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Erich Priebke e lo spettacolo indegno di Albano

di Alessio Mannino - 16/10/2013



L’indegno assedio con cui ieri una folla inferocita ha accolto la bara del capitano delle SS Erich Priebke nella Confraternita Pio X ad Albano Laziale dimostra due cose. La prima è che l’odio ideologico può far travalicare il rispetto che si deve ai morti, a tutti i morti. È una conquista propria dell’humanitas il diritto alla sepoltura e alla cerimonia funebre, che assieme alla pietas per il vinto, foss’anche il nemico più irriducibile ed efferato, costituisce il sentimento fondante della civiltà in quanto tale, fin dall’antichità (vae victis è il motto della barbarie). La violenza e il disprezzo per un cadavere fa tornare indietro ad uno stadio bestiale, ferino. E questo sarebbe il modo per difendere i valori universali della libertà, della democrazia e dell’antifascismo, aggredire un corpo senza vita?
L’obiezione posso immaginarla: non può esserci pietà, neppure da morto, per chi non ha avuto pietà contro degli innocenti settant’anni fa e che per giunta, prima di morire, ha lasciato un’intervista-testamento in cui rivendicava la propria fedeltà al passato e negava lo sterminio nazista. Ma accanirsi su un mucchio di carne e ossa in putrefazione non solo è un atto abominevole in sé, ma regala una formidabile alea vittimistica a quelle stesse idee che i nostalgici della Resistenza vogliono distrutte per sempre. Ecco, vedete – diranno i rivali nostalgici del nazifascismo – i partigiani del terzo millennio se la prendono pure coi morti, siamo noi i perseguitati, quindi è giusto reagire e controbattere aggredendo e picchiando a nostra volta. E via con l’ennesima giostra macabra delle polemiche che puzzano di catacomba, fascisti contro antifascisti, fanatici contro fanatici, gli uni in preda alla paranoia uguale e contraria agli avversari.
E infatti il secondo fatto amaramente triste è la persistenza, in minoranze mediaticamente molto rumorose, dell’immaginario, delle ideologie, dei simboli e dei miti di un’epoca che non ha più nulla in comune con la nostra sul piano sociale, economico, culturale e di conseguenza politico.  
In altre parole, dopo quasi tre generazioni i sistemi simbolici che riescono a fomentare sentimenti estremi e assicurare identità forti sono ancora il nazifascismo da un lato e il comunismo, con le sue varie filiazioni più o meno autentiche, dall’altro. A parte l’universo ideologico della liberaldemocrazia, intollerante in egual misura ma incapace di accendere entusiasmi e avversioni non essendo una fede attiva ma un’abitudine passiva, non sono più riuscite a formarsi narrazioni di pensiero originale e attuale, dotate di tutti gli ingredienti necessari a conquistare l’anima del popolo assoldando adepti devoti alla Causa.
Così, in assenza di nuovi “ismi” elaborati dalla realtà viva di oggi o del vicino ieri, la fisiologica percentuale di società in rivolta contro la società non può fare altro che cercare all’indietro trovando la mitologia, la liturgia e la simbologia alternativa nel mondo di un lontano ieri. Scambiando l’ammirazione e la nostalgia per un passato finito, superato e disumano – il Marx profeta positivista ha seminato una scia di errori e orrori, il razzismo biologico ha mostrato il suo volto genocida – per un malinteso senso rivoluzionario. Quando al contrario le rivoluzioni, se hanno un senso e si realizzano, riescono con la forza di formule inedite. Non continuando pateticamente a inscenare guerre vecchie una o due vita fa.
Incivili, paranoici e pure cretini, tutti questi necrofili rossi o neri.