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Finanza e politica nella complessità

di Lamberto Sacchetti - 31/08/2013

           I sistemi aperti in continua evoluzione, come la società umana, sono oggetto della scienza della complessità, o teoria del caos, che non è galileiana, non persegue spiegazioni e previsioni deterministiche, può al massimo ideare modelli, simulazioni grazie alla computeristica, o vaghe generalizzazioni. Nessun futuro è certo, la storia è sempre nuova. Nessun governo può garantire l'avvenire del Paese, neppure se affidato a “tecnici” in considerazione del peso raggiunto da economia e finanza, reputate scientificamente inquadrabili, laddove rientrano nella complessità intesa come determinismo totale.

            La storia, in particolare la moderna, mostra  che la problematicità del potere aumenta con il complessificarsi della società. Dopo la prima guerra mondiale il montare della lotta di classe fu all'origine delle dittature che ristabilirono l'ordine vietando anzitutto lo sciopero. Democrazia e libertà, vincendo, hanno moltiplicato attese, diritti, conflitti, questioni per chi governa. Lo sviluppo dell'economia ha dilatato  le disuguaglianze sociali e nazionali, abbassato i poteri pubblici, sancito l'egemonia della finanza.  Dal 1970 essa è la protagonista della globalizzazione: da quando Reagan, sostenuto da teorici peroranti un “benevolo distacco” da lei, convinti delle sue virtù autoregolative, per dare più ossigeno allo sviluppo lanciò la dottrina della deregulation (1). Con il risultato che la finanza, anziché a se stessa, ha posto un limite sempre più soffocante all'economia cresciuta di lavoro, risparmio, affidabilità.              

            Ma non poteva durare indefinitamente il sinergismo sviluppista degli indebitamenti con una finanza giunta al delirio creativo di offrire agli investitori, affamati d'interessi, titoli di debito “derivati” da altri titoli di debito, per un valore nominale stimato nel 2012 dieci volte superiore al PIL mondiale. La dismisura, la liquefazione d'ogni limite hanno precorso la crisi del sistema. Il tentativo di restaurare nella finanza controlli e regole mediante coordinamenti internazionali si ferma davanti alla sua incomprimibilità: nata dal diritto degli Stati, la finanza se n'è di fatto affrancata. Nemmeno un accordo europeo come “Basilea 3”, diretto a contenerla, funziona:  per territorio non le è sovrapponibile; giuridicamente le si presenta dimesso per la propria stessa oggettività, che non vincola nessuno, cerca solo di condizionare.  “La crisi ha mostrato i limiti dell'idea che l'autoregolamentazione o la disciplina di mercato siano sufficienti ad assicurare la stabilità dei sistemi finanziari. Mentre è importante ricordare sempre che il sistema finanziario è parte di un ambiente sociale economico e politico più complesso”(2).  Il discorso va alla complessità. Le nuove teorie economiche sono ormai consapevoli che l'economia in sé è pura astrazione. Esiste in concreto il fatto economico: fenomenico incrocio di serie causali molteplici, fisiche e psicologiche.  Componente psicologica cui, sul piano dei comportamenti collettivi,  neppure la “teoria dei giochi”(parente povera della cibernetica per il  proprio minimo successo applicativo), costruita modellizzando intenzioni, mosse, contromosse tipiche di confronti relazionali, fornisce uno strumento affidabile di conoscenza e previsione.

            A questa stregua viene fatto domandarsi quali mai conoscenze e logiche illuminano la finanza e i suoi mercati, dato che l'economia e la politica a loro si sottomettono o, quanto meno, s'industriano di coordinarsi.  La risposta viene proprio dal mondo della finanza, che ha tale un bisogno di previsioni da farle lautamente pagare e continuamente ascoltare agenzie e fior di specialisti. Il testo ove trovarla risale agli anni 90, scritto da George Soros, finanziere e filosofo, amico di Popper e della sua liberale “società aperta”, per promuovere  la quale attraverso fondazioni egli stanziò parte degli enormi lucri di borsa dovuti -ha narrato- al suo speciale fiuto speculativo (3).  Acuitogli -questo è il punto- dall'avere capito quanto insicure fossero le conoscenze della finanza, soggetta essa pure alla perdita delle certezze conseguita -come insegnato da Popper- al transito dalla “società chiusa”, statica e dogmatica, a quella “aperta”, destabilizzante, generatrice di storia e complessificazione; essendo non la certezza ma il dubbio a generare pensiero potenza e movimento.

