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Alfredo Oriani aveva poca stima delle donne forse perché troppo innamorato della Donna

di Francesco Lamendola - 02/09/2013




 

Strano destino quello di Alfredo Oriani (Faenza, 1852 – Casola Valsenio, 1909). Scrittore autentico, completo, sofferto, profondo; poeta, romanziere, saggista, storico, filosofo; uomo fiero e orgoglioso, solitario, non aduso a insinuarsi nel bel mondo culturale per attrarre su di sé l’attenzione, passò la sua non lunga vita in mezzo all’incomprensione dei critici e all’indifferenza del pubblico e morì totalmente solo e quasi dimenticato, perfino nella sua Romagna.

Ma ecco che Benito Mussolini, da poco salito al potere, decide di rivalutarlo, di farlo conoscere e ne cura personalmente la pubblicazione dell’opera omnia, in ben trenta volumi, nel decennio che va dal 1923 al 1933: e Oriani, finalmente, conosce una effimera stagione di gloria post-mortem. Prima, solo in pochi si erano accorti di lui e, magari, per ragioni di parrocchia: come Benedetto Croce, che ne aveva apprezzato specialmente l’anti-positivismo e il ritorno all’idealismo hegeliano; adesso, improvvisamente, il suo nome corre sulla bocca di tutti: il fascismo l’ha adottato e ne ha fatto un suo precursore, anzi, insieme a Carlo Pisacane, il suo vero, grande precursore.

Quella è stata la seconda sfortuna di Alfredo Oriani: perché, caduto il fascismo e finito come si sa Benito Mussolini, tutto ciò che essi avevano esaltato, bisognava per forza che venisse ricacciato tra le fiamme dell’Inferno, da cui certamente doveva esser scaturito. E così è stato, oltre che per l’Accademia d’Italia, anche per la memoria di Alfredo Oriani: proscritto in patria per la seconda volta, e solo perché il caduto regime e lo scomparso dittatore avevano riconosciuto in lui un antesignano. Che ciò fosse vero o no, divenne cosa irrilevante: come era possibile mantenere nel salotto buono delle patrie lettere un autore che il Duce in persona aveva voluto far ripubblicare, presentandolo come un proprio araldo? Nella meschina e velenosa repubblica della cultura nostrana, satura d’invidie e gelosie d’ogni sorta, dove tutti sono in guerra con tutti e non aspettano che il momento buono per fargli lo sgambetto, quello era il momento giusto per sbarazzarsi per sempre del temibile rivale, che perfino dopo morto pretendeva di dare ombra ai vivi. E da quell’oblio, l’Oriani non è mai più resuscitato.

Tranne poche opere, il grosso della sua produzione non è più stato ripubblicato; uno sceneggiato televisivo, negli anni Settanta del Novecento, ha riportato in auge il suo nome, ma solo per un momento; ogni tanto un convegno, una conferenza, quasi a titolo di curiosità, come si fa per quegli antenati che non si può ignorare del tutto, ma che insomma non interessano più a nessuno: e questo è tutto. Niente sulle antologie scolastiche e sui manuali di storia della letteratura; niente o poco più di niente nelle enciclopedie più recenti; pochissimo materiale, e di nessun valore, perfino sulla rete informatica (a eccezione del sito della Fondazione Casa di Oriani). Si direbbe proprio che il nome di Alfredo Oriani sia destinato a sopravvivere, d’una esistenza grama e stentata, solo per l’ostinazione di pochi eccentrici o per l’interesse antiquario di qualche professore pedante o per la fugace curiosità di qualche studente fuori corso.

Eppure è stato un grande scrittore; uno scrittore che, se fosse stato collocabile dall’altra parte della barricata – quella tanto apprezzata dalla cultura “progressista” e politicamente corretta, per intenderci – non sarebbe stato certo abbandonato nel dimenticatoio, ma verrebbe frequentemente rivisitato e rispolverato, almeno quanto lo sono stati e o sono tuttora Gramsci e Gobetti (i quali, peraltro, a suo tempo furono tra i pochi a mostrare di averlo letto, meditato e apprezzato).

Ed è stato uno scrittore profondamente italiano: viscerale, tempestoso, patriottico, insofferente di ogni mediocrità, provocatorio; ma anche generoso, appassionato, idealista, incurante di furbizie e di accomodamenti: romantico fuori tempo e carducciano senza cattedra, se così possiamo dire; un anticonformista e un ribelle senza mezze misure. Per capire l’Italia di fine Ottocento, bisogna aver letto Alfredo Oriani: la sua aspra moralità, il suo sacro sdegno contro la mediocrità borghese non sono una posa, ma un sentimento; la sua tensione verso un più alto ideale, la sua signorile indifferenza alle prebende e ai posticini sicuri, hanno qualcosa della stoffa dei grandi uomini, di Dante, per esempio, così come il suo sogno di un’Italia più grande – in tutti i sensi.

