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Ripensare l’uomo della postmodernità

di Umberto Bianchi - 08/07/2013


Vi sarà capitato di fermarvi davanti ad una foresta, di quelle veramente massicce, fitte, dagli alberi ad alto fusto. Una di quelle che, solo a guardarla ti ci senti già perduto, travolto da un insolito e sconosciuto timore. Timore di quei bui accessi, dentro ai quali può nascondersi chissà chi o che. Ma poi vedrete che a quel timore andrà man mano sostituendosi una strana attrazione, una irrefrenabile voglia di entrare a far parte di quella verde oscurità, di salire sulla cima di quegli alberi, sino ad immedesimarsi con quel verde oceano… E’ una sensazione arcana e misteriosa, che ci può cogliere ogni qualvolta ci si soffermi (come è recentemente accaduto a chi scrive, in quel del Brasile) a contemplare una foresta tropicale. Quel manto verde scuro, si fa così ieratico portatore di un richiamo senza tempo, che ci pone una domanda che, dall’atemporalità del suo porsi ci rilancia nel vorticoso succedersi delle umane vicissitudini.

Da dove viene l’uomo e qual è il suo ruolo oggi? Una domanda che, specialmente alla luce dell’attuale contesto epocale riveste una sua particolare importanza. Il tema delle origini e della possibilità di un loro almeno parziale disvelamento, dovrebbe costituire il propellente ed il viatico in grado di dare un giusto senso ed indirizzo al futuro. A voler proprio guardare le cose alla lontana, sono suppergiù due secoli che due scuole di pensiero si contendono, a tal proposito, il proscenio. Da una parte gli inveterati fautori di un modello meccanicistico-casualistico che vede l’apparire delle varie specie viventi, uomo incluso, come il frutto di un cieco meccanismo di adattamento e selezione, proteso ad un continuo ed indefinito miglioramento. Qui l’uomo è visto come frutto dell’esaltante percorso evolutivo, che ha portato d’improvviso l’umile scimmietta a trasformarsi nell’ invitto dominatore dell’orbe terracqueo, riconfermando in tal modo il principio che “gli ultimi saranno i primi”, i poveri e i diseredati (le scimmiette del nostro caso, sic!) si trasformeranno in padroni, nel nome di una nemesi storica che partendo dai primordi dell’uomo, si vorrebbe far arrivare alla lotta di classe. Dall’altra parte invece, si continua a perseguire una interpretazione letteralista dei Libri Sacri, frammischiata ad una quanto mai confusa e rabberciata presunzione antropocentrica, in grazia della quale l’uomo non può discendere da una bestiaccia quale la scimmia, anzi, a dir di qualcuno, le povere bestiole altri non sarebbero che la degenerata espressione vivente di alcuni individui di bassa lega e l’uomo sarebbe il diretto frutto della divina creazione con acqua e argilla, così come prospettato da quei Sacri Testi.

Diciamo intanto che la scienza ufficiale, sfrondate le semplificazioni del primo evoluzionismo, che vedeva l’uomo nel ruolo di diretto discendente di primati quali scimpanzé e simili, in base a tutta una serie di scoperte e di ritrovamenti, ha cominciato a vedere le cose pressappoco in questo modo: svariati milioni di anni fa in un’area definita “antropofiletica”, comprendente una zona che va dall’Africa Orientale all’India Occidentale, allora ricoperta da foreste tropicali, vivevano delle strane ed arcaiche scimmiette chiamate”proconsul”, “oreopitechi” e “ramapitechi”, la cui tendenza a permanere erette sulle zampe posteriori era più marcata rispetto ad altre, similari specie. Ora, a causa di quel sommovimento geologico che avrebbe determinato la nascita della “Rift Valley” (un profondo avvallamento sormontato da montagne, che va dall’Etiopia al Kenya, sic!), si sarebbero determinate due diverse aree climatiche: da una parte, verso occidente sarebbe rimasta la foresta tropicale, dall’altra, verso oriente, si sarebbe formata una sconfinata savana. Oltre ad una differente caratterizzazione climatica e paesaggistica, le due aree avrebbero conosciuto lo sviluppo differenziato di varie specie animali, tra cui le nostre scimmiette. La scomparsa delle fitte foreste tropicali avrebbe, difatti, favorito l’andatura bipede di queste ultime, atta alla più facile reperibilità di cibo, provocandone una graduale, ma significativa, mutazione.

