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La più dolce figura femminile della letteratura italiana moderna

di Francesco Lamendola - 26/08/2013


 


 

Qual è la figura femminile più dolce della letteratura italiana moderna – escludendo, cioè, le figure femminili “classiche”, da Beatrice a Lucia?

Prima di tentar di rispondere a questa domanda, è necessario riflettere sulla evoluzione della figura femminile nel corso della letteratura italiana degli ultimi tre secoli: diciamo dalla Mirandolina di Goldoni - e lasciando perdere la donna “spiritata” di Claudio Achillini, perché, nel Barocco, le nuove rappresentazioni della femminilità erano subordinate alla  volontà di stupire il pubblico in qualunque modo - come termine iniziale.

Nel corso del XIX e XX secolo, molte figure di donna assumono caratteri sempre più “moderni”, cioè sempre meno femminili e sempre più nevrotici, aggressivi, ferocemente calcolatori ed egoisti, oppure – ma è il rovescio della stessa medaglia – sempre più alienati, disperati, schizofrenici e auto-distruttivi. Si va dalla Pisana di Nievo, inquieta, imprevedibile, capricciosa; alla Fosca di Tarchetti,  malata e patologicamente possessiva, ipersensibile, isterica; alla Malombra di Fogazzaro, esaltata, delirante, capace di arrivare fino all’omicidio dell’amante; alla Lupa di Verga, sessualmente assatanata, amorale, disposta a pianificare la seduzione del genero e di farne il suo amante, sotto gli occhi della figlia e dei nipoti.

E non è che le figure femminili create dalle scrittrici siano molto più rassicuranti di quelle create dagli scrittori: né Matilde Serao, né Grazia Deledda, né Sibilla Aleramo, né Elsa Morante ci hanno lasciato delle figure di donne che possiedano anche solo la millesima parte del fascino discreto, dolcissimo, commovente, di una Pia de’ Tolomei, che Dante ha tratteggiato e reso immortale con due sole terzine. Quanto a Dacia Maraini, nemmeno le sue adolescenti e le sue ragazze torbide, annoiate, scontente e sessualmente iperattive, tanto sul fronte eterosessuale che su quello omosessuale, sono tali da attirare significativamente la nostra attenzione, da imprimersi nella nostra memoria; non possiedono nemmeno la tragica e perversa  grandezza di Livia, la contessa creata da Camillo Boito: sono semplicemente noiose. Marianna Ucria, che sembra dare una svolta a questa mediocre galleria, si innalza solo in apparenza da questo grigiore: non vive di vita propria, perché è un personaggio costruito a tavolino allo scopo d’illustrare le idee illuministe e femministe dell’autrice e di fare l’apologia della modernità e del “progresso”.

Molto più interessanti, semmai, appaiono le donne di Cesare Pavese: fragili e inquiete, sensuali e tuttavia protese verso un qualcosa d’altro, che sempre sfugge loro; per non parlare delle donne di Carlo Cassola: dolenti e generose, solitarie e tuttavia assetate d’amore, animate da una eroica disponibilità al sacrificio. E che dire delle donne di Marino Moretti, dell’indimenticabile Andreana (meravigliosamente portata sul piccolo schermo dall’attrice Ilaria Occhini), così piene di forza, di abnegazione, di amore per la vita? Però, inutile negarlo, nemmeno queste donne ci restano impresse nell’anima con la forza della Lucia manzoniana; manca loro qualche cosa di essenziale, quella sorta di luce spirituale capace di illuminarle dall’interno, di farle risplendere così che emergano in mezzo alle altre e si fissino nella mente e nel cuore del lettore.

Il fondo della degradazione è stato toccato dai personaggi femminili creati da Alberto Moravia: automi senz’anima, macchine sessuali eternamente in calore, donne fintamente emancipate, che non aspirano ad altro se non a prestarsi a qualunque capriccio del maschio, anzi, bramose di prevenirlo, offrendosi a lui in tutte le maniere possibili; perfino le tredicenni, perfino le bambine rientrano in questa monotona, trista sfilata di ninfomani auto-caricaturali.

Al sociologo spetta il compito di istituire un confronto fra l’evoluzione, o l’involuzione, della figura femminile nella letteratura italiana moderna e il parallelo mutamento del costume verificatosi nella nostra società. Noi ci limitiamo a prendere atto della cosa, non senza osservare - di sfuggita - che figure femminili veramente belle e quasi sublimi, come quella evocata dal poeta Siro Angeli nella dolcezza di un ricordo che vince perfino la distanza della morte (cfr. il nostro articolo «Una pagina al giorno: Una “Vita Nuova” dei nostri giorni, di Siro Angeli», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 27/01/2009), sono state quasi ignorate dalla critica ed emarginate dal grande mercato editoriale, evidentemente perché si voleva far passare un’altra immagine di donna, più consona ai valori (o disvalori) della modernità.

