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L’ampliazione del progetto del Gas Camisea minaccia l’ecosistema e gli indigeni della riserva Nahua

di Yuri Leveratto - 17/09/2013

Fonte: yurileveratto


   

L’ampliazione del progetto del Gas Camisea minaccia  l’ecosistema e gli indigeni della riserva Nahua-Nanti

Il progetto di sfruttamento del gas di Camisea, risale al 1981, quando il governo del Perú concesse alla Shell il diritto di sfruttare un’area di circa 2 milioni di ettari (ben 20.000 km. quadrati), nella zona del Rio Camisea, un affluente del Rio Urubamba, nel dipartimento di Cusco.
Negli anni successivi si scoprirono i giacimenti di gas naturale di San Martin e Cashirari.
Il contatto forzato dei lavoratori con alcuni indigeni causò la morte di vari nativi Nahua, che notoriamente non hanno gli anticorpi per resistere al contatto con persone esterne.
Proprio per questa ragione, nel 1990 s’istituì la Riserva territoriale Kugapakoris-Nahua-Nanti con un’estensione di 456.000 ettari (4560 km quadrati), allo scopo di preservare la vita degli indigeni presenti nel territorio, alcuni di essi non-contattati, mentre altri, come i Mashco-Piro, in isolamento volontario.
Nel 2003 si approvò un decreto supremo per proteggere gli indigeni presenti nel territorio e si sancì che è proibito ogni sfruttamento di risorse naturali all’interno della riserva.
Il contratto di sfruttamento del gas di Camisea, nella parte attigua al Rio Urubamba, continuò fino al 1998 con un consorzio tra Shell-Mobil e PetroPerú.
In seguito fu l’impresa argentina PlusPetrol che si aggiudicò la concessione, proprio perché promise abbondanti regalie al governo centrale e a quello regionale del Cusco.
Oggi, incredibilmente, l’impresa PlusPetrol, (insieme ai suoi partners Repsol e Hunt Oil), sta già operando nel cosiddetto “lote 88”, il cui territorio si sovrappone per un 75% alla riserva Nahua-Nanti e chiede la possibilità di sfruttarlo.
Il progetto delle multinazionali è devastante: mentre sono già in funzione decine di eliporti all’interno della riserva, si prevede di aprire centinaia di strade nella selva e mettere in funzione decine di pozzi estrattivi con un danno inimmaginabile per l’ecosistema e per i nativi.
A tutt’oggi il Governo del Perú non si è espresso, ovvero non ha risposto alla richiesta delle imprese estrattive.
Però proprio nel decreto supremo del 2003 si sancì:

Queda prohibido el otorgamiento de nuevos derechos que impliquen el aprovechamiento de recursos naturales [en la reserva]”.

Che significa:

E’ proibita la concessione di nuovi diritti che implichino la estrazione di risorse naturali nella riserva

Non si capisce pertanto come possa essere permesso alle imprese in questione lo sfruttamento del “blocco 88”.
Le terre indigene dovrebbero essere tenute libere da ogni tipo di sfruttamento esterno, sia esso minerario, idrico, forestale o biodiverso.
Il fatto che si dichiari una terra come “riserva indigena” dovrebbe automaticamente proibire ogni possibilità futura di sfruttamento, mentre purtroppo si nota che la spinta indigenista, nata inizialmente in Brasile nel 1960, mostra tutta la sua debolezza.
In alcuni casi si vieta l’accesso alle multinazionali, però contestualmente si espellono i coloni sradicando tradizioni e culture, e si permette l’entrata di ONG estere che a volte si impadroniscono illegalmente di biodiversità, come nel caso di alcune terre indigene del Brasile.
In altri casi invece come nel caso di Camisea, o come nel caso del Tipnis in Bolivia, si dichiara che un territorio è indigeno, però poi, se si trova gas o petrolio all’interno di esso, gli interessi degli indigeni vengono calpestati e viene data priorità alle grandi imprese che possono elargire regalie ai governi locali.