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Vogliamo un’antropologia a misura della tecnica o una tecnica a misura dell’uomo?

di Francesco Lamendola - 06/09/2013

 


 

L’avvento dell’età della tecnica ha modificato le condizioni dell’antropologia; e, se sì, che tipo di discorso sull’uomo è necessario elaborare, o piuttosto ricostruire, per mettere quest’ultimo in grado di reggere alla sfida delle mutate condizioni dell’esistenza?

Detto in parole più semplici: lo strapotere della tecnica esige che l’uomo ripensi se stesso, il suo ruolo nel mondo, la sua stessa finalità di essere senziente, pensante e dotato di autocoscienza; oppure è sufficiente che l’uomo riaffermi se stesso, così come sinora è avvenuto, magari baloccandosi con l’idea che le macchine, dopotutto, sono solo macchine, da lui ideate per il proprio servizio, e delle quali è perfettamente sicuro e padrone?

Eppure, anche un bambino vede che non è così: vede che la tecnica ha preso il sopravvento, e che non le macchine sono al servizio dell’uomo, ma l’uomo è sempre più in funzione delle macchine. Vi sono degli impianti industriali che non si possono mai spegnere, che devono restare attivi di giorno e di notte: ed ecco i tecnici e gli operai adeguarsi ai ritmi e ai tempi della macchina, sobbarcarsi turni di lavoro notturno e diurno, spezzando i propri ritmi naturali e sconvolgendo il proprio orologio biologico. Questo è solo un esempio, e dei più semplici; ma la tecnica è anche la fecondazione artificiale, la manipolazione genetica, la clonazione di esseri viventi; la tecnica è anche l’installazione di microchip nel cervello delle persone per ridurle a robot telecomandati, così come è la creazione di elaboratori elettronici talmente raffinati da potersi agevolmente sostituire in all’uomo in quasi tutte le sue funzioni. La tecnica domina ovunque: un suo errore, un banale cortocircuito elettrico, e la terza guerra mondiale può scoppiare, con lo scatenamento di testate nucleari che distruggerebbero ogni forma di vita sulla Terra. Come si fa a sostenere ancora che la tecnica è neutra, che l’uomo ne è assolutamente padrone e che può usarla come vuole, da essere libero, per il bene o per il male? Ma se una famiglia qualsiasi non è nemmeno capace di rinunciare alla televisione per poche settimane, per pochi giorni, per poche ore!

La tecnica, ormai, può costruire macchine perfettamente simili a un essere umano, o programmare esseri umani (e animali) molto, ma molto simili a macchine: il confine tra la macchina e il vivente, tra la macchina e il pensante, diviene incerto, ambiguo, sfumato; si costruiscono macchine sempre più potenti, in tutti i campi, talvolta senza sapere esattamente a cosa serviranno, anzi, perfino augurandosi con tutto il cuore che non si dovrà mai farvi ricorso: tale è la condizione dell’uomo contemporaneo. E, in questa situazione, ha ancora senso parlare di umanesimo?

Eppure, bisogna mettere in chiaro una cosa: non è che un tempo ci fosse l’umanesimo, e oggi c’è la tecno-scienza dilagante. La tecno-scienza non è la negazione dell’umanesimo, è la sua diretta prosecuzione. I suoi presupposti, intellettuali e spirituali, sono tutti nell’umanesimo: niente vi è stato aggiunto, che non fosse già nelle premesse. Se vi è stato un errore, non è stato commesso negli ultimi decenni, nell’ultimo secolo,  negli ultimi due o tre secoli: è stato commesso molto prima. È stato commesso quando l’uomo – in tempi e luoghi diversi; comunque, fino a due o tre generazioni fa, quasi nel solo Occidente – ha ritenuto di farsi misura di tutte le cose, di poter trovare in se stesso tutte le risposte, di essere il padrone e il signore onnipotente del mondo.

Eppure, anche per coloro che sono disposti ad ammettere questo fatto, si è soliti attribuire ogni responsabilità alla cultura giudaico-cristiana, sostenendo che in essa vi sono i germi della degenerazione antropocentrica. Ma, a parte il fatto che tali germi vi sono anche nella cultura greca (dal mito di Prometeo che ruba il fuoco agli dèi, ai filosofi della scuola ionica che non ammettono differenze di qualità tra il sapere sulla natura e il sapere in quanto tale), bisognerebbe distinguere meglio fra la cultura giudaica e la cultura cristiana, perché la seconda non è solo la continuazione e lo sviluppo della prima, ma è anche l’antitesi di essa, e sotto molti punti di vista. Quanto alla cultura giudaica, è proprio vero che essa concepisce il rapporto uomo-mondo solo in funzione del dominio tirannico del primo sul secondo?

