequivocabile a chiunque intenda mettere in piazza gli aspetti più oscuri del proprio operato, ricorrendo ad una serie di misure pseudo-legali per ottenere una condanna esemplare.

Le accuse rivolte contro il 25enne ex militare impiegato in Iraq sono ormai note e comprendono soprattutto il trasferimento di documenti riservati del governo americano a WikiLeaks, un’azione che avrebbe “favorito il nemico” e messo a rischio la vita di altri soldati del proprio paese. Nel corso delle udienze preliminari dei mesi scorsi, Manning si era dichiarato colpevole in maniera spontanea di alcuni capi di imputazione meno gravi ma l’accusa ha respinto ogni ipotesi di patteggiamento, preferendo cercare in aula una condanna al massimo della pena prevista, cioè l’ergastolo.

Il giudice militare che presiede la corte marziale, colonnello Denise Lind, in un’altra udienza aveva invece deciso di escludere dal procedimento qualsiasi discussione sulle motivazioni che hanno spinto Manning a sottrarre al governo e pubblicare circa 700 mila documenti riservati, limitando di fatto le sue possibilità di difesa e impedendo di far luce sul contenuto dei documenti stessi.

Nella prima giornata di dibattimento a Fort Meade, in Maryland, l’accusa, rappresentata dal capitano Joe Morrow, in poco meno di un’ora ha cercato deliberatamente di screditare Bradley Manning. A suo dire, quest’ultimo avrebbe “sistematicamente e indiscriminatamente” raccolto documenti riservati per metterli in rete con la consapevolezza di favorire “i nostri nemici”, a cominciare da Al-Qaeda.

Inoltre, il capitano Morrow ha affermato per la prima volta che Manning sarebbe entrato in contatto con WikiLeaks già nel novembre 2009, poco dopo il suo arrivo in Iraq, iniziando a fornire materiale classificato all’organizzazione fondata da Julian Assange anche dopo aver letto un rapporto della CIA nel quale si diceva che i “nemici degli Stati Uniti” potevano trarre vantaggio dall’attività di WikiLeaks.

Queste accuse contrastano con quanto sostenuto dalla difesa, cioè che Manning avrebbe selezionato con cura i documenti da pubblicare in rete, così da non creare situazioni di rischio per i soldati americani all’estero, e che la collaborazione con WikiLeaks sarebbe iniziata solo nel gennaio del 2010, qualche settimana dopo la morte in Iraq di una famiglia innocente, causata da un convoglio americano, che determinò l’affiorare nel giovane analista di un “senso di obbligo morale” per rivelare la realtà sul campo in Iraq.

Morrow, infine, ha ribadito che i documenti pubblicati da WikiLeaks sono stati esaminati dai vertici di Al-Qaeda, tra cui lo stesso Osama bin Laden, il quale era in possesso di una copia di essi in formato digitale. Questa affermazione sarebbe basata sui rilevamenti fatti dai componenti del commando americano che giustiziò il leader di Al-Qaeda in Pakistan nel 2011, alcuni dei quali dovrebbero testimoniare al processo contro Manning senza rivelare la propria identità e senza essere controinterrogati dalla difesa.

Oltre a ciò, molte altre decisioni prese dal giudice Lind durante le udienze preliminari confermano come la corte marziale di Bradley Manning sia ben lontana dal rappresentare un procedimento nel quale i diritti costituzionali dell’imputato vengono garantiti. Secondo il Center for Constitutional Rights, ad esempio, le udienze tenute prima dell’apertura del processo vero e proprio “sono state caratterizzate da misure più restrittive di quelle previste nei tribunali militari di Guantanamo”, mentre delle decine di migliaia di documenti presentati in relazione al caso Manning solo una minima parte sono stati resi pubblici o consegnati alla difesa.

Nell’aula di Fort Meade, inoltre, il governo ha allestito meno di venti posti per il pubblico e ha distribuito appena una decina di accrediti alla stampa. La gran parte dei giornali, perciò, baserà i propri resoconti del processo sui comunicati ufficiali. Un simile livello di segretezza testimonia delle inquietudini del governo e dei militari USA per un procedimento profondamente anti-democratico, nonché i timori per una possibile discussione pubblica dei crimini americani rivelati eroicamente da Bradley Manning.

Queste violazioni dei diritti di Manning si aggiungono oltretutto al trattamento a lui riservato fin dall’arresto in Iraq nel maggio del 2010. Dopo il trasferimento in Kuwait, Manning venne alla fine riportato in patria, rinchiuso in una cella presso una base dei Marines di Quantico, in Virginia, e qui sottoposto a trattamenti a dir poco degradanti e definiti come torture dalle stesse Nazioni Unite.

Le tendenze sempre più repressive di Washington nei confronti dei cosiddetti “whistleblower” come Manning è confermata d’altra parte dal numero record di procedimenti penali aperti dal governo a partire dal 2009 contro propri dipendenti. Allo stesso modo, è ormai chiaro come a fare le spese di questa offensiva contro la diffusione di notizie che riguardano la condotta del governo siano ormai anche giornali e siti web.

Oltre al tentativo di perseguire Assange e WikiLeaks tramite il processo a Manning e grazie alla collaborazione dei governi di Svezia e Gran Bretagna, proprio nelle scorse settimane è emerso che l’amministrazione Obama ha ottenuto in maniera segreta e illegale e-mail personali e registrazioni telefoniche di reporter dell’Associated Press e di Fox News nell’ambito di indagini su fughe di notizie dall’interno del governo.

Con il processo a Fort Meade che dovrebbe durare almeno tre mesi, nella giornata di martedì sono apparsi in aula alcuni testimoni dell’accusa, tra cui due analisti informatici dell’esercito che hanno esaminato i supporti elettronici utilizzati da Manning, trovando file creati nel novembre 2009 con informazioni per contattare Wikileaks, e Adrian Lamo, l’ex hacker che ha denunciato lo stesso Manning alle autorità dopo averlo conosciuto in una chat on-line.

Per quanto riguarda la sorte di Bradley Manning, in ogni caso, come ha scritto lunedì Julian Assange in un intervento sull’inizio della corte marziale pubblicato dal sito di WikiLeaks, “nessuno crede seriamente in un esito positivo”, visto che già “le udienze preliminari hanno metodicamente eliminato ogni incertezza, decretando un veto preventivo ad ogni strumento nelle mani della difesa”.

In riferimento all’impossibilità di Manning di citare le proprie intenzioni a discolpa delle sue azioni e al divieto di presentare testimoni o documenti che dimostrino come la pubblicazione dei documenti riservati non abbia provocato alcun danno, Assange propone poi un parallelo con un ipotetico processo per omicidio, nel quale le misure imposte dal tribunale militare di Fort Meade corrisponderebbero all’impossibilità di fare appello alla legittima difesa o, ancora più assurdamente, di dimostrare che la presunta vittima dell’imputato è in realtà ancora viva.

Quando comunicare con la stampa significa “favorire il nemico”, conclude Assange, è la stessa circolazione pubblica delle informazioni a diventare un atto criminale. Per questo motivo, “non è tanto Bradley Manning ad essere alla sbarra, poiché il suo processo si è chiuso da tempo… bensì gli stessi Stati Uniti d’America”, ovvero “un esercito i cui crimini sono stati smascherati e un governo che opera nella segretezza ed è in guerra con il proprio popolo.”