Il lungo cammino verso l’Uomo, così come lo conosciamo oggi, sarebbe poi passato attraverso l’Australopiteco e via via attraverso una grande varietà di pre ominidi, sino ai nostri più somiglianti antenati ominidi Pre Sapiens, gli Homo Abilis, gli Homo Erectus, i Cro Magnon, i Neanderthal e via discorrendo, sino all’attuale Sapiens Sapiens. Un cammino lungo, dunque, tra l’altro costellato da una miriade di specie e sottospecie, con una tale sequenza di involuzioni, estinzioni, apparizioni e migrazioni, da far ripensare profondamente l’intero schema tassonomico che, sinora, l’aveva fatta da padrone. Un ripensamento che, ad onor del vero, riguarda tutte le scienze umane e che, nel contesto dell’antropologia, ha i propri natali nel grande contrasto emerso alla fine del 19° secolo quando, accanto all’indirizzo di pensiero evoluzionista rappresentato dai Darwin, dai Tylor, dai Frazer e dai Morgan, tutto imperniato su un modello di sviluppo eguale per tutte le latitudini umane,( sia che questo riguardasse l’evoluzione fisica della specie umana (Darwin), che quella culturale (Tylor), che quella religiosa (Frazer), che quella tecnologica (Morgan) ), si affiancò un indirizzo che, non credendo alla simultaneità dello sviluppo umano, ne teorizzò piuttosto la diffusione da un determinato luogo o ambito etnico che dir si voglia al mondo intero, il “diffusionismo” appunto.

A cominciare furono gli studi dei Bopp, dei fratelli Grimm, sino ad arrivare ai Boas, agli Smith, ai Perry ed al funzionalismo di Malinowski. Una crisi che prende le mosse ed acquisice forza proprio nell’ultimo tratto del 19° secolo, con la prima grande crisi del Positivismo ottocentesco, di stampo evoluzionista. Gli ulteriori decenni del secolo passato, sino ad oggi, a proposito della ricerca sulle origini dell’uomo, vanno arricchendosi di una impressionante serie di scoperte che spaziano sia dalla più classica ricerca  paleo-antropologica, che dai progressi della ricerca spaziale applicata alla climatologia, dagli spettacolari progressi della genetica, sino ad arrivare alle ultime novità nella ricerca storica ed archeologica.

Tutte queste branche del sapere e le loro relative scoperte ed applicazioni, portano tutte irrevocabilmente in direzione di una inarrestabile retrodatazione della storia delle origini dell’uomo e del successivo sviluppo della sua civiltà. Oggi i resti di Australopithecus Afarensis datano a 4,5 milioni di anni fa mentre, come abbiamo già visto, la discendenza diretta dell’uomo dalle scimmie antropomorfe viene messa in discussione, in favore di una comune discendenza da un ramo comune di Primati (le cosiddette scimmie “Catarrine”), le quali avrebbero trovato le proprie origini in specie insettivore semi-arboricole, quali il ”Purgatorius” risalenti addirittura alla fine del Mesozoico (all’incirca 70 milioni di anni fa, in coabitazione con i Dinosauri, sic!) ed ancor oggi rappresentate dalle Tupaie, e che avrebbero via via generato le Proscimmie allora rappresentate dagli “Adapis” (progenitori degli attuali Lemuri), poi improvvisamente sostituite, all’incirca 40 milioni di anni fa, dalle due grandi famiglie di Primati: le già citate scimmie Catarrine, cioè “dal naso stretto” e le Platirrine, “dal naso largo”.

