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L’isola inaccessibile, o il fascino dell’Altrove

di Francesco Lamendola - 02/10/2013

FILANAVAL


 

È un bel mattino di settembre, fresco e ventilato: le Alpi scintillano al sole in faccia al colle del Castello, e ai piedi di quest’ultimo, nella grande sala silenziosa della biblioteca, carica di stucchi seicenteschi, un ragazzino, che vi è penetrato per la prima volta come nel “sancta sanctorum” del sapere, si accinge ad esaminare l’incredibile tesoro che l’impiegato della distribuzione gli ha passato da dietro il cristallo del bancone, dando inizio, con quel gesto, a una vera propria iniziazione al mistero, alla letteratura e all’Altrove.

 Il ragazzino incomincia a sfogliare il libro che si trova fra le mani - quasi incredulo di tanta fortuna, d’aver trovato così, di primo acchito, proprio ciò che cercava e che per mesi, per tutta l’estate, aveva ardentemente sognato di trovare. Incomincia a guardare le fotografie in bianco e nero che lo illustrano… e rimane folgorato. Si è imbattuto in una immagine che, non saprebbe dire per quale ragione misteriosa, gli è andata dritta al cuore, come se gli avesse portato un messaggio segreto atteso da sempre, in silenzio.

Raffigura una nave a vapore che si piega sul fianco, in un mare mosso, ormai in procinto di scivolare nel suo liquido sepolcro; alle sue spalle, vicinissima, una parete rocciosa s’innalza rapidamente in una serie di guglie e di pinnacoli danteschi, raggiungendo un’altezza straorinaria: come un frammento delle Dolomiti che scaturisca dall’oceano e nasconda la sua sommità inaccessibile fra le nubi che il vento ha portato ad impigliarsi lassù, dove lo sguardo stenta ad arrivare. La nave, dice la didascalia a pie’ della foto, si chiama «Titania» e la sua sagoma svelta ha qualcosa della grazia della Regina delle Fate nel shakespeariano «Sogno d’una notte di mezza estate»: una grazia un po’ incongrua, a dire il vero, in quel luogo e in quella situazione; ma che aggiunge fascino e mistero a tutto l’insieme…

È una scena quasi surreale: vi è una tale forza compressa e vagamente minacciosa in quel formidabile blocco di nuda roccia, verticale, senza un albero né un arbusto; vi è una tale grandiosa maestosità epica, per non dire drammatica; e, al tempo stesso, una tale aura di malinconia e di mistero in quella snella, elegante nave in procinto d’inabissarsi, con gli alberi e il fumaiolo inclinati di quasi quarantacinque gradi sulla superficie delle onde, che già tendono al bruno d’un esotico tramonto, da imprimersi nell’anima del ragazzino con una intensità straordinaria, lasciandovi un’impronta che non si dissolverà mai più del tutto.

Da quel mattino di settembre da quella folgorazione improvvisa incomincerà la scoperta dell’Altrove; e il primo effetto di essa sarà di spingerlo a far riprodurre la fotografia e poi farla incorniciare, per appenderla sul muro della sua camera, sopra il tavolo dei libri di scuola, in modo da poterla contemplare ad ogni momento, solo alzando lo sguardo mentre è seduto a studiare: un fascino arcano, potente, irresistibile si sprigiona da quella scena.

Egli non sa nulla, a quel tempo, dell’estetica del sublime; non conosce i pittori romantici tedeschi, non ha mai visto una riproduzione di «Scogliere bianche a Rügen» di Caspar David Friedrich; non ha letto Schopenhauer, anzi non sa nemmeno chi sia, e ignora la relazione fra l’orrido e il sublime; ma proprio per tale verginità dello spirito, quella rivelazione lo ha colpito con tanta più forza: perché essa non ha incontrato alcun filtro culturale, capace di ammortizzarla. È giunta al segno con tutta la sua forza primigenia, unendo il fascino del libro antico, delle cose passate, con quello della natura viva – il ragazzino è un grande amante della montagna. All’incrocio fra realtà e fantasia, fra emozione delle cose vissute ed emozione letteraria, delle cose immaginate e fantasticate, quella scena inverosimile, così carica di “pathos” e di oscuri significati simbolici (cari amici psicanalisti, sbizzarritevi, se così vi piace), ecco che la Poesia ha bussato alla porta della sua anima, e ha bussato con forza: sarebbe più esatto dire che ha fatto irruzione, ospite non invitata, eppure segretamente attesa e desiderata, e, come nella visione dantesca della «Vita nova», ha dichiarato solennemente al suo nuovo adepto: «Ego Dominus tuus».

