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Per chi è la domenica?

di Francesco Lamendola - 08/07/2013


 


 

Per chi è la domenica? Una società secolarizzata, edonista e utilitarista, come lo è la nostra, formulerebbe diversamente la domanda; chiederebbe: «A che cosa serve la domenica?» (con la lettera minuscola); oppure: «Di chi è la domenica? A chi appartiene?».

Perché, nella società moderna, le cose devono servire a uno scopo - possibilmente pratico ed economico -, devono fruttare qualcosa a qualcuno, devono diventare fonte di profitto;  e, inoltre, devono essere per forza di qualcuno, le cose e le persone; e, fra le cose, sono compresi anche i beni immateriali, anche gli affetti, anche i valori.

La gratuità delle cose, degli atti, dei sentimenti, stenta a farsi strada nella giungla della competizione quotidiana; tende, semmai, a venire soffocata e cancellata; per capire come questo sia sbagliato, come sia disumanizzante, bisognerebbe compiere una sorta di rivoluzione copernicana della propria prospettiva interiore e ritrovare un po’ della saggezza di vita dei nostri nonni, che non aveva nulla di astratto e non veniva loro dai libri o dall’università.

La scansione del tempo, all’interno del mese, è, nella cultura occidentale, quella settimanale, di derivazione biblica (e quindi ebraica): sei giorni è durata la creazione e, nel settimo giorno, Dio si è “riposato”, ossia si è compiaciuto della bellezza e della bontà della sua opera. Per la nostra cultura, la commemorazione di quel “settimo giorno” ha luogo alla domenica, perché la domenica è il giorno della resurrezione di Gesù Cristo (mentre per gi Ebrei rimane il sabato).

La Rivoluzione francese ha provato a sradicare la settimana dal calendario (così come ha provato a sradicare i mesi, quali noi li conosciamo fin dal Medioevo), introducendo le decadi e ponendo il decimo giorno quale giorno festivo, da celebrare nella ricorrenza di un “santo laico”; tale tentativo, passato alla storia come “scristianizzazione”, ha avuto vita breve, anche se è stato accompagnato da feroci violenze e dalla persecuzione e dal martirio di migliaia di sacerdoti, frati e suore. Era stato anche un modo per aumentare la produttività, perché un giorno festivo ogni dieci incide di meno di un giorno festivo ogni sette: accanto ai diritti dell’uomo e del cittadino, gli scristianizzatori avevano sempre un occhio rivolto alla produzione.

La domenica, dunque, si è conservata fino ad oggi come un retaggio della tradizione cristiana, come si sono conservati i capitelli religiosi ai crocicchi, il suono delle campane,  gli stessi sacramenti a cominciare dal battesimo (ma ci sono delle “associazioni per lo sbattezzo” che rilasciano appositi diplomi dell’avvenuta liberazione da esso), però sempre più svuotata del suo contenuto originario e sempre più ridotta al ruolo di festa laica.

Apparentemente, i conti tornano. La domenica non è più il giorno del Signore, ma è diventata il giorno dell’uomo: in fondo, è la logica conseguenza del processo storico avviatosi con l’avvento dell’Umanesimo, più di sei secoli fa. Però, a ben guardare, i conti non tornano nemmeno adesso: perché non ci vuol molto ad accorgersi che essa non è la festa dell’uomo, ma del consumo e, dunque, ancora dell’economia.

Se poi, invece di domandarci «di chi è», proviamo a domandarci «per chi è» (o per che cosa), si vedrà altrettanto facilmente che non è per l’uomo; che non è per il suo “riposo” e nemmeno, ancor più laicamente, per il suo “divertimento”; che egli, in quel giorno, crede e si illude di riposarsi e di divertirsi, mentre pone le premesse per un ulteriore affaticamento, materiale e più ancora spirituale: affaticamento che andrà a sommarsi a quello di un lavoro fatto senza gioia, del quale è disamorato e cui si sottopone, come una maledizione, unicamente per necessità.

Per comprende come dovrebbero stare le cose, se fossero impostate secondo verità e giustizia, bisogna dunque fare un ulteriore passo indietro, e domandarsi che cosa sia il lavoro, che cosa il tempo profano e che cosa, per conseguenza, il tempo sacro, di cui la domenica è l’espressione “ordinaria” (mentre il Natale, la Pasqua e le altre festività solenni sono quella “straordinaria”).

Il lavoro non è, o non dovrebbe essere, unicamente un fatto economico, una transazione di natura materiale, in cui si producono beni e servizi in cambio di denaro; sarebbe come dire che la società è fatta della semplice somma aritmetica degli individui, ciascuno dei quali mira unicamente ai propri scopi e alla realizzazione dei propri bisogni (ed è proprio il tipo di società che abbiamo costruita: una società che non sta in piedi e che minaccia di sfarinarsi ad ogni istante).