Si potrebbe obiettare che la “dolcezza” è una categoria spirituale in via di estinzione e che gli uomini l’hanno usato, per troppo tempo, come arma di ricatto e di manipolazione della donna, per raggiungere i loro biechi scopi di sfruttamento e di dominio; e tale è, infatti, l’argomentazione della cultura femminista, ormai così diffusa anche fra gli uomini da risultare come la sola politicamente corretta. Ma è proprio vero?

Qui, naturalmente, la posta in gioco è molto più importante di come la letteratura sa ritrarre la figura femminile nella società moderna: si tratta, nientemeno, di “decidere” che cosa sia il femminile, in che cosa consista precisamente l’essenza della femminilità. Noi riteniamo che la dolcezza, nel senso migliore della parola, non designa né leziosità, né svenevolezza, né arrendevolezza eccessiva e tanto meno propensione alla sottomissione servile, ma una qualità che unisce la forza e la gentilezza e che è propria dell’anima femminile: anima che esiste e che è fondamentalmente diversa da quella del maschio, nonostante la cultura femminista voglia farci credere che essa sia solamente il prodotto artificiale dei condizionamenti culturali maschilisti e di ignobili strategie di potere e di sfruttamento, anche di ordine economico.

Una donna priva di dolcezza, fosse pure una dolcezza scontrosa e battagliera, è anche priva di femminilità; pertanto un personaggio letterario femminile che sia privo di dolcezza potrà colpirci per svariate ragioni, ma resterà pur sempre un personaggio “mancato”, perché fuori ruolo rispetto a se stesso, al suo orizzonte emozionale ed affettivo; e inoltre un personaggio ibrido, perché psicologicamente molto più maschile che femminile (il che non vuol dire che un uomo non possa e, in talune circostanze, non DEBBA essere anche capace di dolcezza).

Poste queste premesse, ci sembra che la più dolce figura femminile creata dalla letteratura italiana moderna sia quella di una umile popolana, di una figlia e sorella di pescatori siciliani di fine Ottocento: Filomena Malavoglia, detta Mena o Sant’Agata.

Così il critico letterario Natale Scalia ha sviluppato questa idea (da: N. Scalia, «Giovanni Verga», Ferrara, Taddei,  1922, pp.  76-79):

 

«Dalle esperienze precedenti, forse dall’Erminia di “Tigre reale”, forse dall’Adele di “Eros”, da quel poco insomma che di puro, di soave, di modesto, si nota nella febbre dei primi romanzi verghiani,  sboccia la più dolce figura di donna che possegga la letteratura italiana moderna: e forse non solamente moderna: Mena Malavoglia, detta S. Agata (non traversa lo spazio col suo sorriso mesto e lontano la Pia dantesca?).

Mena è la figlia di Maruzza. – Il Verga per renderci l’amor materno ebbe aiuto, certamente, dalla esperienza quotidiana: onde a Maruzza derelitta e sofferente il cuor nostro ha saputo donare tutta la convinzione e la passione che basterebbero, in ogni caso, a render convincente ogni gesto materno: e Verga poté sorprendere la madre nelle sue linee più proprie, appunto perché essa esprime con sincerità nativa i suoi sentimenti né è usa mentirli né saprebbe, perché solo alcune sciagurate sono riescite ad artificiare anche codesto senso primitivo che è dell’uomo e dell’animale; ma, dinanzi alle fanciulle, trovò senza dubbio ostilità durissime alla sua osservazione. La donna, qualunque sia il suo grado sociale,  ha istinti meravigliosi di doppiezza, che poi sono la sua difesa naturale contro le insidie del maschio.

L’intensità e la passione con cui Verga riesce a trarre una lirica persistente dal cuore d0una povera pescatrice, scavando con un impeto addirittura crudele entro le sue fibre più gelose, sono eccezionali anche nella sua arte stessa. L’idillio che egli riesce a costruire tra la fanciulla e Alfio Mosca il carrettiere, è uno dei tre o quattro motivi fondamentali che rendono immortali i “Malavoglia”. Un idillio così fine, delicato, direi filiforme, e modulato in toni così leggeri che sembrano estinguersi, sospeso fra cielo e mare, malato di sconforto, triste di lontananze, riempie tutto il libro di non so quale nota melanconica che ci fa pensare e sognare.

