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Il lato oscuro dei valori non negoziabili

di Alessandro Giuli - 09/06/2013


Clément, l’antifà che indossava gli stessi abiti dei suoi assassini

Prima di tutto loro sono skinheads, oppure rude boys o anche hard mods, poi anche il resto. Questo “resto” a volte si tinge di politica e diventa puro combustibile rovesciato sopra i nervi di una sottocultura che nasce già di suo esulcerata e fiera. Può essere questo lo schema per comprendere l’infausto omicidio del giovanissimo bretone Clément Méric, a Parigi, vittima disgraziata di una rissa fra consanguinei politicizzati, tra antifà e nationalistes in boots e Ben Sherman. Il mariage pour tous c’entra e non c’entra, ma rischia di essere un ultimo cazzotto, perfino strumentale, su quel maledetto corpo a corpo parigino.
Bisogna fare un lungo passo indietro, “one step behind”, tanto per giocare con la canzone simbolo del gruppo Ska britannico che vittime e carnefici francesi ascoltavano con simmetrico amore fra gli amici delle rispettive tribù (sono i Madness di “One step beyond!”, fa’ un passo avanti).

Bisogna andare a Londra alla fine dei Sessanta del secolo scorso e scoprire che non c’erano soltanto i punk o i Beatles. In quegli anni l’Inghilterra andava velocissima e nelle periferie metropolitane i ragazzi della working class cominciavano ad avere i soldi per costruirsi un universo parallelo fatto di codici sottoculturali: alcol e droghe rapide come le purple hearts, cioè anfetamine e barbiturici mescolati; scooter levigatissimi (Lambretta o Vespa) e super accessoriati per sfrecciare sul lungomare di Brighton nel fine settimana; musica a volontà germogliata dal Rhythm’n’Blues e dal Northern Soul dei rude boys stanziati nei ghetti neri contigui alle case a schiera del proletariato bianco, ma declinata spaccando chitarre sugli amplificatori come facevano Pete Townshend e i suoi The Who urlando orgoglio e disgusto titanico: “I hope I die before I get old” (“My Generation”). Eccoli, questi erano i mods, abbreviazione che sta per modernists, con il loro parka verde a coprire giacca e pantaloni stretti a tubo, polo Fred Perry (dal nome del gran tennista), mocassini ai piedi, capelli ben pettinati e tanta rabbia in cerca di sfogo contro le tribù rivali dei rockers, gli americaneggianti dell’epoca la cui musica nasceva comunque dallo stesso mainstream giamaicano trapiantato in Gran Bretagna. Altro tratto caratteristico delle bande giovanili nate nei Sessanta, e decisivo per comprenderne le attuali sopravvivenze: un patriottismo da estremisti della Union Jack combinato con un fortissimo istinto identitario da classe inferiore. L’intensità delle risse tribali dell’epoca sarebbe stata immortalata molti anni dopo nel film “Quadrophenia”, voluto dagli Who nel 1979 per celebrare uno dei tanti revival modernisti. Allora gli skinheads erano già belli e nati, cresciuti come una filiazione dei mods. La loro genealogia estetica si può sintetizzare così: modernisti duri (hard mods) dai capelli sempre più corti per non farsi acciuffare dalle mani dei bobbies durante i tumulti, il colletto delle camicie che si restringe per lo stesso motivo (così nasce la fortuna della Ben Sherman trattenuta da sottili bretelle rosse) ovvero, nel caso del bomber, viene direttamente eliminato, pantaloni Sta-Prest (acronimo dall’inglese “stay pressed”: stare stirato), scarpe operaie con o senza rinforzo (Doctor Martens), per l’inverno un giaccone con le toppe di pelle uguale a quello indossato dai carcerati; simboli totemici: i tatuaggi più varii con una predilezione per la ragnatela su uno dei gomiti; luoghi di ritrovo: pub e curve degli stadi di calcio. Anche la musica s’indurisce, nasce l’Oi! (che sta per “ehi tu!” nel dialetto cockney dell’East End) e s’affermano balli più scomposti (in pratica spallate belluine: loro lo chiamano “pogare”). Questo è più o meno ciò che si deve sapere quando si parla di skins. Dopodiché arriva la politica a trasformarli: i tafferugli con i pachistani londinesi figli della prima grossa ondata migratoria sono lo spartiacque generazionale, i fratelli si separano in sciovinisti e no (dagli originals agli sharp: skinheads against racial prejudice), poi più a sinistra spunteranno i redskins. Un aspetto interessante delle così dette sottoculture è che la loro consistenza somiglia a quella inestirpabile del folclore e delle tradizioni popolari. Questo ambiguo pregio delle plebi fa sì che determinate tendenze, ormai non più modaiole come allora, siano sopravvissute tranquillamente fino all’èra di Twitter: stessa musica, stesse movenze, stesse rivalità.

Difficilissimo distinguerne la colorazione politica, se non per spille e toppe cucite sui bomber. Facile, invece, che la loro natura orgogliosa e gruppettara diventi una riserva di manovalanza per cattivi maestri. Ma quando domandate se siano fascisti o comunisti o chissà che, vi diranno: prima di tutto sono uno skinhead, poi vediamo che altro. Ve lo diranno a Londra canticchiando i Cockney Rejects, a Barcellona intonando “Trabajo duro”, a Parigi urlando “Dans la rueee” (canzone militante dei primi Novanta), e in Italia idem: dai Klasse Kriminale di Savona ai Verde-Bianco-Rosso di Aosta, dai Nabat di Bologna alla rossissima Banda Bassotti romana. Esempio parlante: molti anni fa, in una Roma nella quale per comprare una Fred Perry decente dovevi emigrare a Carnaby Street, circolava uno skin marsigliese di una certa notorietà, già fotografato in una rivista per teste rasate (confezionata in una questura, si sarebbe poi scoperto), forse latitante. Era anche pugile, aveva il tricolore francese tatuato sul collo, passava per fascio ma, potendo scegliere tra la palestra preferita dai pugilatori neri (l’Indomita di via Merulana) e quella della bassa società capitolina (l’Audace, in una catacomba vicina al Colosseo, oggi depositaria di un marchio infighettito), lui s’era scelto quest’ultima. Non parlava mai, amava le docce fredde con il pavimento bucato e le strisce di sangue (provocate dallo sparring spesso eccessivo) mai fatte pulire dall’istruttore corpulento e manesco. Era uno skin fatto e finito, oggi potrebbe essere il padre un po’ agé di Clément, il 19enne ammalato che ha finito i suoi giorni dopo aver fatto a botte con alcuni suoi coetanei in un negozio domestico dove tutti andavano a cercare le stesse Fred Perry. Lui era gracile ma frequentava gli estremisti antifà, roba muscolare, e non so se sarebbe contento di passare come un qualunque pacifista devoto al mariage pour tous: prima di tutto voleva essere un rude boy. Come i suoi assassini.