Il lavoro è molto più di questo: è una necessità, certo - e, talvolta, una dura necessità -, ma è anche un libero atto dell’uomo, nel quale egli trova e realizza la propria dignità; è intelligenza, volontà, coscienza e responsabilità; è esso che, nella maggior parte dei casi, trasforma l’individuo in persona. Solo pochi soggetti eccezionali possono riuscirvi battendo altre strade; ma dalla necessità e dalla dignità del lavoro nessuno può prescindere, neanche i santi.

Il livello di giustizia di una società si misura dall’attenzione e dal rispetto che essa porta alla dignità del lavoro (e, naturalmente, dei lavoratori che hanno raggiunto il diritto al riposo definitivo, cioè i pensionati), vedendo in esso non solo il mezzo per produrre beni e servizi e per guadagnare denaro, ma anche per realizzare la piena umanità dei suoi membri e di se stessa. Dove il lavoro diventa sfruttamento, siamo in presenza di una società ingiusta; dove diventa alienazione, siamo in presenza di una società confusa, contraddittoria, tendenzialmente folle.

È chiaro che l’avvento della tecnica ha creato nuovi problemi, nello stesso tempo in cui sembrava risolverne degli altri. Solo una concezione bassamente materialista dell’uomo può aver visto nella tecnica lo strumento per redimere l’uomo dal lavoro, facendo delle macchine i nuovi schiavi di un processo produttivo ormai fine a se stesso. La tecnica non redime niente e nessuno, anche perché non c’è niente da redimere; o meglio, non l’uomo deve redimersi dal lavoro, ma egli deve redimere se stesso ANCHE attraverso il lavoro.

Il lavoro non è un nemico; solo il lavoro che degenera in sfruttamento e alienazione lo è. Pertanto l’uomo non deve combattere contro il lavoro; e, se si è illuso di potersi liberare per mezzo delle macchine, è stato veramente ingenuo: le macchine sono a servizio della produzione, non dell’uomo; non che aiutarlo, esse gli rubano il posto di lavoro e lo costringono a turni ancora più faticosi di prima - non più faticosi in senso fisico, ma in senso spirituale. L’operaio che smonta dal suo turno alla catena di montaggio è fisicamente meno stanco del contadino di una volta, che terminava di arare il campo con l’aiuto del bue, ma è più stanco di lui in senso spirituale: più svuotato, più amareggiato, più deluso, più triste.

Le macchine, dunque, da supposto strumento di liberazione, si sono rivelate strumento di una nuova e più raffinata oppressione; e l’avvento dell’informatica sta rafforzando tale oppressione, perché abolisce, anche materialmente, la separazione fra tempo lavorativo e tempo libero e fra luogo di lavoro e luogo extra-lavorativo. L’impiegato che deve controllare sul computer le ultime direttive del proprio superiore, perché esse non gli vengono più comunicate a voce o per iscritto, si trova ad essere, in un certo senso, in servizio effettivo permanente. Siamo ormai nella “casa” trasparente del Grande Fratello, esposti a un controllo capillare e incessante.

Certo, vi sono delle potenzialità positive sia nelle macchine, sia nell’informatica: ma come aspettarsi che una società ingiusta, che vede il lavoro come una occasione di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e quindi come una maledizione, ne faccia un uso migliore? Le macchine e i computer obbediscono alla logica del sistema nel quale sono stati pensati, realizzati ed impiegati: non sono schiavi “intelligenti” (per fortuna), ma stupidi: servono il progetto dei loro padroni, cioè di coloro i quali si sono proposti di esercitare un maggior potere e di ricavare un maggior guadagno dal loro impiego e dalla loro diffusione.

Il giorno non-lavorativo, in quest’ottica, è solo in apparenza un giorno diverso dagli altri; non è più un giorno “sacro”, ma solo un giorno profano di altro tipo. Non serve al riposo, ma al divertimento: cattivo surrogato di un autentico bisogno dell’uomo lavoratore. Col divertimento si cerca di stordirsi (ed ecco lo “sballo”, le discoteche, l’abuso di superalcolici, le droghe, le corse folli in automobile del sabato sera). Ma nemmeno il vero divertimento è concesso, se si parte da tali presupposti: perché lo stordimento e l’abbrutimento del lavoratore esausto non corrisponde ad alcun sollievo per lo spirito, ma, al contrario, ad una ulteriore sollecitazione del sistema nervoso, ad una ulteriore esasperazione delle tensioni, degli appetiti, delle ”esigenze” (che sono la versione artificiale di una cosa naturale: il bisogno).