Apparse ambedue nell’emisfero nord del mondo, le due specie di Primati sarebbero poi  migrate verso il sud del mondo, dando luogo a due diverse vicende. Mentre le Platirrine, si sarebbero stanziate in America latina, dando vita a tutte le specie tuttora viventi di Primati arboricoli, le Catarrine sarebbero emigrate in Asia, da cui successivamente avrebbero mosso verso l’Africa, dando luogo ai Driopitecidi (tra cui il famoso Proconsul), un’altra strana specie di scimmiette, ad ora considerate le progenitrici delle scimmie antropomorfe e dell’uomo, mentre il famoso Ramapiteco sarebbe stato ricollocato su una linea evolutiva differente dal philum diretto con l’uomo. Stesso destino sarebbe toccato al famoso “Uomo di Neanderthal”, sino a poco tempo fa considerato un rozzo progenitore del Sapiens ed invece ora ritenuto il frutto di un ramo evolutivo parallelo a quello dei Sapiens, animato da una cultura di una certa complessità, poi estintosi senza lasciar tracce genetiche riscontrabili. Il tutto, all’insegna di due fondamentali fattori precedentemente citati: il primo, desumibile dalle scoperte di cui abbiamo trattato, ci delinea una comune area di provenienza geografica (almeno per quanto riguarda gli inizi) della specie umana, la cosiddetta “area antropofiletica”, collocabile tra Africa Sud Orientale e Sub continente indiano. Il secondo, rimarca la discontinuità del processo evolutivo, il cui “philum” è sempre più concepito come un procedere “a cespuglio”, in un continuo alternarsi di evoluzioni, regressi ed improvvise estinzioni, anzichè secondo un moto di unilineare progresso.

Le stesse ricerche nel campo della genetica dei vari Cavalli-Sforza, accanto alla mappatura del genoma, ci stanno aiutando a capire la dinamica dei cambiamenti e degli spostamenti di popolazioni e razze. Allo stesso modo, le recenti scoperte archeologiche del complesso templare di Gobekli Tepe in Turchia, datato a 9.600 anni prima di Cristo e la misteriosa piramide subacquea di Yonaguni in Giappone, (tanto per citare solo due tra gli esempi più eclatanti, sic!) contribuiscono a retrodatare di molto sia la nascita della civiltà che, infine, quella della specie umana stessa.

Un ulteriore ed inaspettato contributo alla questione, lo darà la filosofia del Novecento, anzitutto per bocca di Heidegger, con la sua questione della “Lichtung” o “illuminazione” dell’Essere dinnanzi all’uomo. Per il grande pensatore tedesco, difatti, l’uomo è “gettato” nella grande radura dell’Essere di cui prende coscienza, come a dire che senza l’umana coscienza l’Essere non ha luogo, non s’illumina. Dunque tra l’uomo e l’Essere vi è un rapporto di misteriosa mutualità ed interdipendenza, che fa sì che ci si ponga la domanda su come tale illuminazione avvenga e da dove venga il fenomeno “uomo”.

Chiaramente, a porsi tale domanda non è il solo Heidegger.Diciamo però che il grande pensatore tedesco pone questa domanda alla luce della filosofia esistenziale (di cui è uno dei principali, se non il maggiore, tra gli esponenti). Non solo. Agli inizi del Novecento, un anatomista olandese, Louis Bolk, prendendo spunto dai suoi studi sull’anatomia dei Primati, elabora una teoria sulla “fetalizzazione” e sulla “neotenia”. In pratica, partendo dall’osservazione del comportamento del messicano “Axolotl”, (una varietà di salamandra che, in mancanza di iodio rimane allo stadio di girino, riuscendo anche a riprodursi), si arriva alla conclusione che l’uomo altri non sia che un essere rimasto allo stadio di immaturità, rispetto agli altri rappresentanti del regno animale.

Da queste osservazioni prendono spunto le successive elaborazioni teoriche di Arnold Gehlen, Helmuth Plessner, Max Scheler e Peter Sloterdjik. Nel primo è presente l’idea di “esonero”, quale opzione comportamentale che permette ad un essere come l’uomo una risposta agli stimoli dell’ambiente slegata dai condizionamenti di quest’ultimo, attraverso la “tecnica” intesa come possibilità di manomettere l’ambiente circostante. In Plessner è presente l’idea di uomo come essere “eccentrico/ex-centrico”, ovvero non incentrato sulla propria istintualità, come gli altri animali, mentre in Scheler l’uomo si fa “epochè/sospensione” poiché, in quanto essere in grado di negare, sospende il naturale scorrere del mondo. Ancor più intrigante, a questo punto, è l’analisi del filosofo tedesco contemporaneo Peter Sloterdjik. Partendo da “Lettera sull’Umanismo” di Heidegger, Sloterdijk sviluppa la sua idea sull’uomo quale prodotto, aperto ad ulteriori modificazioni, di meccanismi antropogenici.