Come è noto, i racconti biblici della creazione sono due. Nel primo Dio dice ad Adamo che egli ha il compito di «assoggettare la terra» (Gen., 1, 28); nel secondo, che egli deve piuttosto «coltivarla e custodirla» (Gen., 2, 15): e c’è una bella differenza tra le due cose. Un custode non è un dominatore, evidentemente; nel concetto di custodia vi sono l’amore, la tenerezza, la sollecitudine e, soprattutto, il senso di responsabilità verso la cosa che deve essere custodita. Dunque, andiamoci piano con lo scaricare sulla cultura “giudaico-cristiana” (come oggi è di moda chiamarla, ma con poca esattezza storica) la responsabilità dello scempio ecologico e del delirio di onnipotenza dell’uomo, sulla natura e contro la natura. Le sue radici non sono solamente in essa, ma anche altrove; e, guarda caso, si sono sviluppate con particolare virulenza proprio quando la cultura cristiana ha incominciato a tramontare, cioè, appunto, a partire dall’Umanesimo; e poi, sempre di più, con l’avvento della Rivoluzione scientifica e di quella industriale.

Nemmeno il filosofo Franco Volpi sfugge a questo luogo comune, anche se le sue considerazioni si prestano a sviluppare una utile riflessione sul rapporto fra tecnica e antropologia (da: F. Volpi, «Il nichilismo», Bari, Laterza, 1999, 2005, pp. 154-56):

 

«Disponiamo […] di elementi più che sufficienti per renderci conto che la tecno-scienza sfonda di continuo le barriere e il quadro culturale entro cui la visione del mondo umanistica vorrebbe contenerla. Nella situazione di evidente spaesamento verificatasi ci si chiede: ‘umanesimo fornisce ancora una antropologia sufficiente per rispondere sul piano culturale e simbolico alle sollecitazioni della tecno-scienza? L’idea di umanità  a essa sottesa è ancora valida e condivisa? E quali “valori” vi sono inclusi? Come è noto, le radici fondamentali dalle quali l’Occidente ha tratto la sua concezione dell’uomo sono due: quella greca e quella biblica. Dalla prima deriva la concezione dell’uomo come “animale politico, dotato di ragione e linguaggio” […], formulata da Aristotele nella “Politica” (A 1, 1253 a 2-3). Dall’altra l’idea che egli sia “persona” dotata di pensiero e volontà, cioè capace di intendere e di volere, in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio (“faciamus hominem ad imaginem nostram et similitudinem”, Gn., 1, 26). […]

Ebbene, oggi sempre più la tecno-scienza sfonda sempre più massicciamente l’orizzonte dell’antropologia  tradizionale. Essa accresce il nostro sapere  e il nostro potere sull’entità “uomo” in un modo che configge con i simboli e l’immaginario della tradizione umanistico-cristiana. Ci troviamo oggi un una sorta di “crisi antropologica” in cui difetta un’idea condivisa di umanità, adeguata ai problemi posti dalla tecno-scienza. Ovviamente, la straordinaria crescita dell’impero tecnologico non ha solo aspetti preoccupanti. Essa apre anche prospettive affascinanti che arricchiscono costantemente il nostro patrimonio culturale. Vero è, però, che essa non sembra sufficientemente soggetta a regole e norme sufficientemente resistenti e vincolanti per guidare il nostro comportamento e il nostro agire, dotato ormai di un immenso potere. La tecno-scienza manipola già le origini della vita,  presto sarà in grado di controllare il codice genetico dell’uomo, correggere la sua programmazione biologica, migliorare il suo patrimonio naturale. La tecno-scienza sta profondamente trasformando l’uomo, in assenza di una guida responsabile ed efficace.  L’uomo è più che mai un animale precario. Ma se la sua precarietà e la sua unicità reclamano una speciale vigilanza, volta a preservarlo, vien fatto di chiedersi:  a che cosa può ancora attenersi lo spirito oggi in affanno e disorientato?  Sussistono risorse di senso o energie simboliche  ancora intatte per mantenere l’equilibrio nel vortice  del nichilismo che la tecnica induce?

