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Il processo agli strateghi delle Arginuse è monito perenne sui limiti della democrazia

di Francesco Lamendola - 09/09/2013


 

 


 

A partire dal 1945 in Occidente, e dalla fine della Guerra Fredda in quasi tutto il resto del mondo, la convinzione che il sistema democratico sia non solo il migliore fra tutti i possibili, ma l’unico autorizzato ad esistere, è cresciuta fino ad assurgere alle dimensioni del dogma. Altri sistemi politici non ce ne sono, che siano legittimi e rispettabili; e poco ci si cura di esaminare quali forze occulte e palesi, sia di natura economica che finanziaria, si servano del paravento democratico per esercitare il loro strapotere sulla società. Funzionale a tale strategia è la ricerca del consenso onde legittimare i poteri extra-legali, sfruttando le lusinghe del populismo e della demagogia e alimentandolo per mezzo di una continua campagna contro i nemici, veri o presunti, del sistema democratico. Per potersi reggere, infatti, la democrazia drogata e ridotta a pura facciata, ha bisogno di sempre nuovi nemici, che siano interni o esterni, contro i quali essa invoca ampi poteri e che le servono, di fatto, per congelare se stessa, ossia per ridurre a pura forma la sostanza della prassi democratica, delegando tutte le istanze decisionali a delle piccolissime élite di tecnocrati e finanzieri, ai quali è lasciata mano libera per tutte le decisioni veramente importanti, tanto nell’ambito economico-sociale che in quello politico-istituzionale.

Non è vero che solo i totalitarismi hanno bisogno, per mantenersi al potere, del mito di un eterno complotto nemico (il giudaismo per Hitler, il trotzkismo per Stalin): anche le democrazie ne hanno bisogno, specialmente quando hanno imboccato la strada della involuzione verso forme di pura apparenza e di concentrazione effettiva del potere economico, mediatico, finanziario, politico e militare. Bush come Obama, tanto i repubblicani che i democratici statunitensi hanno bisogno della mobilitazione permanente contro il terrorismo internazionale: a costo di incaricare i servizi segreti di fabbricare da sé gli attentati che dovrebbero dimostrare la gravità della minaccia (e poco importa il fatto che quegli stessi servizi sappiano benissimo che Al Qaida non esiste più da anni, essendo stata smantellata: una notizia che le agenzie d’informazione dei Paesi democratici si sono “dimenticate” di riportare); poco importa che le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non fossero mai esistite, né che Osama Bin Laden, probabilmente, era più utile da vivo che da morto, perché ciò poteva occultare, ad esempio, il fatto che la strategia militare americana in Afghanistan, e in tutta l’Asia centro-occidentale, si era infilata in un tragico vicolo cieco.

I sostenitori più consapevoli e meno ingenui (o in malafede) della bontà, anzi dell’eccellenza del sistema democratico rispetto a qualsiasi altro, riconoscono che essa non risiede né nella vocazione alla pace (la democrazia può essere imperialista e guerrafondaia, come si vide fin dall’Atene di Pericle), né nella giustizia sociale (qualunque cosa si intenda con questo concetto, di per sé abbastanza vago e nebuloso), ma nella certezza del diritto, nella legalità delle istituzioni, nella tutela del cittadino da parte della legge e, se del caso, perfino contro la legge. Esistono, però, numerosi casi nei quali tali affermazioni vengono radicalmente smentite; e non solo dalle cronache dei nostri giorni, o dalla storia di un secolo fa, ma fin dagli albori della democrazia stessa, vale a dire dalle vicende di Atene nella fase culminante della democrazia greca antica.

Tutti conoscono, almeno per sentito dire, il processo intentato contro Socrate, e che si concluse con la condanna a morte del filosofo; e molti sanno del processo cosiddetto delle erme, che condusse all’incriminazione di Alcibiade e che ebbe riflessi disastrosi per il destino della sua patria, impegnata per la vita e per la morte nella terribile guerra del Peloponneso. Meno noto, probabilmente, è il processo che venne intentato dalle autorità democratiche ateniesi agli strateghi che ritornarono vittoriosi dopo la battaglia delle Isole Arginuse (406 a. C.), nel corso della quale avevano sconfitto clamorosamente la flotta spartana.

L’accusa che venne loro rivolta da alcuni caporioni democratici fu quella di aver lasciato annegare i naufraghi delle venticinque navi ateniesi che, nonostante la brillante vittoria, erano andate a fondo: circa un migliaio di marinai, che trovarono la morte a causa delle mancate operazioni di soccorso. Fra i demagoghi più insistenti e aggressivi si distinse un tristo personaggio chiamato Callisseno, il quale, cavalcando le emozioni della folla e il dolore dei parenti delle vittime, fece di tutto perché il processo venisse imbastito in maniera tale da non lasciare alcuna possibilità di scampo agli accusati. In realtà, il mancato soccorso ai naufraghi era stato provocato dal sopraggiungere improvviso di una tempesta, che lo aveva reso materialmente impossibile, oltre che da un probabile malinteso fra gli strateghi e i due trierarchi da essi specificamente incaricati delle operazioni di salvataggio: due uomini politici abili e molto popolari, quali Trasibulo e Teramene. Si trattava di due oratori irresistibili, che conoscevano molto bene tutti i trucchi del mestiere e che, non appena si resero conto di quale piega stessero prendendo gli avvenimenti, non esitarono a scaricare ogni responsabilità sui loro diretti superiori, ossi sugli otto strateghi della flotta ateniese (due dei quali si sottrassero al processo con la fuga), perché solo così avrebbero potuto dare in pasto delle vittime sacrificali alla folla esacerbata e salvare, in tal modo, se stessi.