Ed ecco, emozionatissimo, incomincia a leggere le parole e le frasi stampate sulla pagina ingiallita, sentendosi immediatamente, e quasi violentemente, trasportato in un Altrove assoluto, senza nome e senza tempo (da: Hans Pochhammer, «L’ultima crociera dell’Ammiraglio Spee», traduzione dal tedesco di Pfüttzer-Gaby-Bauer, Milano, Arti Grafiche Omero Marangoni, 1932, pp. 160-61):

 

«Martedì 26 ottobre, di prima mattina, ci avvicinammo a Mas a Fuera. Sulla costa occidentale dell’isola una parete a picco rocciosa si eleva rapidamente a più di mille metri sul livello del mare. Ciò dà una grande impressione e appare talmente inospitale da indurre ben difficilmente le navi a soggiornarvi a lungo. Tuttavia il distacco della roccia dalle profondità del’oceano non è così netto come potrebbe sembrare, poiché un fondale dai 50 ai 60 metri consente di avvicinarsi all’isola. Ancorati al riparo di questo gigantesco blocco di rocce, che sembravano guardare dall’alto in basso le microscopiche sagome delle nostre navi, noi v trascorremmo alcuni giorni penosi, di lavoro febbrile. Oggi ancora è viva in me la prima impressione datami da quell’incombente colosso, che ci dominava. Nell’aria fredda e umida del mattino, noi ci accostammo quindi intenti allo scandaglio, e ci ancorammo assai vicino alla riva.

Avvicinatasi ‘”Amasis” col rifornimento di carbone si incominciò subito l’approvvigionamento del combustibile, lavorando giorno e notte fino all’indomani, nonostante il mare mosso, che ci disturbava.

Il 28 ottobre, di notte,  con un magnifico chiaro di luna lasciammo l’ancoraggio. Per molto tempo non si perdette di vista la scura massa dell’isola: il giorno dopo, a tribordo, a circa 30 miglia di lontananza vedemmo anche la sua gemella, Mas a Tierra, l’isola di Robinson…»

 

Il marinaio che ha scritto quelle frasi era lì, ha visto con i suoi occhi quell’isola fantastica, ha respirato l’odore di salmastro di quel libero cielo, ha sentito sulla sua pelle l’umidità di quel lontano mattino del 1914, in quell’angolo dimenticato del mondo; e indi, solo qualche giorno dopo, avrebbe partecipato ad una delle più famose battaglie navali della prima guerra mondiale, in cui una squadra tedesca sbucata inaspettatamente dall’altra estremità del Pacifico, avrebbe inflitto una bruciante sconfitta all’orgogliosa flotta britannica, la signora dei mari.

Il ragazzino rimane turbato, quasi sconvolto dalle emozioni che quella immagine, quelle parole hanno suscitato in lui: prende a prestito il libro e torna a casa trasognato, come chi abbia scoperto che, di colpo, quella che sembrava una parete cieca nascondeva una finestra, e quella finestra si è spalancata, rivelando l’immensità che si proietta fuori del tempo e dello spazio, come in certi racconti del soprannaturale...

E quella parete rocciosa, così nuda, quasi crudele; così smisuratamente, vertiginosamente alta, tanto da far apparire minuscole le grandi navi da guerra, gli incrociatori ancorati ai suoi piedi: qualcuno l’avrà mai esplorata? Qualcuno si sarà mai spinto fino in cima? E subito, nel ragazzino, nasce un sogno: un giorno lui ci andrà, svelerà il suo mistero, scalerà quella nuda parete, conficcandovi i chiodi e guadagnando un metro dopo l’altro, lassù, verso il cielo, verso la vetta nascosta in una cortina di nuvole.

Ma intanto, la prima domanda è: dove si trova, quell’isola? Non l’ha mai sentita nominare prima: strano, perché la geografia è stata il suo primo e grande amore e conosce l’atlante quasi a memoria; ha persino disegnato, con cura e minuzia infinite, le coste dell’Asia, dal Mar di Kara allo Stretto di Bering; e poi fatto la cartina di tutti gli Stati del mondo; e riempito parecchi quaderni, sino a formare una specie di enciclopedia geografica. Anche della prima guerra mondiale è un grande appassionato, e ne ha scritto la storia, battendola a macchina e poi rilegandola in un volumetto, grazie a uno zio che è tipografo: ma di quell’ammiraglio, di quelle battaglie navali combattute così lontano dall’Europa, non aveva mai sentito parlare.