Ancora una volta: non occorre essere heideggeriani per ammettere  con il maestro teutonico che è assai difficile, se non impossibile, ridare oggi un senso alla parla “umanismo”.  Non tanto, come egli asserisce nella “Lettera sull’umanismo”, perché quest’ultimo rappresenterebbe un’esperienza dell’uomo non originaria, nata dalla traduzione della “philantrophia” ellenistica entro l’orizzonte epocale della “romanitas”.  Bensì perché l’umanismo -  e a maggior ragione l’antropologia della “Lichtung” prospettata da Heidegger, in cui l’uomo è dichiarato semplicemente un problema senza soluzione umana – non garantisce nulla. Nella generale impossibilità di ricette condivisibili, è forse possibile rifugiarsi in un’indicazione fragile, ma praticabile: quella di un atteggiamento senza illusioni che si prefigga di conservare l‘uomo senza farne il centro dell’universo, la pratica, diciamo così, di un “umanesimo” non antropocentrico che si apra alla crescita tecno-scientifica sena nostalgie per l’Immemorabile perduto, ma che non si sottoponga nemmeno docilmente all’imperativo della tecnica all’infuori di ogni regola. Un atteggiamento che pratichi un linguaggio  di verità, senza catastrofismi né infondati ottimismi,  e si metta alla ricerca di risorse simboliche per risignificare l’abitare dell’uomo sulla terra, radicandolo nella natura  e nella storia. Insomma, un umanesimo che, di fronte al carattere asimbolico della tecnica, di sforzi di attivare il senso di responsabilità  di cui l’umanità è in linea di principio capace. Una cosa è certa. Se la tecnica è la magica danza  che l’epoca contemporanea esegue, allora l’undicesima “Tesi su Feuerbach” di Marx non basta più. Non basta più cambiare il mondo, perché esso cambia anche senza il nostro intervento. Si tratta piuttosto di interpretare questo cambiamento, affinché esso non porti a un mondo senza di noi, a un “regnum hominis” privo del suo sovrano. Guidare tale interpretazione è uno dei compiti più urgenti di una filosofia della tecnica al nominativo.»

 

Un umanesimo non antropocentrico, dunque, è la proposta di Franco Volpi: un umanesimo che tenga conto dei benefici della tecnica e “si apra” alle sue novità, ma che sappia porre anche limiti, regole, nuovi valori: ma quali? Non è che si possa andare alla ricerca di “risorse simboliche” per “risignificare” il mondo, così come si va al supermercato e si mettono nel carrello le merci di cui si ha bisogno. La cosa è un poco più complicata di come non appaia dalle sue parole. Un umanesimo non antropocentrico è qualcosa di molto simile al concetto di “sviluppo sostenibile”: un voler salvare capra e cavoli, mettendo insieme – ma solo a parole – delle cose opposte e intimamente inconciliabili.

Più in generale: ci sembra che tutto il ragionamento di Franco Volpi si sviluppi a partire da una fondamentale confusione tra etica e antropologia. Quando egli invoca il ripristino di regole sufficientemente resistenti e vincolanti per guidare l’agire dell’uomo, non sta facendo un discorso sull’antropologia, ma sull’etica. È l’etica che ci dice come dobbiamo agire e in base a quali valori e motivazioni; l’antropologia è, semplicemente, la descrizione di ciò che pensiamo essere proprio alla natura umana. Essa, dunque, ci dice, o tenta di dirci, che cosa l’uomo sia; su come egli debba agire, in base a quali punti di riferimento, questo spetta all’etica.

L’umanismo non ha più nulla da dire, almeno nella sua forma classica? Giusto; ma bisogna scavare più a fondo e con maggior consequenzialità. Non basta dire, come fa Volpi, che già Pico della Mirandola e altri avevano messo l’accento sulla natura “indeterminata”, e perciò modificabile e perfezionabile, dell’uomo; né che già Kant aveva fatto notare come l’uomo non si qualifichi solo per la sua natura raziocinante (come voleva Cartesio), ma anche per la sua spiritualità: ossia che egli non è solo uno strumento, ma anche un fine (di nuovo sconfinando dal campo dell’antropologia a quello dell’etica). Ma c’era proprio bisogno che venisse Kant a dirlo? Non lo avevano già detto millesettecento anni di pensiero cristiano? E non basta nemmeno osservare che, per Heidegger, l’uomo è “semplicemente” un problema senza soluzione umana; bisogna andare oltre. Se l’uomo  è un problema senza soluzione umana, allora si tratta di vedere se sia giusto definirlo un problema o chi e cosa possano offrirne la soluzione.