L’episodio è stato ricordato da Alessandro Ravera nel volume «I grandi filosofi: Socrate» (Milano, Il Sole 24 Ore, 2006, p.53):

 

«Nonostante la sconfitta ateniese [nella spedizione in Sicilia], la guerra si protrae per altri dieci anni: dopo la fuga di Alcibiade e la morte di Nicia, giustiziato dai Siracusani, la politica della “polis” è sempre più turbolenta: nel 411, un colpo di stato oligarchico rovescia per breve tempo il regime dei democratici, per essere poi a sua volta abbattuto da una rivolta dei marinai della flotta guidati dal democratico moderato Teramene. In un vortice di parossismo, Alcibiade passa nuovamente dalla parte ateniese e viene accolto trionfalmente al Pireo dopo aver ottenuto una serie di vittorie navali; eletto nuovamente stratega, è costretto nuovamente alla fuga dopo una sconfitta. Nel 406, Atene ottiene una clamorosa vittoria sulla flotta spartana alle isole Arginuse, ma una tempesta levatasi subito dopo la battaglia impedisce agli ateniesi di raccogliere i naufraghi. Al ritorno al Pireo, gli avversari di Teramene lo accusano di aver abbandonato i naufraghi senza motivo e questi, a sua volta, scarica ogni responsabilità sugli strateghi al comando della flotta. In quell’anno, Socrate era stato sorteggiato a far parte del collegio dei pritani; nei “Memorabili”, Senofonte gli fa dire che è inconcepibile che i reggitori della città siano estratti a sorte, “mentre nessuno, per la sua nave, si avvarrebbe di un nocchiero scelto in questo modo”, quindi è probabile che non fosse particolarmente entusiasta del ruolo. Quello a cui doveva assistere era probabilmente destinato a fargli dubitare ancora di più  sui poteri della democrazia ateniese. Di fronte alle accuse di Teramene, gli strateghi sono chiamati a discolparsi di fronte all’assemblea popolare. Senofonte, che ne parla nelle “Elleniche”, descrive un clima intimidatorio e un crescendo di provocazioni,  culminate nella testimonianza di un sedicente sopravvissuto che afferma  di essere il portavoce delle maledizioni dei compagni  verso gli strateghi. Quanti si oppongono, all’irregolarità in cui si svolge il procedimento, vengono zittiti al grido di: “non si può impedire al popolo di fare ciò che vuole”. Alla fine, i pritani convalidano la messa a morte degli strateghi richiesta dall’assemblea, l’unico a opporsi è Socrate che, invano, cerca di riportare la folla alla moderazione.

Privatasi dei suoi migliori strateghi e in preda alle più scatenate fazioni politiche, Atene subisce una sconfitta definitiva ad Egospotami, nel 404.»

 

Non è escluso che in questo processo, nel corso del quale Socrate prese coraggiosamente le difese, solo contro tutti, degli sventurati strateghi, con la motivazione che egli non sarebbe mai andato contro la legge (e la condanna a morte degli imputati, con quelle modalità e con quei tempi, era al di fuori di quanto previsto dalla legge), il filosofo si sia attirato degli odi implacabili, che, in seguito, sarebbero riemersi nel corso del processo intentato a suo carico con l’accusa di empietà e di corruzione dei giovani, processo che è ben noto come sia andato a finire.

Non è nostra intenzione addentrarci negli aspetti specificamente giuridico-legali del processo che portò al supplizio i sei strateghi che erano rientrati al Pireo con la flotta vittoriosa: anche la democrazia è un sistema politico nel quale la magistratura può essere piegata a fini di parte e, soprattutto, nel quale l’opinione pubblica può essere montata ad arte, fino a rendere, di fatto, impossibile la difesa di un condannato. Quando la sentenza è già scritta, per il prevalere di interessi di parte o per l’abbrutimento delle folle sanguinarie, non c’ molta differenza fra un assassinio illegale, come il massacro dello zar Nicola II Romanov e di tutta la famiglia imperiale russa, a Ekaterinburg, il 17 luglio 1918, e un assassinio legale, come quello decretato contro Luigi XVI e, poi, contro Maria Antonietta, durante la Rivoluzione francese.