            E' un libro-intervista in cui, meditando sul divario tra pensiero e realtà,  Soros ha spiegato perché nelle relazioni umane cresce, insieme con la complessità, il peso degli enunciati indimostrabili scientificamente. La natura delle nostre relazioni -egli dice- è “riflessiva”, nel senso di riflettersi tra loro e sui loro contesti. Il che vi rende inapplicabile il paradigma dei positivisti logici secondo cui la nozione di verità è legata alle due sole categorie del vero e del falso, escludendo come priva di senso quella degli enunciati non veri né falsi. Che, invece, sono proprio quelli da cui viene il cambiamento, poiché non rispecchiano il mondo bensì contribuiscono a formarlo. La stretta dicotomia vero/falso vale nelle scienze analitiche dei sistemi chiusi e assiomatici, quali matematica  e logica; vale nell'astratta metodologia scientifica. Non nelle scienze sociali, che, concernendo eventi riflessivi non passibili di prova sperimentale, sono empiriche, atte unicamente a costrutti ipotetici, al massimo probabilistici, ancorché capaci a loro volta di produrre effetti. Scienze sociali in cui la finanza, dedicata a quella sorta di eventi, è ovviamente da ascrivere.

            L'obiettivo dell'equilibrio in economia, che pretenderebbe conoscenza perfetta di ogni suo fattore, è un mito. L'aveva già scritto Keynes, criticando quella che chiamò “Teoria economica classica”: “Le condizioni di equilibrio che vi sono descritte rappresentano un caso limite; il quale non ha nulla a che fare con le caratteristiche economiche della società in cui viviamo”(4).  L'attenzione di Soros è sulla distanza o meno dall'equilibrio: vi sono situazioni “vicine all'equilibrio” ove non c'è lontananza tra percezione e realtà ed agiscono forze tendenti a farle collimare.  In altre, “lontane dall'equilibrio”, quella distanza è notevole e nulla spinge a ridurla.  L'equilibrio -egli precisa- può essere “statico” se il pensiero vi si adatta  respingendo a priori la propria fallibilità (“società chiusa”),   “dinamico” se l'accetta, così aprendo alla critica evolutiva (“società aperta”).  Ma distinguere tra equilibrio statico, quasi equilibrio, equilibrio dinamico, chiama in causa i valori, tutti riflessivi, perciò trascurati dalla teoria economica; benché, significativamente, il trapasso dall'equilibrio statico al dinamico comporti, di regola, una crisi di valori. Sono le fluttuazioni cumulative incidenti sugli equilibri a causare la sequenza economico-finanziaria boom/crollo, che Soros descrive senza trarne determinismi e tecniche di previsione, data la premessa dell'essenziale incertezza dell'equilibrio dinamico.  La speculazione finanziaria fa leva sull'imprevedibile: previsioni certe impedirebbero il passaggio dall'equilibrio statico al dinamico, giacché nessuno accetterebbe di perdere. La fluttuazione speculativa prospera nella zona d'incertezza tra vicinanza e lontananza dall'equilibrio, dove la riflessività oscilla tra l'una e l'altra.  Per cui Soros intitolò un  libro “Alchimia della finanza” volendo alludere alle distorsioni di tipo magico e agli incantesimi normali in essa.           