Una delle cose che maggiormente colpiscono nella sua vasta produzione narrativa, che comprende una quindicina di volumi fra romanzi e racconti e diversi saggi di storia e riflessione politica, è la complessa, contraddittoria relazione con la donna. Nella società del suo tempo la cosiddetta emancipazione femminile sta appena cominciando a muovere i primi passi, ma egli la individua immediatamente come uno dei grandi mali da combattere e da sconfiggere, prima che sia troppo tardi. Le figure di donne che popolano i suoi scritti raramente si innalzano al di sopra della mediocrità; anche quando sono belle, anzi, specialmente quando sono belle e desiderabili, sono però singolarmente povere di sostanza interiore, di sensibilità, di anima: corpi sensuali animati da una vanità implacabile, che si accompagna a una pronunciata meschinità morale.

Si direbbe che, per Oriani, la donna “moderna” sia la peggiore compagna possibile dell’uomo: gretta, egoista, calcolatrice, scaltra, tutta protesa alla ricerca del proprio piacere e del proprio interesse; priva di calore, di dolcezza, di bontà, di generosità; preoccupata sempre e solo di se stessa, mediocre anche come sposa e come madre, assolutamente distruttiva come amante; perfino incapace di comprendere cosa sia l’amore, perché incapace di sentire la passione in maniera totale e disinteressata, ma in qualche modo sempre vigile, sempre attenta al controllo della situazione, sempre ben decisa a non farsi sfuggire le occasioni per lei più vantaggiose. Al suo confronto, l’uomo appare come un misero dilettante: goffo, incerto, maldestro, insicuro; disposto, però, a gettarsi nella passione fino in fondo e, in questo, più grande di lei, più generoso, più magnanimo: ahimé, anche più ingenuo, più sprovveduto, più manchevole di senso pratico. E, inoltre, spesso geloso, di una gelosia che nasce dall’insicurezza e, quindi, da una fondamentale carenza di fiducia in se stesso: fragile, a ben guardare, anche dietro le apparenze contrarie.

Oriani, dunque, intuisce che la scomparsa, o la rarefazione, della donna come perno della famiglia e della coppia, è parte di una crisi complessiva della società, che investe la psicologia del’uomo non meno che quella femminile; che la mascolinizzazione della donna non è che l’altra faccia di una progressiva femminilizzazione dell’uomo. Basterebbe questo a escludere che il suo atteggiamento complessivo verso il sesso femminile possa qualificarsi come pura e semplice misoginia: Oriani non odia le donne; le disprezza, questo è vero, mostrandole sovente nel loro aspetto peggiore: ma bisogna saper leggere bene al fondo di questo disprezzo. Esso non è che la reazione a un grande amore deluso, a una altissima aspettativa nei confronti della Donna come tipo umano ideale, che egli sembra aver vagheggiato e cercato ansiosamente, instancabilmente, per tutta la vita, sia come uomo che come scrittore e pensatore.

Da ciò i suoi atteggiamenti risentiti, i suoi sdegni, le sue malinconie, la sua amarezza; da ciò i suoi atteggiamenti scostanti, burberi, corrucciati; da ciò la sua rabbia e, diciamolo pure, anche il suo odio, o, quanto meno, le sue professioni di odio. Ma è un odio verbale, che non dovrebbe ingannare: è la ribellione di un uomo che vorrebbe amare, amare, amare, ma che non vede oggetti d’amore abbastanza grandi per la sua capacità di donarsi. Sono cose che abbiamo già visto, compreso e perdonato, se pure qualcosa v’è in esse da perdonare, in altri scrittori, in Giovanni Papini, per esempio. Ma a Oriani non sono state perdonate; anch’esse sono state addebitate sul suo conto, insieme al resto – cioè, insieme al peccato capitale di essere piaciuto a Mussolini. La cultura femminista, che ha la memoria implacabilmente lunga, ha perdonato e dimenticato, o finto di non vedere, ad esempio, certe pagine durissime sulla donna “moderna” scritte da un anarchico come Camillo Berneri; ma non ha mai sepolto l’ascia di guerra contro la memoria di Alfredo Oriani.

Ha scritto un suo biografo, Alfredo Giorgi (in: «Alfredo Oriani», Firenze, Bemporad, 1935, p. 51):

 

«Eppure nonostante le apparenze questo idolatra dell’odio soffriva per la mancanza d’amore.