Si dirà che, in democrazia, questi spiacevoli incidenti si verificano, ma assai più raramente che in un sistema politico illiberale, o francamente dittatoriale. Non crediamo, però, che si possa ridurre la questione a un fatto meramente numerico: una volta ammesso il principio, e sia pure a causa di circostanze eccezionali (come le detenzioni illegali e le torture istituzionalizzate di Guantanamo, giustificate con la minaccia del terrorismo internazionale), non si sa quali dimensioni potrebbe prendere il fenomeno. Non è detto che una democrazia faccia sempre e comunque meno vittime di un regime totalitario. Per tornare al caso ateniese durante la guerra del Peloponneso, è appena il caso di ricordare la strage degli abitanti dell’isola di Melo, che furono passati tutti a fil di spada dai soldati della democratica Atene, senza pietà per nessuno, come è riferito anche dallo storico Tucidide. Quanti erano gli abitanti dell’isola di Melo? Quanti potrebbero essere gli abitanti di una regione strategica, che una potenza democratica ritenga di dover sottoporre ad una punizione esemplare e magari preventiva, beninteso per tutelare la propria sacrosanta sicurezza nazionale? Fin dove potrebbe arrivare la strage; quale limite potrebbe essere riconosciuto, oltre il quale non sia lecito spingersi?

Si dirà che questi sono interrogativi etici; e che l’etica, da Machiavelli in poi, non trova più diritto di cittadinanza nell’ambito del discorso politico – non nel sistema dei valori occidentali, almeno (tranne che a parole, e solo quando ciò convenga dal punto di vista propagandistico). Eppure, nel nostro caso si tratta di domande legittime, perché è la democrazia a sostenere che esiste una differenza qualitativa, in fatto di rispetto dei diritti dell’uomo e del cittadino, fra se stessa e gli altri sistemi politici. Una volta affermato questo principio, e una volta che lo si sia sbandierato in lungo e in largo per rafforzarlo nell’opinione pubblica, è giocoforza che la democrazia accetti di sottoporsi al giudizio circa la propria coerenza ed il proprio rigore legalitario. Una dittatura può sputare sopra il rispetto dei diritti umani; una democrazia non lo può fare, a meno di suicidarsi. Dunque, è legittimo domandare: quanti uomini inermi, quante donne e quanti bambini vietnamiti, iracheni, afghani, sono stati sacrificati sull’altare della “difesa della democrazia”? Migliaia, decine o centinaia di migliaia, milioni? E che differenza c’è fra gli sventurati civili di Guernica, di Varsavia, di Amsterdam, di Londra, periti sotto gli spietati attacchi aerei tedeschi durante la guerra civile spagnola e la seconda guerra mondiale, e i civili di Dresda, di Amburgo, di Hiroshima, di Nagasaki, periti sotto i bombardamenti alleati, da ultimo effettuati con ordigni atomici?

Ma torniamo al processo delle Arginuse. Esso illustra in maniera significativa un altro aspetto caratteristico della contraddizione in cui si dibatte la democrazia, allorché passa dallo status di ideologia politica a quello di sistema politico effettivamente realizzato, cioè dal bel regno delle teorie, alla Rousseau, a quello della dura e cruda realtà, alla Saint-Just. La folla, per sua natura, è emotiva; la folla è cieca; la folla è – diceva Campanella – una “bestia grossa”, che – aggiunge Gustave Le Bon – si può condurre dove si vuole: e la democrazia si basa sul consenso della folla, non su quello del singolo individuo, pacato e razionale. Gli dèi hanno sete (di sangue), ammoniva Anatole France: e la folla è il Dio di se stessa, un Dio che si crede infallibile (il concetto del popolo sovrano): dunque, un Dio che ha bisogno di sangue, per placare la propria furia impotente, quando le cose vanno male. Ha bisogno di sacrifici umani: ha bisogno di portare a spasso in cima a una picca, di tanto in tanto, la testa del governatore De Launay di turno.

La democrazia, infatti, si regge su una grossa menzogna: che chiunque sia in grado di partecipare attivamente alla vita politica («un uomo, un voto»), cosa che la obbliga poi, per non smentirsi, a  impegolarsi in una serie di compromessi, di contraddizioni e di assurdità sempre più gravi, in una progressione esponenziale. Ma la contraddizione fondamentale è sempre quella implicita nel postulato di base: se il popolo sovrano ha sempre ragione, allora di chi sarà mai la colpa, quando le cose non vanno nel senso desiderato?

A monito perenne contro le degenerazioni della prassi democratica, dovrebbe risuonare sempre nei nostri orecchi la frase delirante che i fanatici sostenitori di Callisseno ripetevano, come un ritornello ossessionante, per coprire la voce di quanti, come Socrate, non condividevano l’impostazione del processo contro gli strateghi della flotta ateniese: «Non si può impedire al popolo di fare ciò che vuole!»; una frase che ricapitola in se stessa il limite intrinseco della democrazia: un sistema di governo in cui non contano la competenza, la probità, la dedizione al bene comune, quanto l’essere popolari al centro di una folla volubile e irresponsabile.

E, dicendo tutto questo – sia chiaro – cerchiamo d’immaginare, e auspichiamo dal fondo del cuore, qualche cosa che possa essere di più e di meglio della democrazia, specialmente come questa è stata addomesticata dal moderno potere finanziario e mediatico; non stiamo affatto rimpiangendo qualche cosa che, rispetto ad essa, sia di meno e di peggio...