            Il problema della riflessività concerne l'effetto psicologico, nell'ambiente finanziario, d'informazioni anche tanto univoche da potersi trasmettere in forma digitale (cioè numerizzata)  (5)  e, nondimeno, mai da sole determinanti. Tutto ivi esula dal paradigma lineare causa-effetto della meccanica classica, posto che informazioni e ordini di borsa scambiano comunicazione, non energia. E che, in ogni momento decisorio -ci si permetta di aggiungere-, agiscono forti le emozioni e il subconscio risalente all'istinto imitativo, presente nei primati e sviluppatosi nei nostri più lontani antenati  per sopravvivere. Ciò quando essi, scesi dagli alberi, dove era facile sfuggire ai predatori, hanno supplito alla propria inadeguatezza fisica al combattimento e alla fuga con la risorsa di tenersi in gruppo, così potenziando le proprie capacità di difesa, di vigilanza, e di quella segnalazione vocale, percepibile anche al buio o schermati, che sta all'origine della parola e del pensiero. La dipendenza dal gruppo e il valore degli altri reggono il senso di sicurezza infuso dalla mimesi collettiva e dal conformismo, sono al fondo dell'etica stessa (categoria pratica come la politica).  Il fiuto speculativo di Soros era attitudine non tanto a prevedere e calcolare andamenti economici, quanto a presentire la “riflessività” collettiva, l'umore degli investitori finanziari.

            Non diverso, mutatis mutandis, è il fiuto politico. Le relazioni umane riflettono la complessità di un mondo che non può essere digitalizzato. E' a livello cellulare che la vita segue la semiotica (il valore stabile dei segni), addirittura codificata nel DNA. Tra le persone la comunicazione è semantica, una “metavita”: parla della vita. E, dovendo esprimere tutto, essa combina lessico e modulazioni analogiche per denotare e connotare pensieri, allusioni, sentimenti, emozioni, con espressività soggettiva e relativistica non traducibile in grandezze discrete come i numeri.  

           Soros sentiva di evocare temi addirittura biologici, tanto che vicina, anche temporalmente, alla sua concettuologia e terminologia appare, più che la scienza della comunicazione, la termodinamica “di non equilibrio”. Era stato Ilya Prigogine, premio Nobel per la chimica 1977, a usare le nozioni di sistema aperto e chiuso, di fluttuazioni, di vicinanza o lontananza dall'equilibrio nel formulare la sua teoria delle “strutture dissipative”. Fenomeni che si producono in un sistema termodinamico aperto all'immissione di energia (liquido riscaldato da sotto in cui il calore inizialmente sale per conduzione) nel quale, a partire da un certo gradiente di temperatura, compaiono celle di convezione organizzate come “ordine mediante fluttuazioni”. Ordine che si stabilizza mediante scambio di energia con l'esterno  (perciò sistema “dissipativo”) e si dissolve oltre un valore critico di temperatura.  Evidente l'analogia con la sequenza economico-finanziaria del crollo che, per eccesso di squilibrio dinamico, succede al boom.  La risonanza epistemologica delle intuizioni di Prigogine e della sua scuola (6), fu dovuta al potenziale euristico di assumere  l'elementare dinamica fisica della struttura dissipativa a modello primitivo di autorganizzazione molecolare, applicabile a ogni dinamica della vita; la quale utilizza l'energia solare per ricrearsi e, dunque, per opporsi al secondo principio della termodinanica (detto “principio di entropia”).

           Una teoria delle fluttuazioni ha il pregio unificante di connettere la fisica quantistica alla termodinamica del non equilibrio nei sistemi aperti, unendole, sotto il principio d'indeterminazione, nel momento in cui una struttura dissipativa (micro, macro, complessa che sia) si destabilizza. La transizione ad altro stato oltre l'equilibrio può dare luogo a biforcazioni non lineari, non predicibili, tematizzabili unicamente dalla matematica “delle biforcazioni”, detta pure “delle catastrofi”, o “del caos”.  La vita trasforma il caos in ordine, che la morte restituisce al caos. Perciò le idee di  Prigogine furono definite un “ponte” tra fisica, matematica, informatica, teoria  generale dei sistemi, biologia, scienze cognitive, storiche, scienze naturali e sociali.  E ciò mentre Einstein, ebreo bisognoso d'un trascendente principio d'ordine, cercava una “teoria del tutto” da opporre al disordine quantico della materia.