Osservando come nella “Lettera sull’umanismo”  Heidegger, andando ben oltre la sua preferenza per la relazione tra l’Essere ed il Tempo, elabori, attraverso l’immagine del passaggio dall’ambiente al mondo, l’idea di una casa dell’essere, dell’esistenza intesa come abitare. Da qui l’idea di “sfera”, mutuato dal concetto platonico di “chora”, inteso quale incubatrice delle forme e dei comportamenti dell’agire animale ed umano. Attraverso ed all’interno di esse si sarebbe realizzato il lungo processo dell’ominazione, che avrebbe visto il succedersi alle modalità corporeo-animali, quelle simbolico-umane. A detta di Sloterdjik, la “Lichtung/Illuminazione” si sarebbe realizzata grazie all’azione combinata di quattro meccanismi “antropogenici”.

Per farla breve, le “sfere” nell’isolare l’essere umano da un ambiente ostile (meccanismo di insulizzazione), ne favoriscono l’ominazione con la conseguente capacità di poter usare gli arti in una maniera tale da poter modificare l’ambiente a piacimento (meccanismo di liberazione dai limiti del corporeo). Tali capacità vengono raffinate ed amplificate dalla prolungata infanzia e dalla persistente immaturità fisica del genere umano (meccanismo della neotenia) che, di tale apparente debolezza, finirà con il fare un punto di forza talmente soverchiante e tendenzialmente in grado di autodistruggerlo, da dover poi creare dei meccanismi di riequilibrio e protezione rappresentati dalle varie sovrastrutture culturali, religiose o mitiche che dir si voglia (meccanismo della trasposizione).

Da tutte queste analisi , incentrate sull’idea  dell’uomo quale essere carente rispetto agli altri appartenenti al mondo animale, traspare un percorso di riflessione “deviante”, rispetto ai dettami del classico scientismo positivista (che tuttora furoreggia nelle sue più adulterate versioni neodarwiniste). L’idea di uno strano essere dall’infanzia prolungata, la cui debolezza si fa punto di forza estremo, stravolge il paradigma evoluzionista incentrato sull’idea di un progressivo adattamento e miglioramento delle specie viventi rispetto agli stimoli ambientali. Ci si ritrova di nuovo dinnanzi ad una vicenda il cui inizio sembra allontanarsi nelle nebbie di un tempo senza fine. L’antenato, il progenitore comune, l’ “anello mancante”, sfuggono alla vista; quando sembrava di averli trovati, ecco che nuove scoperte rimettono il tutto in discussione, retrodatando ulteriormente il calendario.

Vi sono teorici come Michael Cremo e come Pino Sermonti che sostengono  invece la presenza umana sulla Terra, risalga a milioni di anni fa, addirittura antecedente a quella delle scimmie antropomorfe; ma chiaramente queste ed altre consimili teorie non sono supportate da alcuna prova e sono pertanto prive di fondamento scientifico. Diciamo pure che è l’intera scienza a necessitare di una radicale e profonda reinterpretazione, proprio perché la sua meccanicistica interpretazione finisce con il condurre a dei veri e propri vicoli ciechi, come in questo caso.

A venirci in aiuto, gli stimoli e le suggestioni offertici dai rappresentanti di quel pensiero vitalista che, a partire dal 19° secolo percorre l’occidente come un fiume carsico. Schopenauer in “Il mondo come volontà e rappresentazione” ci parla di un mondo animato da un’irrazionale volontà che, come un misterioso filo elettrico percorre l’intero Essere in tutte le sue manifestazioni, animate od inanimate che siano. Tutto è mosso da questa unica, gigantesca pulsione, alla base della quale sta un irrazionale iato verso la vita. Tale idea andrà poi ad incardinarsi nel pensiero di Nietzsche che, abbandonate le suggestioni metafisiche e consolatorie schopenaueriane mutuate dalle suggestioni del pensiero Indù (i Veda e le Upanishad in ispecial modo, sic!), darà al proprio pensiero un’impronta più marcatamente vitalista e volontarista dello stesso Schopenauer. L’idea di un mondo come Caos, all’interno del quale solo la volontà e la capacità di adattamento la fanno da padrone, la complessa relazione tra Essere ed Io, ma anche la inusitata capacità di sopportare e di vivere appieno l’irrefrenabile ciclo degli eventi che caratterizzano il Caos-Mondo, costituiscono le principali tracce che daranno forma e sostanza al pensiero vitalista degli anni a venire, da Dilthey a Simmel, da Bergson a Spengler, da Husserl a Von Uexkull, passando per Scheler, Heidegger ed altri ancora.