Mena è colei che aspetta in silenzio. Come fa la madre, e come la Lucia di Manzoni, parla con gli occhi: “Mena lo guardò con gli occhi timidi, ma dove ci si vedeva il cuore”. Ella è piccola e silenziosa nell’economia della casa siciliana: e il suo telaio – tic tac, tic tac – batte e batte, e il suo pensiero, che è abituato a restar chiuso e a non esprimersi, le dà tutte le gioie delle anime solitarie. La sua anima di fanciulla innamorata è così grande che vi si riflettono mondi. E quando le dicono che per la sua povertà l’hanno rifiutata per moglie di Brasi, ella, pensando ad un altro che va per le strade, trova finalmente la forza di espandere la sua allegrezza in canto.

Verga predilige codesta sua creatura e le mette in bocca autentici strambotti..

“Ora addio – conchiuse Mena; anch’io ci ho come una spina qui dentro… ed ora che vedrò sempre quella finestra chiusa, mi parrà di aver chiuso anche il cuore, e di averci chiusa sopra quella finestra, pesante come una porta di palmento. Ma così vuol Dio. Ora vi saluto e me ne vado”. “La poveretta piangeva cheta cheta, con la mano sugli occhi, e se andò insieme alla Nunziata a piangere sotto il nespolo, al chiaro di luna”. La sua rinunzia all’amore  è un sacrificio di cuore e di anima: la sua sensibilità è così gelosa, che intuisce quello che Alfio Mosca non ha sentito: che la disgrazia della sorella Lia, povera e mesta camminante, è un’ombra per la sua purezza. Ed ella è così contrattile, che si sente maculata dalla colpa altrui. Alfio Mosca l’ha amata e l’ama col suo povero cuore vagabondo: egli va col suo asino e il suo carretto di terra in terra e, poiché è solo, la sera gli tocca di apparecchiarsi la cena. Egli è colui che insegue la felicità e il giorno in cui, dopo che il tempo ha ammucchiato morti e distruzioni intorno, sta per accostarsele, un pregiudizio gliela allontana. E andrà ancora di qua e di là per il mondo, con l’ultima stella spenta in petto.»

 

A questa piccola, grande figura di giovane donna, dolce ed eroica, potremmo accostare (oltre alla Diodata dello stesso autore, nel «Mastro-Don Gesualdo»), all’altro capo geografico dell’Italia, la dolcissima e sfortunatissima contadinella friulana Maria Zef, ritratta dalla scrittrice veneta Paola Drigo in un romanzo poco conosciuto al grande pubblico – anche se ripreso dal cinema - e tuttavia memorabile per verità di sentimenti e profondità d’introspezione psicologica.

Una figura femminile soave, pudica, delicatissima, quella di Mena Malavoglia; e non è una donna borghese né, tanto meno, una aristocratica: come la Lucia di Manzoni, è una donna del popolo; e, come Lucia, possiede una dignità innata, una riservatezza che la fa più grande - ai nostri occhi - di tante altre, una capacità di abnegazione che avrebbe molto da insegnare a tutte quelle pretese eroine, dalla Nora di Ibsen sino alle femministe falliche ed egocentriche di Erica Jong (e, in versione lesbica, di Rita Mae Brown), le quali, per quanto si agitino in tutte le direzioni e siano sempre pronte a saltare addosso al primo oggetto di piacere che si presenti alla loro portata, mai riescono a trovare, non diremo la pace, concetto per loro privo di significato, ma un qualcosa che assomigli almeno un poco ad un significato per la loro stessa vita.

Si direbbe che la letteratura moderna, così come la società moderna nel suo complesso, sia caratterizzata da quella che Karl Stern – uno studioso, si noti bene, di formazione freudiana, prima di convertirsi al cattolicesimo -, sia caratterizzata da una vera e propria “fuga dalla donna”: da una fuga, cioè, dal cuore, dalla sensibilità, dalla dolcezza, in nome di una mascolinizzazione generale che si esprime nelle forme della meccanizzazione sistematica, della programmazione esasperata, della intellettualizzazione rabbiosa, forzata ed univoca.

I numerosi personaggi femminili senza cuore, senza anima, senza dolcezza, che s’incontrano nel panorama letterario moderno, sono un riflesso di questa tendenza; scambiare la loro frenesia sessuale, il loro cinismo, la loro sfrontatezza, per segnali di vera emancipazione, non solo materiale, ma anche spirituale, sarebbe un errore macroscopico, degno di un osservatore così superficiale e così conformista da prendere per oro zecchino ogni specie di moneta falsa che venga spacciata.