           Fluttuazioni si misurano, metaforicamente, in ogni tipo di mercato, compreso il politico. In  cui sorgono campi di strutture dissipative (di consenso e d'interessi), non coerenti ed organiche come quelle biologiche, ma autoreferenti, e protese a un vertice magnetico quanto chimerico per eccesso di complessità: il potere.  Soros, in ordine alla categoria del potere, operante nello strutturarsi della società, completa Prigogine sovrapponendo alla complessità termodinamica quella psicologica.  Doppia complessità da cui la scienza può solo astrarre isolati determinismi. Nella pratica, ad aiutare i viventi, prodotta dall'esperienza, è la sensitività ai prodromi del mutare di ogni situazione.

          La complessità, beninteso, va ridotta, tagliata ogni volta che occorre decidere (etimo: de-caeděre, tagliar via), momento in cui l'incertezza stimola ma, se troppa, blocca.  Lo Stato moderno ha affrontato la complessità dividendone l'impatto nei propri “sottosistemi funzionali, dotati di specifici codici, come politica, economia, scienza, diritto” (7). Ma la normatività stessa avvita complicazioni funzionali, di cui l'Italia ha il primato mondiale per un esubero di ridondanze derivante dal particolarismo proprio della sua storia, sicché, nel magma democratico, può risultare addirittura non identificabile il soggetto che sceglie il criterio della riduzione. Fermo rimanendo che la finanza è divenuta un superpotere, e che, in ogni caso, il decidere accantona non annulla la complessità e l'erranza di chi agisce. Ossia la condizione esistenziale dell'uomo.

           A questo punto, la morale di tanti triboli e dilemmi potrebbe essere la risata conclusiva di Zaratustra nel libro dedicatogli da Nietzsche. Se non fosse che finanza e politica, pur essendo ambedue immerse nella complessità, sono profondamente diverse: l'una deviante epifenomeno del capitalismo, l'altra connaturale alla società, bisognosa sempre, nonostante tutto, di difesa unione e guida.  Platone, il primo a scriverne, idealizzava il politico come dedito, alla stregua del filosofo,  alla verità, cioè al bene. Ma non era un acchiappanuvole: sapendo rari i veri filosofi, si accontentava del “buon politico”, che non conosce la verità ma l'ama e la cerca. Ricerca connessa al problema del rapporto con le leggi, poiché la politica non può essere legibus soluta e le leggi non possono essere assolute. I politici non agiscono per scienza, la quale dimostra i suoi asserti, sibbene per opinione, che può, per dono degli dei,  anche essere retta, ma senza che l'uomo possa ragionarla: i politici, come  gli oracolanti, “dicono pure molti veri, non sapendo niente di quel che dicono” (8). Perciò, rispetto alla tirannia, è meno dannosa la democrazia che, almeno, permette di modificare le leggi. Platone approdava all'empirismo politico sulla premessa che la politica deve ricercare il bene. La politica sta fra idealismo e realismo. Non è sola prassi: fronteggia la complessità concreta e quella delle idee. Egli non fu il teorico della società chiusa: “Pensava e scriveva in forma di dialogo perché il suo era un pensiero aperto in continua evoluzione, la forma mentis di cui gli siamo debitori, la struttura perenne di quella che siamo abituati a chiamare civiltà occidentale” (9).  Forma il cui contenuto, però, è sempre meno definibile nella crescente caligine della complessità.  In ultima analisi, trovare da che parte sta il “bene”, verso cui il “buon politico” dovrebbe condurre, è arduo quanto trovare da che parte investire i capitali, come lo specialista finanziario dovrebbe sapere.