Appena tornato a casa, prende l’atlante e va a cercare l’ubicazione dell’isola: sospetta che debba trovarsi nel dedalo di arcipelaghi del Cile meridionale, dispersi fra il Golfo di Ancud e Capo Horn: una distesa costiera immensa e frastagliatissima, un vero labirinto; è come cercare un ago nel pagliaio. Niente, non la trova. Allora gli viene l’idea di consultare l’indice: sì, eccola lì, lei e anche la sua gemella; e finalmente riesce a individuarla: certo che non la trovava, non è affatto dove l’aveva cercata, ma molto più al largo, e anche più a nord: proiettata verso la sconfinata vastità del Pacifico. Ora il ragazzino può immaginarsela nello spazio e prova un senso di soddisfazione. Ancora non sa, non ha compreso che è così che i sogni cominciano a impallidire, prima dell’alba; così come le fiabe dei bambini impallidiscono davanti all’avanzare dell’età adulta, che vuol dare un nome a tutte le cose e una spiegazione razionale a ogni evento..

Al giorno d’oggi anche il grande pubblico è venuto a conoscenza del nome di quell’isola, perché, nel 2012, lo scrittore statunitense Jonathan Franzen ha scritto un libro ispirato a un soggiorno solitario su di essa, che era, ed è tuttora, disabitata: «Farther away» («Più lontano ancora»; «Mas afuera» nei Paesi di lingua spagnola); ma allora era ignorata da tutti, benché sia un autentico santuario della natura, rifugio di alberi, felci e altre specie vegetali sontuose ed uniche al mondo.

Più tardi, mobilitando un amico inglese del padre, si farà arrivare dall’università di Oxford le fotocopie di un vecchissimo articolo illustrato, scritto da un botanico svedese che visitò ed esplorò quel minuscolo arcipelago pochi anni dopo il passaggio della squadra navale tedesca, mentre ancora, in Europa, infuriava la prima guerra mondiale; e, più tardi ancora, riuscirà a farsi spedire, per posta, dall’Università di Santiago del Cile, due grossi volumi in lingua spagnola, che uno storico di quel Paese aveva scritto, quasi un secolo prima, sulla gemella più famosa: quella in cui si svolse la vicenda del “vero” Robinson, un marinaio scozzese che vi fu abbandonato, all’inizio del XVIII secolo, dal suo crudele capitano e che vi rimase, in perfetta solitudine, per quattro anni e quattro mesi, senza nessun Venerdì a fargli compagnia.

Ma questi arricchimenti sarebbero venuti in seguito, nella paziente, tenace raccolta di ogni genere di materiale bibliografico che riguardasse la “sua” isola; per ora, il ragazzino continua a fantasticare di quando sarà pronto a partire per quei mari lontani, di quando riuscirà a sbarcare su quel surreale frammento delle Dolomiti scaturito in seguito a chissà quale antichissima eruzione vulcanica, e si accingerà a scalare la nuda, paurosa parete di roccia, giungendo per primo sulla vetta inviolata. Infatti, qualche anno dopo frequenterà anche un corso di roccia, sempre pensando a come gli sarà utile, anzi indispensabile, per realizzare il suo sogno segreto.

Tutto preso dall’entusiasmo della scoperta, ignora il grande segreto: che le cose non sono belle (o brutte) in se stesse, ma che la bellezza (o la bruttezza) sono nell’occhio che guarda; e che voler tradurre in realtà i propri sogni più cari, significa inevitabilmente esporsi a una solenne delusione: quale realtà, infatti, per quanto attraente, potrà mai gareggiare con la bellezza dei sogni, che, essendo indefinita, sopravanza sempre, per sua stessa natura, qualunque cosa bella esistente nel mondo concreto?

Il ragazzino non ha ancora letto Pavese, non conosce la poesia «I mari del Sud», in cui un emigrante piemontese, dopo vent’anni di assenza, torna dalla lontanissima Tasmania e racconta al cugino le sue avventure di caccia alla balena, come un Melville redivivo; ma ormai è acqua passata: «… Solo un sogno / gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta, / da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo; / e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole, ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue / e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia. / Me ne accenna talvolta. // Ma quando gli dico / ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora / sulle isole più belle della terra, / al ricordo sorride e risponde che il sole / si levava che il giorno era vecchio per loro.»

Quel marinaio aveva perso l’incanto del mondo, o forse non lo aveva mai conosciuto: per lui, l’alba sorgeva su un mondo già vecchio, reso tale dalla fatica del duro lavoro. Ma non è vero che saper prendere la vita per quello che è equivale a perdere l’incanto del mondo, e che per diventare adulti bisogna ammainare i propri sogni.

A lungo quel ragazzino ha creduto che, per conservare questi ultimi, bisogna realizzarli così come li si era sognati; poi, molti anni dopo, è caduto nell’errore opposto, pensando che l’unico modo di non perderli sia quello di tenerli eternamente sospesi nel vuoto. Illusioni entrambe: per conservare i propri sogni, bisogna viverli; ma con l’anima pacificata, guardando avanti, senza timore né brama…