Il mondo è irrazionale ed insensata volontà e spinta alla vita ed all’autoaffermazione del Sé, ma non è assolutamente il meccanico e materialistico succedersi di eventi, unicamente regolato da un elementare istinto di sopravvivenza, successivamente interpretato e sviluppato in un volgare e smisurato appetito materiale. E qui viene in gioco l’interpretazione, anch’essa errata, che negli ultimi duemila anni è stato conferito al termine “materia”. La visione cosmologica che presiedeva il mondo antecedente alla riflessione filosofica di Platone, faceva della materia un tutt’uno con l’intero mondo di cui costituiva un insostituibile annesso, all’interno e sopra la quale scorrevano le vicende umane e divine. Gea ed Urano, Terra e Cielo, anche se successivamente sostituite dal più elaborato Pantheon olimpico, costituirono un elemento primario dello svolgersi dell’intero dramma cosmico. Ninfe, driadi, boschi sacri, divinità marine e fluviali, fanno del mondo e dei suoi elementi costitutivi cosa sacra, intoccabile. La stessa riflessione pre socratica, fa della combinazione degli elementi la base, l’a-priori del mondo; lo stesso Anassimandro fa dell’ “apeiron/infinito” la sacra sostanza che presiede all’ordine del mondo. Sarà la sintesi platonica volta a fare dell’ “Idea/Idèin-vedere”, la chiave di interpretazione e semplificazione della realtà, collocando la materia in una posizione subordinata, svilendone il ruolo. L’idea stessa di Demiurgo, quale mediatore ed ordinatore nel ruolo di dare corpo alle idee nell’informe mondo della materia, riconferma quanto qui sinora detto.

Ed allora, solo se saremo in grado di intepretare in una nuova chiave di lettura, al di là di certo dualismo, l’intera vicenda cosmica, allora arriveremo a capire o, quanto meno a dare un senso alla vicenda umana sin dal suo più lontano passato ad ora e, chissà, anche al suo futuro. Allora quel neotenico “puer aeternus”, tanto caro a certa parte di scienza del 20°secolo, non sarà più l’immagine di un fantascientifico scherzo di madre natura. Allora, tutte quelle strane scimmiette dagli impronunciabili nomi latini, non saranno più la malconcia parodia della razza umana. Allora capiremo che, forse, lo smarrimento del senso dell’Essere, di cui tanto ci parla Heidegger, è iniziata ben prima della riflessione platonica. Essa è probabilmente coeva all’uomo ed alla sua ominazione, determinata dal dono di quella Techne, con cui poter modificare la circostante realtà a proprio piacimento. Allora comprenderemo la nostalgia di un Paradiso Perduto, quel senso di “estasi/ec-stasis”, ricorrente un po’ ovunque nelle mitologie e nei credi religiosi di mezzo mondo. Essa è il ricordo del senso di immedesimazione con l’Essere intero, con quella Natura Naturans, all’interno della quale l’uomo (o i suoi presunti progenitori) viveva in un rapporto di stretta osmosi. Allora capiremo quel senso di smarrimento, ma anche di strana nostalgia, che ci prende ogni qualvolta sostiamo dinnanzi ad una foresta o ad un qualsiasi altro scenario di Madre Natura. Quel senso che ci dice che, laggiù nella foresta, abbiamo lasciato qualcosa di prezioso. Qualcosa che ci appartiene e che ora, giunti ad una fase tanto cruciale della nostra civiltà, sarebbe ora di recuperare.