            La democrazia -notò Platone- può decadere in “teatrocrazia”. Lo colpiva il discapito del senso estetico e del costume derivato in Atene dal teatro, con le sue rappresentazioni ragguaglianti nel piacere l'uomo onesto al disonesto, così affievolendo il senso del bene (10).  Per noi, la politica è già divenuta direttamente spettacolo, dove si è esibito anche un grande del burlesque, polarizzando su di sé il ventennio tra la fine dello sviluppo in Italia  e il dramma odierno. Non si è trattato semplicemente di “destra” immobilista.  La Destra che creò lo Stato nazionale svanì presto, e con essa la destra come struttura e continuità funzionali allo Stato e alla nazione. “Destra” ha finito per significare, in Italia, incolta e criptica difesa dei propri averi cercata in ogni maniera: adottando ora il fascismo, ora il moderatismo cattolico, ora il plutocrate egotista che ha portato all'antipodo del senso istituzionale che fu della destra storica. 

             Lo sprofondo dell'etica pubblica ha sollevato l'onda anomala del più ambiguo dei populismi: legalitario e rivoluzionario, democratico e sotto disciplina, fedele alle volontà espresse in rete, ma senza controllarle. Una “democrazia digitale” sarà possibile solo se e quando essa avrà la garanzia dalla tecnica e dalla legge, almeno in ordine alla identificazione certa dei votanti, alla non replicabilità certa del voto, alla segretezza e libertà certa del voto.

          Sfidata dalla grande crisi, la politica è in bambola, vociante senza costrutto, vicina al k.o. sociale per il modo come alla complessità si rapporta la finanza e si adatta il capitalismo: l'una continuando a  spostare i capitali secondo le manovre e aspettative del suo mercato; l'altro delocalizzando le imprese dove meno costa produrre.  L'equilibrio dello sviluppo si è ribaltato: Paesi che erano del “terzo mondo” producono la maggior parte delle merci, degli ingegneri, degli informatici, dei fisici, degli studenti.  E la competizione esalta nell'industria sia il bisogno d'innovazione (di prodotto e di processo), sia il bisogno e la capacità tecnologica di ridurre la manodopera. Processi selettivi ed espulsivi.

          Le “leggi di Moore”, che misurano il ritmo e l'accelerazione dell' obsolescenza in campo informatico, esemplificano quale selezione preme sui mercati connessi alla tecnologia, ove solamente soggetti economici potenti possono investire in ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, assumendo il rischio che,  giunti a produrli, risultino già superati dalla concorrenza. L'assillo di competere diventa la maledizione della società, a partire dai giovani, che dovrebbero prepararsi perfino a lavori non ancora inventati, studiare, sgobbare, parlare bene l'inglese sapendosi in gara mondiale, sacrificare la giovinezza senza certezza di contropartita. La globalizzazione porta ogni vita a contatto della inconoscibile complessità, il lavoro precario come obiettivo massimo, la società infelice.

         Non chiediamoci come fece la Germania del 1934 a trarsi fuori in pochi mesi, del tutto entro il 35, da una spaventosa morsa di miseria e disoccupazione. Il Paese, che era stato grande anche nel pensiero, fu soggiogato da un caporale paranoide con il suo disumano sistema di ridurre la complessità. Ricordiamo in breve che Hitler, andato al potere nel 33, fanaticamente certo (come si trae dal suo libro Mein Kampf) che nel 18 avessero vinto non i nemici esterni bensì gli interni, Ebrei e disfattisti, preparò la rivincita totale e implacabile.  Invictis victi victuri  fu scritto sotto il monumento ai caduti. Nel marzo del 34 egli fece trucidare il capo e centinaia di personaggi della SA (Sturmabteilung), la possente milizia del suo stesso partito, che inneggiava al “nazionalsocialismo” persuasa d'incarnare essa, non i combattuti comunisti, la rivoluzione, mentre lui aveva maturato il disegno, legalitario e vincente, di allearsi alla grande industria, e allo Stato Maggiore timoroso delle le SA, intenzionate a sostituirsi all'esercito regolare. Era il disegno preparatorio della fatale sfida militare alla complessità esterna. Hitler si fece forte della propria guardia personale: le SS (Schutzstaffel), usata per eliminare le SA e poi dotata di un braccio di polizia politica autonoma dalle leggi (Gestapo). In guerra, consegnò alle SS il comando di squadroni della morte (Einsatzgruppen) preposti ad eliminare in massa gli Ebrei e non soltanto.