Ora, che l’uomo ponga un problema a se stesso, per il solo fatto di esserci, di sentire, di pensare, di sviluppare l’autocoscienza e di interrogarsi sul senso delle cose, questo è un fatto: e i fatti non si discutono, si accettano. Si tratta, dunque, di capire come un tale fatto debba essere interpretato. Un problema può avere o può non avere soluzione: in ogni caso, interroga colui che se lo pone. L’uomo si interroga su se stesso e sul mondo; ma, in se stesso, non riesce a trovare una risposta alla sua domanda, una soluzione al problema che egli stesso rappresenta per sé. Ebbene, proprio questo è il problema: ed è il limite di ogni umanesimo. L’umanesimo pone problemi ai quali, in ultima analisi, non sa e non può rispondere: perché l’uomo non possiede la risposta; e non possiede la risposta perché egli è parte in causa, è lui stesso il problema, pertanto non potrebbe innalzarsi al di sopra di se stesso, neanche se lo volesse – e, di fatto, raramente lo vuole.

Chi può farlo, allora? Chi può dargli le risposte che cerca? Qualcuno o qualcosa che stanno fuori di lui; ma che, tuttavia, sono anche in lui, e di cui egli stesso è parte, sia pure come un riflesso di luce è parte di una fonte luminosa; qualcuno o qualcosa che pongono l’esistente e anche le ragioni per l’esistente; cioè l’essere senza aggettivi e senza specificazioni, l’Essere in quanto tale, l’Essere in sé. Altra cosa è capire fino a che punto l’uomo possa avventurarsi nella ricerca di una soluzione al problema che egli stesso pone, per il solo fatto di esserci, di stupirsi, d’interrogarsi. È chiaro che non troverà mai la risposta tutta intera; non nella presente condizione spazio-temporale, perché l’uomo partecipa dell’essere, ma non è l’Essere; ha l’esistenza, ma l’esistenza è una realtà effimera, una realtà passeggera: oggi c’è, ieri non c’era e domani non ci sarà più. Non nella forma che attualmente conosciamo, per lo meno. E anche questi sono fatti, fatti puri e semplici: non speculazioni, non ipotesi, non azzardi.

Ora, se l’uomo è un riflesso dell’Essere, allora anche il problema della tecnica deve collocarsi in questa prospettiva. Nella natura umana vi è un legane indissolubile con l’Essere: e questo è il fondamento di una sana antropologia. L’uomo non è veramente se stesso, non è rispettato, non è riconosciuto nella sua verità interiore, se viene privato del legame con l’Essere; viene semmai ridotto a una creatura svuotata e mutilata, ad una creatura che – appunto - non trova alcuna risposta alla propria domanda esistenziale.

Se l’uomo viene posto nella giusta prospettiva, ossia come quella creatura che ha in sé un legame forte e indissolubile con l’Essere, del quale è un riflesso e, in un certo senso, una immagine, e del quale possiede coscienza (a meno che voglia deliberatamente soffocarla in se stesso), allora anche la tecnica diventa altra cosa da quella che è stata vista e pensata finora: diviene una collaboratrice della umanità dell’uomo e non viene assolutizzata, non viene investita di compiti che non le spettano (perché spettano all’uomo), non viene mai lasciata a se stessa, adorata da proni servitori-sacerdoti che vogliono imporla ovunque e a chiunque, e che sono convinti di poter cambiare il mondo per mezzo di essa.

Certo, aveva ragione Pico della Mirandola quando parlava dell’uomo come di una creatura essenzialmente indeterminata: ma, nella prospettiva di una sana antropologia (e l’umanesimo è già il frutto di una antropologia malata, perché pretende di fare creatore la creatura), tale indeterminatezza significa che egli può realizzare il proprio destino, oppure no; e che la prima cosa avviene quando egli rispetta il proprio legame ontologico con l’Essere, fallisce quando lo nega, lo rifiuta o lo recide.

In questo secondo caso, è logico che egli si rivolga alla tecnica perché lo redima dalla propria finitezza. Ma è altrettanto logico che un tale disegno non possa riuscirgli, e che la sua condizione diventi, fatalmente, quella di una disperazione cronica – che Volpi, come altri, pudicamente chiama “nichilismo”. Da cui non sarà certo la tecnica a liberarlo…