L’uomo moderno cerca di risarcirsi da tanto squallore puntando sul narcisismo, assunto in dosi sempre più massicce: uomini e donne dedicano moltissimo tempo, moltissime energie e moltissimo denaro a curare il proprio corpo, ma non per stare bene, semplicemente per apparire e per sembrare “belli”, nel senso di erotici: Fatica in gran parte sprecata: come può essere bella ed erotica una persona che non si vuol bene per davvero; che non è capace di riposare; che non ama, anzi detesta il proprio lavoro; che non ha tempo per le cose che accrescerebbero la sua umanità, ma che in parte è costretta alla catena di un meccanismo disumano, e in parte offre il collo ed i polsi a tale catena, in maniera volontaria e perfino entusiasta?

Ma torniamo alla domenica. Se essa è nata dal duplice bisogno di lodare Dio e di dare riposo all’uomo, bisogna dire che ha tradito entrambe le finalità: non loda il Signore, ma il consumismo (nei nuovi templi pagani, che sono i centri commerciali) e non offre riposo, ma una dose ulteriore di fatica, di stress e di dissipazione delle energie nervose, che si traduce in un aggravio della stanchezza spirituale.

Per arrivare a capire questo, però, bisogna aver chiaro chi sia l’uomo: se si pensa che egli sia solo una somma di cellule , di molecole e di agenti chimici, non lo si può capire. Si giudica solo in base ai dati materiali: tante ore di sonno, tante calorie, tante vitamine, e il gioco è fatto, il benessere è assicurato. E invece no. La salute e il benessere non sono solo quelli del corpo; sono, prima di tutto, delle realtà spirituali, cioè dell’anima: se l’anima non sta bene, nemmeno il fisico starà bene, anche se gli somministriamo sufficienti ore di sonno e una dose adeguata di calorie, vitamine, proteine e così via. Se le radici sono avvelenate, l’albero non può dare frutti sani.

Un discorso speciale va fatto, poi, per la famiglia. L’uomo non vive solo e la sua vocazione non è quella della solitudine, a meno che sia una vocazione trascendente e contemplativa. Inserito nel mondo, l’uomo ha bisogno dei suoi simili; ha bisogno di un compagno o di una compagna di vita; sente la gioia di mettere al mondo dei figli. La santità della famiglia nasce da qui: essa è un microcosmo, nel quale il bisogno d’amore, di verità e di bontà trova la sua espressione sociale più immediata e più  concreta.

Anche qui, si è passati da un eccesso all’altro: prima, la persona non sposata sembrava colpita da una sorta di maledizione; ora, pare che la maledizione sia quella di essere sposati, di credere in un legame durevole anziché in uno effimero, di desiderare dei figli. È il frutto di un grave fraintendimento del concetto di libertà, intesa sempre più come libertà negativa, da qualche cosa e contro qualche cosa, e non in senso positivo, ossia libertà per fare o per essere qualche cosa.

La famiglia, dunque, nel giorno domenicale si ricompone: è l’unica occasione perché i suoi membri possano dedicarsi al piacere di stare insieme. Ma se la famiglia è malata, allora è chiaro che non si vede l’ora di fuggire da essa. Resta il fatto che costringere i lavoratori e le lavoratrici a disertare la propria famiglia nel giorno della domenica, per andare a lavorare come tutti gli altri giorni (in cambio del lunedì libero: ma il lunedì, il coniuge o i figli saranno al lavoro o a scuola), significa perpetrare una grave violenza ai danni della famiglia, cioè della umanità delle persone.

L’umanità delle persone si rivela in qualunque atto della vita, ma trova il suo coronamento in alcuni atti e situazioni privilegiati: e il tempo della famiglia è uno di essi. Non è possibile che un uomo sia buono, che sia un buon lavoratore, un buon amico, un buon cittadino, se non sa essere, prima di tutto, un buon marito e un buon padre; né che una donna sia buona, se non sa essere una buona moglie e una buona madre.

La vita tende alla santificazione, cioè al perfezionamento morale e spirituale: lavoro, riposo e divertimento sono funzionali a questo progetto, a questa vocazione. Trasformare il tempo dell’ascolto, della preghiera, del ringraziamento, in un tempo puramente economico, è un delitto; trasformare il tempo del riposo, della famiglia, degli affetti, in un tempo del consumismo sfrenato, è un attentato alla umanità dell’uomo.

Per divenire persona, l’uomo deve ritrovarsi, deve riscoprire la propria parte migliore. Ma quando mai potrà farlo, se si vede sottratta ogni occasione di silenzio, di riflessione, di armonia e di pace?