          Piuttosto, è da osservare che il successo pratico del paradigma dittatura ideologizzata-economia capitalistica si ripete nella Cina attuale. Ivi, però, il contesto è ben diverso: capitalismo e sviluppo economico avanzano da quando, nel 1995, essa ha aperto all'esterno passando da un sistema totalitario a uno autoritario (11) ; la Cina assorbe il debito pubblico statunitense creando interdipendenza tra i due sistemi; attrae industrie straniere con la manodopera dei contadini che s'inurbano proni a ogni sfruttamento; non persegue la guerra; la sua anima non è oppositiva ma inclusiva, ha sempre conquistato i conquistatori; la millenaria cultura confuciana vi garantisce la stabilità delle istituzioni ben più della politica e della violenza di Stato. Confucianesimo che Mao tentò di estirpare estremizzando il totalitarismo con la “rivoluzione culturale”, dichiarata fallita   quando il suo partito, per la vita dell'economia, ha flesso il regime accogliendo quella privata e, per conservare la coesione sociale e il proprio ruolo nel sorgere dello sviluppo, ha dovuto riscoprire Confucio e il bene dell'armonia in ogni campo, da lui perseguita predicando non un religione, ma una filosofia sociale imperniata sul rispetto dei valori tradizionali.  “Che fu volontariamente importata in Corea, Giappone, e gran parte dell'Asia sud-orientale”(12).  “Il socialismo confuciano, come unico partito, non fa più appello alla massa per raggiungere l'egalitarismo, ma per mantenere il regime e regolare i conflitti d'interesse”(13). Il suo potenziale produttivo potrebbe sostenere un equilibrio di lungo periodo con l'instabile capitalismo succube della finanza. Potrebbe offrire un modello al mondo, o di questo soddisfare direttamente, dalla Cina, l'intera domanda di merci, creando nuovi rapporti e assunzioni di ruolo, nuovi costumi, bisogni, culture. Ipotesi non di “decrescita” generale, ma di  locali adattamenti a  impossibili o inesigibili competitività produttive. Perciò sussunta nel perdurare dello sviluppo competitivo, con le sue motivazioni, il suo impatto sulla natura, gli squilibri provocati, la sua anestesia etica, la sua radice nella società anonima per azioni (14). Ma infinite sono le biforcazioni possibili nel divenire.

          Gramsci talvolta distinse dal “senso comune” il “buonsenso”, inteso come superamento critico di esso.  Alludeva alla superiorità della “filosofia della prassi”, locuzione che inventò per schermare il maxismo agli occhi della censura, ma implicante, nel nome stesso, il superamento anche di questo in quanto materialismo. Egli capiva di dovere opporre al parallelo antifascismo liberale di Croce un pensiero più accettabile di quello affermatosi in Russia.  Oggi cambiano e si dilatano i termini del problema: in luogo del nostrano fascismo c'è il globalismo finanziario, in luogo dell'idealismo crociano c'è la coscienza della complessità.  Il senso comune impone di tornare alla crescita produttiva, di rincorrere i mercati, di accattivarsi la finanza. Il buon senso avverte che la finanza non sfugge ai limiti dello sviluppo e che, quando non trascina nella miseria, non produce comunque felicità, essendo, anzi, rapinosamente indissolubile dal crescere dello sfruttamento totale; che un consorzio umano più vivibile e capace di futuro può nascere se, all'imperativo della difesa ecologica, si coniuga il distacco dalla finanza, come pure il nuovo Papa ha compreso.                                                                                        Alternativa, allo stato, utopica. Che peraltro può ridare idealità alla politica, dato che a questa viene mancando il sostegno elettorale perché nessuno sa dov'è l'uscita dalla crisi, uscita che diventa quindi utopica essa pure.