Una signora gli aveva chiesto un giorno se avesse mai amato ed egli aveva risposto sprezzantemente di no.

- Il vostro cuore è dunque un macigno?

- Sono una rupe, bisogna essere un’aquila per salirvi e le donne che ho incontrato sinora erano galline.»

 

Ma per capire che egli non disprezzava la donna, bensì le donne, basta ricordare che la sua migliore amica fu una donna: non bella, non elegante, una certa Elisa De Franceschi, che attese per anni e anni l’uomo che le aveva fatto una ingannevole promessa d’amore. Davanti a una donna così, una donna capace di altissima idealità, e al tempo stesso di semplicità e abnegazione, il fiero e sprezzante Oriani si ammansiva, diventava ammirato; il suo occhio attentissimo, cui non sfuggivano mai le umane miserie, sapeva riconoscere l’autentica grandezza.

Certo, nei suo romanzi le donne -come abbiamo detto - non fanno una grande figura: non brillano per grandezza d’animo, non sono compagne affettuose dell’uomo; sono sovente fredde ed egoiste, interessate solo ad assicurarsi una posizione di vantaggio, una nicchia sicura.

Così, in «Gelosia» (1894), Annetta, la moglie di un famoso avvocato, molto più anziano di lei e che l’adora, cede per pura sensualità alla corte di Mario, il giovane di studio, ma poi tormenta quest’ultimo rinfacciandogli i successi e il denaro del marito; finché, dopo averne prosciugato ogni forza di volontà e ogni amor proprio, torna tranquillamente dal consorte - che non si era accorto di nulla - senza il minimo rimorso, né nei confronti dell’uno, né in quelli dell’altro (fra parentesi, viene in mente la Annetta della sveviana «Una vita», apparso tre anni prima).

In «Al di là», del 1877, assistiamo alla prima rappresentazione dell’amore lesbico della letteratura italiana moderna: la baronessa Elisa di Montenero s’innamora della dolce Mimy, trascurata dal marito e delusa dall’amante. Qui sono gli uomini a fare una magra figura; le donne, peraltro, non si riscattano, perché non escono da una logica basata unicamente sulla ricerca del piacere, anche se a spingere Mimy fra le braccia dell’amica è proprio l’imperioso bisogno di essere compresa e amata come persona e non come oggetto sessuale.

La protagonista di «No» (1881) è una donna cinica, fredda, arrivista, che adopera tutte le armi per arrivare al successo e al benessere e che diventa la mantenuta del duca di Rivola; ma è anche una ribelle, una anticonformista, una intellettuale che legge i filosofi e disprezza i romanzetti e le poesie e questo accentua il suo carattere di donna “moderna”, che se ne infischia dei benpensanti e bada unicamente, proprio come un uomo, al proprio tornaconto, calpestando chiunque le si opponga. In un certo senso, la si può considerare come una versione femminile del protagonista di «Bel Ami», di Guy de Maupassant; ma cattiva e vendicativa  in misura anche maggiore..

Eppure, qualche personaggio femminile più simpatico, più umano, più degno di ammirazione, esiste nella vasta produzione dell’Oriani. In «Olocausto» (1902), Tina, una sfortunata ragazza che la madre snaturata ha spinto nel mondo della prostituzione, si spegne senza un grido di protesta, con una sua dignità serena che spicca in mezzo allo squallore da cui è circondata. Ne «La disfatta» (1896) la giovane Bice, anima ardente in un corpo patologicamente magro, si dà per amore al suo anziano professore di filosofia, ne ha un figlio che morirà presto di malattia e, infine, dovrà separarsi dall’uomo, consci entrambi dell’impossibilità della loro relazione. Ma il personaggio di Tina è troppo patetico e quello di Bice, benché originale, sembra aver qualcosa di artificiale: si direbbe che la penna di Oriani, effettivamente, sia più incisiva quando graffia la donna, che quando l’accarezza.

Per comprendere quale fu la sua vera posizione nei confronti della donna, bisogna andarsi a leggere il capitolo sul «Femminismo» in uno dei suoi saggi più importanti, «La rivolta ideale», scritta nel 1906 ma pubblicata nel 1908, dunque una specie di testamento spirituale (da: A. Oriani, «La rivolta ideale», Bologna, Cappelli, 1938; ripubblicata ne La biblioteca di “Libero”, 2003, pp. 226-27):

 