          Ma sarebbe strano che, finite le ideologie, non rimangano che utopie. In realtà sono queste a finire, e rimangono, ben presenti anche se non riconosciute come tali, due ideologie:  una è quella imperante, secondo cui non c'è alternativa al sistema tecno-economico dominato dalla finanza; l'altra è quella secondo cui nulla è certo nella complessità eccetto il divenire, e che, se cultura etica e politica conservano una legittimazione, ivi è in nuce l'alternativa di civiltà opponibile a un'uscita caotica dalla crisi del sistema.

          La complessità non impedisce di scorgere linee di probabilità. Non osiamo scrutare quelle che si diramano dall'ipotesi che il sistema-Paese non riesca,  nonostante ogni sforzo, a competere con altri ove il lavoro costa tre, cinque, dieci volte di meno.  Eppure, prepararsi anche al peggio è vivere da adulti, evolvere dal principio del piacere al principio di realtà. Ciò che la politica non aiuta a fare perché il peggio non può accettarlo, perché essa dovrebbe evitarlo. E, se non ci riesce, divaga, distrae, fa più spettacolo, invoca “più politica”, suscita proteste, non pensiero organico in campo lungo. Tuttavia tracce anticrisi già ci sono: nello spontaneo riunirsi contro la difficoltà e il pericolo; nella condivisione: del risparmio, della solidarietà, dell'uso dell'auto, dell'acquisto alimentare sano e conveniente, delle spese, delle abitazioni, delle coltivazioni; nelle reti di volontariato, nelle “banche del tempo”, nei gruppi che preparano la “transizione” all'autosufficienza animata da empatia e cultura. Si tratta di un grande campo di convergenze tra solidarismo di ispirazione laica e religiosa, ecologismo,“no global”, pullulanti reazioni alla società della crisi.  E' povertà destinata come sempre a soccombere ?

         Nel mutualismo, nelle cooperative sorte dal popolo in tempi di penuria, giuridicizzate poi nell'istituto della società cooperativa (costituita per quote o per azioni da soci tutti uguali), si configurano le uniche imprese disciplinabili in modo da sfuggire alla predazione finanziaria che va spogliando l'Italia dei suoi patrimoni aziendali. Aspetto di una generale desertificazione.

 

                                                                                                        LAMBERTO SACCHETTI

 

 

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NOTE                                                                                                                                 

1  Cfr. I.Visco, Lectio, Accademia Nazionale dei Lincei, 3 marzo2013, publicpolicy.it – crisi-visco-bankitalia-un errore

2 Ibidem.    

3 G.Soros, Soros on Soros: staying  ahead of the curve, copyright by George Soros, 1995.  Soros su Soros. Economia politica e storia nelle confessioni del Guru della finanza mondiale, Ponte alle Grazie, Firenze, 1998.

4  I. M. Keynes. The General theory of  Employment, Interest and Money, Macmillan, London, 1936, p.3.

5 Cibernetica ed elettronica permettono, grazie al linguaggio digitale, di trasmettere unità di comunicazione scevre dell'ambiguità  spesso presente nei “messaggi” della comunicazione comune.

 6  Cfr. J..Prigogine - I.Stengers, Nouvelle aliance. Metamorphose de la science, Gallimard, Paris, 1979. La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino, 1981.

 7  N. Luhmann, Ökologische Kommunikation,  Westdeutscher Verlag Gmbh, Pladen, 1986.  Comunicazione ecologica.  Franco Angeli, Milano, 1990, p.121.

8 Menone,99, trad.Acri, citato da G. Gentile, Storia della filosofia dalle origini a Platone,Sansoni, Firenze, 1964, p.231.

9 C. Sbailò, Platone e le leggi. Iter legis, anno III, luglio-ottobre 1999, p.132.

10 Platone, Leggi, 701 a.

11  Appunti dalla Cina, A.Capozzi - P. Galli, Serendipità Editrice, Bologna 2008, p.35.

12 H. Smith, The World's Religions, Harper-San Francisco, 1991. Le grandi religioni orientali, SugarCo, Varese, 1993, p.242.

13  Appunti sulla Cina, cit. p.39.

14 L. Sacchetti, La sottomissione del capitalismo, Diorama,  Novembre-Dicembre 2011, n.306, p.20.