«Qualcuno ha detto che un nuovo dolore sta per aggiungersi agli antichi, la donna diventa rivale dell’uomo. Se così fosse, e la rivalità dei sessi invece di placarsi nell’amore del bambino proseguisse in quella degli interessi  dentro la famiglia, certamente il nuovo dolore  sarebbe pari ai più grandi già invecchiati nell’anima umana, con un danno più triste ancora del dolore. Non vi è in tutta la natura differenza più irreducibile che fra l’uomo e a donna: la bellezza, la forza,  la struttura, le attitudini, tutto in loro fu così preparato che diventasse vizio nell’uno l’imitazione di una virtù dell’atro; la natura, che aveva fatto nel bambino il più debole fra tutti i neonati, appunto perché, diventando uomo, doveva essere il più forte dei viventi,  gli pose accanto la donna, subordinando in lei  le linee del corpo e dello spirito alla maternità. […]

L’uomo domina sulla famiglia, non perché vi sia materialmente il più forte, ma perché la sua paternità è una fede puramente spirituale. La sovranità maschile non ha altra base: la natura non consentì all’uomo la gioia o il dolore di sentirsi veramente padre: invece egli ama, o anche non amando prende una donna, questa partorisce un bambino ed egli per fede nella donna, per pietà del bambino, meglio ancora per un istinto profondo  della razza accetta di essere il padre. Ma lo è davvero? La sua scienza, la sua coscienza non vanno al di là: la voluttà, che lo sedusse, è la cortina di un mistero; la donna sola può dire al bambino le parole tenere e superbe: tu sei il sangue del mio sangue! […]

Nell’amore i due sessi inconsapevolmente si estenuano nello sforzo di sopraffarsi: l’uomo vorrebbe  lasciare la traccia sulla donna, assorbire la sua anima, avere un impero assoluto sul suo corpo, mentre non passa sovra d lei che come il fumo nell’aria e il serpente sulla pietra. La donna invece resiste nella passività: la sua debolezza trionfa soltanto deprimendo la nostra forza, abbassando la nostra grandezza: mente ed inganna anche nell’amore più acceso, nell’abbandono più devoto: la sua potenza  è nella seduzione, quindi aspetta l’uomo all’agguato, nei momenti del desiderio, nelle ore dello scoraggiamento, e gli si promette come un compenso alle imprese, delle quali si sente  già venir meno; dissolve colla grazia perfida o voluttuosa di un sorriso i suoi propositi più fieri, con una carezza lieve ed irresistibile solletica e sollecita tutti i suoi vizi. Buona, ha l’incanto futile di un bambino; cattiva, un fascino pessimista, che nega la legge, addormentando l’anima come dentro un aroma, facendole sentire nella propria caduta una rivincita contro Dio. Il bambino solo poteva quindi placare il loro antagonismo e risolvere l’antitesi dei genitori, che perdendosi in lui dimenticavano se medesimi. Invece una teoria proclamò la donna pari all’uomo, pretendendo per lei pari tutti i diritti, nella casa e fuori, nella natura e nella legge. La nuova vanità femminile si stanca già  nella imitazione dell’uomo e della sua opera: vuole percorrere tutte le sue carriere, entra nelle sue scuole, negli opifici, nei giornali,  nei libri, ma non nelle caserme, perché da queste si può dover rispondere ad un appello di morte. Davanti al padre, alla madre, al fratello, al marito la donna non è più che un socio ombroso, che s’irrigidisce per la paura di sembrare sottomesso, affetta l’esperienza e simula il pensiero. Nell’amore non si dà più, discute: un sottinteso piccino ed intrattabile interrompe tutti i suoi giudizi e le sue azioni: la coscienza della inferiorità l’esaspera nella lotta, e mette nella sua vanteria di bimbo una invidia mediocre. Perché la donna non oltrepassa mai la mediocrità.»

 

Può piacere o non piacere, ma non si può negare che abbia il pregio della chiarezza.

Del resto, possono sembrare pagine datate, e in parte lo sono (chissà cosa direbbe oggi Oriani di certe donne soldato, per esempio di quella giovane e graziosa americana - Sabrina Harman, per la cronaca - specializzata in repellenti sevizie su dei prigionieri inermi, che, fra il 2003 e il 2004, si fece fotografare, esultante e perfino radiosa, accanto al cadavere di un iracheno torturato a morte, oppure a una piramide umana di prigionieri nudi, nel famigerato carcere di Abu Grahib): ma siamo proprio sicuri che non abbiano più niente da dirci? Che non vi sia, in esse, una sostanziale verità di fondo, sgradevole, forse, da un certo punto di vista, ma che, nondimeno, è necessario guardare e affrontare sino in fondo, se si vuol tentare di uscire dal vicolo cieco in cui l’attuale conflittualità tra uomo e donna ha spinto le nostre famiglie e la nostra società?